VIII
Quello che don Alberico avea pronosticato al maggiordomo di
casa, che cioè il dottor Gallaroli avrebbe fatto, tornando alla visita della
sera, un grande scalpore al sentire che non s'era ancor mandato a chiamare il
prete, avvenne per l'appunto.
Il conte F..., in quelle sei o sette ore che erano passate
dal consulto al suono della campana serale, aveva peggiorato a furia; onde il bisogno
del prete erasi fatto più necessario che mai. Come dunque montasse in collera
il medico della cura, sebbene per abitudine gioviale e cortese ed anche un po'
adulatore, è facile imaginarsi. Si trattava di spargere di sè e delle sue
osservanze religiose un'opinione favorevole, la quale lo avrebbe ingraziato al
clero in cura d'anime, certo che un medico dee necessariamente tenersi
confederato; e il dottor Gallaroli tanto più salì sulle furie, quanto più era
straordinaria e cospicua l'occasione. Data pertanto una buona sgridata al
maggiordomo, perchè in quel momento la collera serviva al suo intento, come
altre volte la giovialità e la condiscendenza, partì facendosi promettere
obbedienza intera, e raccomandandosi in ispecial modo, e qui cangiando tono e
frasi e faccia, a don Alberico. Non però cessarono le dispute tra questo e il
maggiordomo, dopo che il medico si fu partito. E il Rotigno non faceva che
ripetere i paralogismi sfoderati fin dal mattino col figlio del signor conte,
difendendo il suo proposito con tanto maggiore insistenza e caparbietà, quanto
più disperava della possibilità di potervisi mantenere; anzi l'insistenza e la
caparbietà crebbe al punto che diventò iraconda petulanza; tanto la
considerazione del pericolo vicino lo avea fatto uscire da quelle misure di
rispettosa convenienza che pur gli erano comandate dalla sua condizione e da
quella di don Alberico. Ma ciò gli partorì appunto l'effetto contrario a quello
per cui si crucciava; che don Alberico, inasprito da quella così audace contraddizione,
ordinò a' domestici che tosto andassero a chiamare don Giacinto di Santa Maria
Podone.
I domestici di casa F... non erano mai stati i più pronti
esecutori degli ordini di don Alberico, perchè il conte padre e il maggiordomo
erano sempre stati i soli a far paura alla
servitù; ma in quel momento successe una repentina diversione. Il conte padrone
potea morire; e allora il maggiordomo, cessando a un tratto di essere dopo di
lui la persona più autorevole della casa, doveva diventare invece il servitore
devoto di don Alberico, non rimanendo, in quanto al resto, che l'uomo il più
abborrito dai dipendenti; perchè questi, se lo avean sempre
obbedito con prontezza, lo avevano anche sempre
odiato con effusione, per quelle relazioni di sudditanza oppressa e di tirannia
che intercedono quasi sempre tra un
maggiordomo e le livree d'una casa. Don Giacinto fu dunque mandato a chiamare.
Il vicario di Santa Maria Podone, indignato di essere stato messo alla porta
dal maggiordomo quando erasi presentato a visitare il conte, non s'era più
mosso, ma sentendo peggiorar sempre le notizie
della salute del conte, aspettava di venir invitato. Quando pertanto il servo
di casa fu a dirgli, che venisse subito perchè il conte padrone stava a
malissimi termini, tosto accorse.
Il maggiordomo, allorchè vide il prete entrar nella stanza
da letto del conte F..., provò quell'oppressione di cuore e quello sgomento
onde è assalita una moglie infedele che, sorpresa dal marito, lo veda entrar
nella stanza dove avea creduto di poter nascondere il furtivo amante.
Don Giacinto il quale, per una lunga abitudine al letto
degli ammalati, aveva fatto, come suol dirsi, l'occhio medico, avvistosi tosto
del massimo pericolo in cui versava il conte, senza por tempo in mezzo gli
propose la confessione, che dall'ammalato incadaverito fu accettata.
Quando la vecchia cameriera uscì per lasciare il padrone da
solo a solo col prete, trovò il maggiordomo che s'indugiava nella sala vicina.
- Or come sta il padrone? quegli le chiese.
- Sta con don Giacinto e si confessa. Usciamo tutti di qui,
e non si lasci entrar nessuno.
- Io mi fermerò, e non entrerà alcuno; disse il maggiordomo
preoccupato; e, uscita la vecchia, in prima egli si diede a passeggiare per la
camera, rallentando di tratto in tratto il passo, per finire a fermarsi poi del
tutto in un angolo della sala, raggruppato in un atteggiamento che significava
la più profonda concentrazione in un pensiero unico. Ma a riscuoterlo entrò
improvviso don Alberico che gli disse con accento di meraviglia:
- Or che fate lì rincantucciato? E la sua voce risuonò in
quel profondo silenzio: chè tutti i servi si erano allontanati.
Alla voce di don Alberico, la quale distintamente arrivò fin
all'orecchio dell'ammalato, rispose un sospiro grave, anzi un gemito rantoloso
dell'ammalato stesso. I due, scossi da quel gemito, stettero un momento
immobili e senza quasi tirare il fiato.
- Or su, coraggio, dica pur tutto.
Era il prete che parlava; ma il prete quasi nel punto
medesimo usciva, e vedendo i due:
- Presto, si chiami qualcuno, che al padrone è sorvenuto un
deliquio. - E diede egli stesso una strappata al campanello, e s'udì lungo le
sale silenziose l'oscillazione prolungata del filo metallico.
Accorse incontanente la vecchia cameriera, ed entrò col
prete nella stanza del conte.
- Or vedete, disse allora il Rotigno a don Alberico, i buoni
effetti da me pronosticati di queste negre sottane.
- E che si doveva fare? rispose il giovane.
Dopo una mezz'ora il conte erasi tanto quanto riavuto, onde
don Giacinto, fatta di nuovo uscir la vecchia, ripigliò la confessione.
Ma ora non creda il lettore di potere, introdotto da noi in
quella stanza di morte, mettere la testa tra le orecchie del prete e la bocca
del conte. No; di quella confessione noi non sappiamo nè principio, nè mezzo, nè
fine. Chè il sacramento della penitenza non è costituto criminale, e non si
traduce in processo verbale a saziare la curiosità dei posteri curiosi.
Soltanto possiamo dire che, allorquando il prete uscì, il maggiordomo che lo
attendeva alla porta per leggergli in volto e penetrargli l'anima, non vi potè
legger nulla; o, diremo più giusto, non vi notò altro che quell'abituale
tranquillità del sacerdote che ha fatto il suo dovere; ed anzi quella
tranquillità era tale che se la sentì trasfusa in se medesimo. In quanto a noi,
volendo avventurare qualche congettura, regolandoci con quello che avvenne
dopo, ci pare di poter sospettare, che il conte fosse al punto di fare al
sacerdote la rivelazione intera d'ogni cosa; ma la combinazione fatale avendo
voluto che in quel punto la voce dell'unico erede gli suonasse all'orecchio,
quella bastò per impietrargli il segreto in gola. L'indomita ambizione e il
pensiero della grandezza del casato perpetuata nel figliuolo, fu più forte
d'ogni altra angustia, e tacque; vogliamo dire, è assai probabile che sia
avvenuto così, perchè, del rimanente, ripetiamo, non sappiam nulla di preciso.
La mattina successiva, sacerdote e dottore furono al letto
del conte; e il malore, durante la giornata, progredì al punto che, nel dopo
pranzo, fu indispensabile accorrere col Viatico, in vista del quale, coi
cappelli devotamente levati, ci staccammo da quella schiera di giovinotti
avventori del caffè del Greco. Ma come essi per raccoglier novelle della salute
del conte F... lasciarono il palazzo del Capitano di Giustizia; a noi conviene
invece ritornare di necessità in quel luogo, nell'aula degli interrogatorj. E
dobbiamo ricordarci anche della Gaudenzi, venuta colà a visitare Lorenzo Bruni.
Se non che il dialogo che s'impegnò tra questo e la bellissima danzatrice, e il
terzetto a cui si allargò il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri, interessa
un ordine di fatti che qui potrebbero far sbadigliare il lettore, tutt'altro
che disposto a tener dietro al corso generale delle cose di quel secolo in un
punto che più ci attirano le particolarità del processo; per la qual cosa
omettiamo un tal dialogo, reclamando il diritto ai ringraziamenti.
Dall'auditore che parlò nel cortile del palazzo di Giustizia
cogli amici del caffè del Greco, abbiamo sentito come il primo cameriere
dell'albergo dei Tre Re messo agli interrogatorj abbia, in prima, deposto
contro il lacchè Suardi, dicendo di aver giuocato con lui in una delle sere
della settimana grassa; poscia, interpellato se fosse disposto a raffermare la
deposizione col giuramento, siasi ritratto di un passo, accusando la
possibilità che la memoria avesse mai potuto tradirlo. In tal guisa veniva a
riuscire secondo l'espressione dell'attuaro, irrita affatto la sua prima
dichiarazione, e però a risolversi in un indizio, più che insufficiente, nullo.
Se non che il causidico praticante nello studio dell'avvocato Agudio, che era
un tal Gerolamo Benaglia, recatosi a Cremona, aveva trovato all'albergo del
Sole il secondo cameriere, e interrogatolo, lo aveva sentito confermare
l'asserzione del primo, dichiarandosi inoltre pronto e a giurare e a sostenere
il confronto col medesimo Galantino; perciò, senza por tempo in mezzo, avealo
condotto seco a Milano; del che avendo dato avviso al signor capitano di
giustizia, questi avea ordinato che il dì dopo dovesse comparire per essere
sentito in giudizio.
Il marchese Recalcati, se per le molte circostanze sorvenute
era disposto a lasciar corso liberissimo alla giustizia senza riguardi obliqui
per nessuno, e nel bisogno a parlare anche in Senato, dove il capitano spesso
era chiamato e sentito; non però aveva mai avuto gran voglia di comunicare una
velocità straordinaria all'andamento del processo. La sua natura onestissima
era pur sempre alle prese con quella sommessa
deferenza ch'egli sentiva per chi voleva virare il naviglio in modo, che
finisse per perdersi in alto mare, lontano dalla vista del pubblico.
Ma l'esame fatto alla contessa Clelia V..., le franchissime
parole di lei, le calde sue sollecitazioni raddoppiarono la sua onestà e
scemaron la deferenza ch'egli avea per altri. Però venne in pensiero di dar
corso più rapido al processo, e a tal fine volle, che il secondo cameriere
venuto a Milano col causidico praticante Benaglia dovesse comparire in giudizio
quel dì medesimo, senza attendere il giorno successivo; e siccome l'ora erasi
fatta tarda, così dispose che l'esame si avesse a fare dopo i vespri a chiaro
di lucerna, e gli esaminatori dovessero, al bisogno, vegliar la notte perchè
"col sorgere del sole (togliamo queste parole dal processo) qualche lume
di verità dovesse rischiarare la casa della giustizia".
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