III
Più dunque era il guadagno de' fermieri e degli interessati
della Ferma, più cresceva in essi, meglio che il desiderio, la libidine del
guadagno e la gelosia sospettosa che il pubblico frodasse loro qualche cosa. In
quell'anno 1754 erano diventate frequentissime e vessatorie le perquisizioni
nelle botteghe, ne' magazzini, nelle case private, persino in quelle delle più
cospicue famiglie, persino ne' conventi e nei monasteri, i privilegi de' quali,
in faccia alle inesorabili esigenze della Ferma, venivano transitoriamente
sospesi dalla sacra Congregazione. L'avarizia e l'auri sacra fames de' fermieri
aveva loro consigliato un sistema di prodigalità nella corruzione, vogliamo
dire che essi facevano regali così lauti e pesanti ai pochi nelle cui mani
stavan le redini principali della cosa pubblica, che questi, interessati
indirettamente negli utili, aprivano le mani per star pronti a chiudere gli
occhi, e a proteggere gli abusi, le prepotenze e le esorbitanze colla legge e
colla forza. A Ferragosto, a Natale, ogni qualvolta era opportuno, si mandavano
a coloro che potevano quel che volevano, casse di cioccolata sopraffina di
Caracca, i cui pani dovevano far l'ufficio di coprire un sedimento di talleri,
o di zecchini, o di oggetti preziosi in oro, in argento, in gemme, a seconda
del grado e dell'indole dell'uomo. Una volta tra l'altre - e crediamo sia stata
la sola perchè l'occasione e il bisogno fu della massima importanza - un
servizio da tavola tutto d'oro, del valore di circa ottantamila ducati, venne
avvolto nella bambagia, dissimulato appunto dalla fragranza del cacao, del thè
e del caffè; e così spedito al ministro Kaunitz. Nel torbido adunque si pescava
chiaro; e il sinedrio dei divoratori sedeva a tavola con formidabili ganascie,
mentre i loro commessi entravano dappertutto insolentemente a metter sossopra
merci, masserizie, mobiglie, per cercare quel che talvolta non c'era, e spesso
per avere l'occasione di metter l'indulgenza a caro prezzo.
Una tale tempesta imperversò, come dicemmo, in quell'anno
1754 più ancora degli anni addietro, al punto da costringere i cittadini a
perdere la pazienza.
In poco spazio di tempo, dice il cronista di sant'Ambrogio
ad Nemus, la città in ogni ordine di persone si vide tutta contro i fermieri.
Non potendo privarsi degli oggetti utili e indispensabili per privare i
fermieri del guadagno che ne ritraevano, risolsero di smettere l'uso del
tabacco, dal quale appunto ricavava la Ferma il principale provento. Sembra
incredibile ma fu vero, continua il cronista, ed in poco più di quattro giorni,
tanto nella città capitale che in altre città del Ducato, l'impresa del tabacco
rimase quasi del tutto abbandonata. Si bruciarono in piazza mucchi di
tabacchiere di legno; quelle d'argento furono mandate in offerta al sepolcro di
san Carlo; si stamparono patenti scherzevoli sopra il tabacco, e motti derisorj
da mettersi nelle scatole vuote e da inviarsi a chi si fosse pensato di non
obbedire al voler generale; si scrissero componimenti poetici, sonetti, scherzi
d'ogni sorta che rapidissimamente facevano il giro di tutto il Ducato.
All'ingresso dell'Impresa generale del tabacco, situata in Pescheria Vecchia,
fu appeso un cartello colle parole cubitali: Bottega d'affittare fuori di
tempo; fu gettato un arcolajo tra gli assistenti della Ferma che sedevano in
essa bottega, per indicar loro che attendessero a far giù filo, non avendo più
occasione di vender tabacco; s'indirizzò da essi una frotta di contadine,
venute a Milano per vender filo; di notte s'affiggevano in molte parti della
città iscrizioni d'ogni foggia, relative tutte al medesimo oggetto; fu fatta
circolare una leggenda erudita contro il tabacco, estratta dalla scuola del
Buon Cristiano, stampata nel 1733 dal Marelli; fu diretto un sonetto a sua
eccellenza il signor conte don Beltrame Cristiani, capo della Giunta
governativa, sostenitore de' fermieri, e mangiatore anch'esso alla buona tavola
comune, sebbene, del resto, fosse un egregio ed abile e dotto uomo; le quartine
del qual sonetto erano le seguenti:
Il volere arricchir troppo le Imprese
È un vero impoverir tutti i mercanti,
È un voler che Milan fra stenti e pianti
Vada il vitto a cercar fuor del paese.
Manca il danaro e non si guarda a spese
Per arruolare battidori e fanti;
Giuro, se va così, per tutti i santi,
Che Milan diverrà come Varese.
Sulla nuova fabbrica del palazzo dello stesso conte
Cristiani in Monforte fu appesa l'iscrizione: Sumptibus Firmaræ generalis; la
qual contrada di Monforte, appunto per esservi il palazzo del conte Cristiani,
da qualche anno veniva chiamata dal buon popolo milanese: Contrada delle
Quattro ganasce, adoperando esso al solito quella satira gioviale che è una
qualità caratteristica della sua indole e di cui è tutto quanto condizionato il
suo dialetto.
Per sei mesi continuò così la popolazione ad astenersi dal
tabacco. Se non che i lamenti essendo stati rivolti anche alla cattiva qualità
di quello che si vendeva prima dell'anno 1754, i fermieri cominciarono a
introdursi con destrezza tra persona e persona, a donare alcune prove di
tabacco veramente perfetto a varie delle più cospicue e nobili case, le quali a
poco a poco si arresero. E Andrea Suardi, con insolita scaltrezza, per ricattar
l'impresa e ricattar sè stesso del danno passeggiero, propose ai capi della
Ferma, al fine di rimuovere il popolo milanese dalla risoluzione di non prender
tabacco, di farlo venire da altrove, per qualche tempo, come se fosse di
contrabbando.
Ed egli s'impegnò di governare il nuovo stratagemma, e di
vincere la universale fermezza coll'inganno. Di tal modo l'astuto ottenne di
gabbare e la popolazione e la stessa Ferma; chè l'una e l'altra, prese come
furono all'amo, lavorarono a tutto suo vantaggio. Ed ecco in qual modo.
Da molto tempo egli erasi accorto del quanto avrebbe
guadagnato chi si fosse posto a capo di un vasto contrabbando, mettendo in
lizza l'odio che la popolazione avea contro la Ferma; ma un tale assunto, oltre
che era pericolosissimo per chicchessia, a lui riusciva impossibile, impegnato
com'era colla ferma stessa; perchè necessariamente avrebber dovuto dar nell'occhio
le sue pratiche coi capi dei contrabbandieri di confine, detti volgarmente
spalloni. Quando pertanto gli parve che il contrabbando poteva servire a far
credere al popolo che a prender tabacco frodato si perdurava nella
dimostrazione contro i fermieri, e che ciò intanto veniva opportunissimo a far
ripigliare un'usanza, che, per puntiglio, potea facilmente andare in
dissuetudine, egli lo propose ai capi, a cui il nuovo trovato parve una
scoperta mirabile. Il Suardi in tal modo, sotto gli occhi e per volontà degli
stessi fermieri, si mise in relazione coi così detti spalloni di confine,
relazione che non abbandonò più, anche allorquando, dopo un anno, ogni cosa
tornò alla condizione primiera; per il che e da una parte e dall'altra i
guadagni fioccarono nella sua cassa.
Mandava inesorabilmente i suoi fanti a sequestrare nei
magazzini e nelle botteghe il tabacco e le altre mercanzie di contrabbando; ed
era spesso quel tabacco ed eran quelle mercanzie stesse de' cui contrabbandi egli
era il manutengolo supremo. Così era pagato lautamente dai capi della Ferma, e
nel tempo stesso era ringraziato dagli spalloni che guadagnavano per lui e con
lui. Faceva da Giasone e facea da Medea, facea da Paride e Menelao. Tanto il
diavolo poteva parere un semplicione al suo
confronto.
|