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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO SETTIMO
    • V
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V

Il giovane Crall, uscito dal Palazzo Ottoboni-Serbelloni, fece la via con quell'affannosa sollecitudine di chi non ha altro timore che d'arrivar tardi. Passando a volo tra gente e gente, venuto alla corsia de' Servi, svoltò a sinistra nella contrada de' Pattari, passò per piazza Fontana, venne in contrada Larga, attraversò la contrada Velasca e, riuscito a Porta Romana, piegò a destra, e svoltò infilando la viottola di san Vittorello, giunto alla metà della quale entrò in una porta larga e tozza, quella porta medesima su cui oggi si legge - Vettura per città e per campagna. Attraversato il cortile, si fermò davanti ad un ingresso chiuso da due imposte, nella destra delle quali era infisso un pendulo martello a serpente. Diede due gran colpi, l'uno vicinissimo all'altro, poi attese alquanti secondi, e diede un terzo colpo più deciso e più sonoro dei due primi. Allora le imposte si spalancarono, come se un nascosto congegno le avesse fatte girare, e com'egli fu entrato, quelle si chiusero dietro lui. Il luogo dove lord Crall avea inoltrato il piede, era un'aula vasta; tre lampade pendevano dalla vôlta. Questa e le pareti eran tutte tappezzate di drappo nero; scheletri interi e frammenti di scheletri umani, costati, braccia, stinchi, teschi erano appesi intorno intorno come trofei. Una gran tavola coperta di panno nero era ad un'estremità dell'aula. Assiso innanzi ad essa stava un vecchio, d'aspetto grave, con due altri seduti alla destra ed alla sinistra di lui. Sulla tavola, davanti all'uomo seduto nel mezzo, era un teschio, uno squadro, una cazzuola ed altri ordigni. Dietro a lui, molto in alto, pendeva dalla parete un quadro che rappresentava i ruderi di un gran tempio, sulle due colonne anteriori del quale si leggevano queste parole: - Iachin e Booz. - Sotto ad esso era un tripode, e sul tripode una lampada funeraria, da cui guizzava una gran fiamma verde-azzurra che rischiarava misteriosamente quel quadro e tutta l'aula e le faccie dei tre che stavano innanzi alla tavola, e le trenta o quaranta faccie degli altri, seduti in ampio cerchio rimpetto ai tre. Quando il giovane Crall fu entrato, pronunciò le stesse parole che si leggevano sul quadro - Iachin e Booz, - e tutti si alzarono, ed egli prese posto tra gli altri. Ma ora, perchè il lettore non sospetti che lo si voglia divertire colle fantasmagorie della lanterna magica, sappia che era quella un'adunanza di uomini appartenenti a quella società segreta, i cui fasti, giusta la credenza di alcuni dei suoi più fanatici seguaci, si sprofondavano nella più remota antichità, società che si vantava discendente persin dai vetusti Bramini, dai Ginnosofisti, dai Druidi remoti; che credeva procedere dai misteri eleusini; che venerava qual suo gran maestro capostipite l'architetto Hiram, il costruttore del tempio di Salomone; ed ecco perchè sulle due colonne superstiti del portico del tempio distrutto, cui figurava il quadro che abbiam descritto, vedevansi le parole Iachin e Booz, le quali vennero fatte scolpire da Hiram sul tempio di Gerusalemme, per accennare alle idee della edificazione e della forza. Mentre però quella società gloriavasi d'una nobiltà tanto antica, che all'uopo non bastandole di fermarsi ad Hiram, risaliva a trovar le sue origini fin nella torre di Babele, compiacevasi pure di procedere da più umile ma più prossimo e più sicuro stipite; chè dopo il secolo VIII e nei secoli XII e XIII, nell'occasione segnatamente che fu innalzato il tempio di Strasburgo, fu dessa rappresentata e diffusa vastissimamente da quella confraternita di capimastri e muratori che lavorarono ai più cospicui edificj di tutte le parti d'Europa, e impressero dappertutto con opera continua ed uniforme, quello stile d'architettura che, falsamente detto lombardo in Italia e falsamente gotico in Francia, non fu altro che il neogreco, il quale, abbandonato il Partenone, si era appreso al tempio cristiano. Se non che il fatto dell'architettura murale s'era convertito in simbolo dell'idea di civiltà e di progresso; epperò tutt'Europa avea brulicato di tante figliazioni di quella società, quanti erano uomini invaniti della persuasione di poter essere illuminatori del loro secolo.

Una tale società che, senza essersi mai spenta del tutto, ebbe però de' periodi del più inerte languore, si ridestò tutt'a un tratto verso la metà del secolo passato in Inghilterra prima, poi in Francia, e colla più rapida moltiplicazione poi in Italia. Nel 1732 avea stabilita una loggia a Roma. Nel 1747 ne piantò una a Milano (si chiamavano logge i luoghi delle sue adunanze). Nel 1766 ella viveva ancora ed avea residenza appunto nella contrada di san Vittorello. L'autorità conosceva l'esistenza sua, ma non ne pigliava gran fastidio perchè da essa non era mai derivato danno di sorta; d'altra parte sapeva che la moltitudine, alla quale era pur nota l'esistenza di lei, la derideva manifestamente, e perchè non avea mai veduto procedere da essa atto veruno che, in poco o in tanto, influisse sul bene pubblico; e perchè sapeva come quelle serali e notturne conventicole si sciogliessero spesso in pranzi lauti e cene prolungate. Comunque del resto fosse di ciò, nel tempo a cui ci troviamo colla nostra storia, quella società, ingrossata di fresca schiera e sollecitata da qualche spirito fervoroso, avea preso un avviamento un po' più determinato e serio. A noi non consta che il Verri v'appartenesse. Il suo ingegno acuto e pratico e consistente gli avrà fatto riconoscere e deridere l'inutilità di tali riunioni. Ma vi appartenevano molti suoi amici, e di quelli ch'egli stimava e che stimavano lui, tra' quali il giovane Crall, ch'era il più caldo di tutti.

Questi, domandata ed ottenuta la parola dal gran maestro presidente, così parlò a quell'adunanza:

- Venerabile maestro del grand'Oriente, maestri fratelli, compagni ed iniziati, la causa che qui m'ha oggi mandato è della più alta importanza, ed ha bisogno della vostra forte e pronta cooperazione. Nelle ultime adunanze, a voti unanimi, fu determinato che la nostra loggia sarebbe d'ora innanzi intervenuta immediatamente a soccorrere il prossimo in pericolo, non soltanto coll'opera del pensiero, ma anche con quella della mano, esponendo al bisogno anche la vita, quando l'occasione fosse stata grande ed urgente. Venerabili fratelli, quest'occasione è venuta! Tutte le case, tutti i ceti, tutte le confraternite, tutti i corpi sacri e morali della città di Milano sono da più giorni esposti alle violenti soperchierie, ed alla rabida fame de' fermieri. Sono esposti eziandio agli arbitrj, ai capricci, alle voglie talvolta oscene degli sgherri della Ferma. Finora vennero risparmiati gli asili delle sacre vergini, dove si raccolgono per educazione le fanciulle delle più distinte famiglie della città. Ma oggi per la prima volta si penetrò in essi. Il monastero di San Filippo Neri fu, momenti sono, invaso dalla sbirraglia de' fermieri, sotto pretesto che vi sia nascosta mercanzia di contrabbando. Propongo adunque che quanti siamo qui tra i più giovani e i più avvezzi all'arme, usciam tosto per recarci colà a respingere la violenza colla forza. È necessario un esempio, è necessario che qualche vita si sacrifichi alla giustizia, è necessario che qualche fatto enorme scuota dal colpevole letargo coloro che pur tengono il mandato del pubblico bene, ma che, impinguati dalle volpi, chiudono gli occhi e lasciano fare. Quelli che sono del mio avviso, permettendolo il maestro venerabile, si alzino dunque e mi seguano.

A queste parole così determinate, proferite con voce sonora e con accento caldissimo, successe un bisbiglio fra quanti erano radunati nell'aula. Il maestro venerabile, con placido discorso, tentò dissuadere il fratello Crall da quell'impresa arrischiata; il maestro oratore venne in soccorso del venerabile, così pure il maestro tesoriere e il segretario, tutte persone che probabilmente non volevano compromettere i pranzi e le cene future con qualche passo arrischiato.

- Ma a che, gridò allora il giovane Crall, abbiamo pronunciato con tanta solennità il giuramento dell'ordine? Dimmi tu, e qui si rivolse ad un giovane vicino, dimmi tu che l'altro giorno non eri che un lupicino venuto a cercar qui la luce (si chiamavan lupicini i candidati prima di essere ricevuti in quella società), dimmi ora dunque: che cosa hai giurato quando fosti trovato degno di essere ammesso fra gli adepti? Parla, che cosa hai giurato su questa spada?

- D'amare i miei fratelli, e soccorrerli a norma delle mie facoltà.

- E a che hai acconsentito quando mai tu non sapessi mantenere il giuramento?

- Che mi sia troncato il capo, strappato il cuore, abbruciato il corpo e gettate le ceneri al vento.

- E perchè dunque una così atroce sentenza?... soltanto forse per togliere la possibilità che qualcuno di noi manchi al convegno, quando si tratta di sedere a mensa per divorare con formidabili ganasce le più saporite imbandigioni? È forse ai cuochi soltanto o ai vinattieri che abbiam giurato di esser utili? e per così poco mettere a repentaglio e testa e cuori e ceneri? Suvvia, dunque, che si fa?

Al venerabile mancò la parola, tacquero l'oratore e il tesoriere. Una dozzina di giovinotti si alzarono, sfoderando le spade e gridando: Noi siam tutti pronti, se lo permette il venerabile. Questi crollò il capo, e disse: Andate, che la fortuna vi salvi, ma ricordatevi del segreto. L'adunanza si sciolse, e ne uscirono una decina di giovani armati di spada e di proposito deliberato.

Or lasciamo che costoro s'avviino verso il monastero di San Filippo, prontissimi a cavar dal fodero di pelle bianca inverniciata la spada non ancor molto cruenta, e in procinto di produrre un tal disordine, da far strillare di spavento la madre badessa, le monache e le educande e da costringere le leggi tapine a dar la testa nelle muraglie per la novità del caso. In questo frattempo noi dobbiamo recarci altrove ad assistere a un dialogo tra il Galantino ed un personaggio che comparirà per la prima volta in iscena, ma che fu da noi tante volte nominato, e che, a tutto rigore, potrebbe reputarsi il primo personaggio del dramma, o per lo meno il personaggio indispensabile; perchè se costui non fosse nato, non sarebbe avvenuto nulla affatto di tutto quanto abbiamo raccontato e racconteremo. Egli è il figlio della Baroggi, il pupillo patrocinato indarno dal galantuomo Agudio. Noi l'abbiamo nominato più volte quand'esso non aveva che cinque anni, ed ora che dobbiamo conoscerlo di presenza ha compiuti gli anni ventuno, ed è sotto-tenente nelle guardie di confine della Ferma generale; carica che press'a poco ora corrisponderebbe a quella di sergente nelle guardie di finanza. Ma in che modo questo disgraziatissimo giovane, che pure fu a due dita di essere uno tra i pochissimi benedetti dalla fortuna e dalla ricchezza, passò i sedici anni dal 1750 al 1766? in che modo il Galantino, per le sue buone ragioni, andò a soccorrere la povertà infelicissima della madre di lui e ad offrire al figliuolo un posto tra le guardie della Ferma? a che cosa or lo vuole adoperare, per usufruttuare il beneficio, nel colpo che sta per tentare? che effetto sarà per fare in convento la comparsa d'una dozzina di giovani guardie della Ferma, protette dalla legge, prepotenti e viziate? che sarà per nascere dal parapiglia guerresco tra i compagni della loggia di san Vittorello capitanati da lord Crall, e che stranissimo qui pro quo potrà generarsi da tutta questa arruffatissima matassa?

 




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