VII
L'amore talora è più funesto dell'antipatia e dell'odio; ci
pare di averlo detto un'altra volta, sebbene in diverso modo. Egli è per questo
che, in quella medesima occasione, da bravi conseguenzarj, abbiam tosto
soggiunto che l'imperfezione del corpo reca spesso assai più vantaggio che la
più completa bellezza. Una gemma preziosa che brilli in dito a un galantuomo,
una catena d'oro che sfolgoreggi tra il nero di un gilet di velluto e il bianco
di una camicia di batista rendono pericolosissimo il passeggiare ne' vicoli
dopo la mezzanotte. La cosa è chiara, per la sicurezza del passeggio notturno,
benedetta la giacchetta di fustagno e il cappello a larghe falde. Non ci
ricorda in qual libro, ma certo abbiam letto in un libro, che un uomo di
spirito, tediato delle querele di un bellissimo giovine, vittima della gelosia
delle donne, - Fa che t'assalga il vaiuolo, gli disse, e t'imprima nel viso a
centinaja i segni del suo passaggio, e sarai felice! - Quantunque un tal
rimedio possa parere troppo eroico, e troppo paradossale il nostro esordio, il
fatto è intanto che quelle due fanciulle, donna Giacoma e donna Ada, nacquero
per appoggiare la nostra opinione.
Donna Giacoma, fin dalla prima infanzia meno accarezzata
delle fanciulle che recavan nell'aspetto una bellezza regolare e i vezzi a lei
negati dalla natura, e però meno viziata da' parenti, quando passò in convento
per esservi educata, non sentì come le altre e come Ada in ispecie il crudo
passaggio dalle amorevolezze casalinghe alla severità del contegno delle
maestre del monastero; anzi tenendosi più tranquilla per non sentire il bisogno
di rivoltarsi impaziente contro una vita nuova, le parve di trovare in convento
una cortesia, una mitezza, una dolcezza che prima non aveva mai provato.
Fornita di molto ingegno, lo aveva adoperato per mostrarsi grata a quelle
premure, approfittando più che le compagne dell'insegnamento che le veniva
dato; fornita di grande bontà e di una gentilezza squisita di spirito, sapeva
all'uopo placare colle sue preghiere la madre superiora e le suore inclementi
verso le più riottose alunne. Per questa ragione, anzichè esser segno
all'invidia e, per conseguenza, al motteggio altrui pel difetto del corpo, era
amata da tutti e rispettata. Ed ella, certo senza volerlo, si avvezzò per tempo
ad esercitare in convento una specie di superiorità premurosa, e dolce bensì,
ma pur sempre una superiorità, che da tutte le
veniva accordata e di cui ella sentiva una interna compiacenza, che però non
era orgoglio.
Ada, la più vivace e tempestosa di tutte e la più
frequentemente sgridata e punita dalle superiore, era perciò appunto stata
presa sotto la sua particolare protezione; e siccome le preghiere della
Crivello avevano sempre avuto il loro effetto,
e d'altra parte essa era riuscita, più che le superiore non avrebbero mai
saputo, a rendere Ada più docile, più obbediente, più pacata; così tra le due
fanciulle, sebben coetanee, si era impegnata quella corrispondenza affettuosa
che non intercede già tra due eguali, ma sì tra una protettrice e una protetta.
La Crivello poi, come avviene delle madri che spasimano dietro a que' figliuoli
che più le han fatte vegliare e più loro costarono di fatiche e d'affanni, pose
davvero in Ada un affetto che ben si potea dire materno.
Adolescenti e quasi adulte, ambedue crebbero in questo
affetto. Donna Giacoma dalla modestia, dall'intelletto acuto, dalla religiosità,
convinta che per lei nella vita non vi sarebbero stati altri conforti se non in
occupazioni congeneri a quelle che esercitava in convento; per di più, avvisata
dal senso e dalla misteriosa intuizione di esso di quel che era serbato alle
altre nel mondo, si pose intorno ad Ada (è strano ma è edificante e commovente
a dirsi), precisamente con quella preoccupazione di una madre che è sollecitata
dal pensiero per la felicità della figlia. Queste cose noi avremmo dovute dirle
prima che avvenissero i disastrosi fatti del monastero, perchè il lettore si
sarebbe fatto capace allora di ciò per cui forse gli è rimasto qualche dubbio;
ma quelli erano momenti di gran trambusto e premura; in ogni modo, può
provvedere la spiegazione d'oggi al silenzio d'allora, e può provvedere a
spiegare la tenacità onde la Crivello si strinse ad Ada per non abbandonarla
più, il motivo per cui, in carrozza, avendo dirimpetto il Suardi, mentre il
cocchiere sferzava i cavalli a fiaccacollo, si tenne abbracciata ad Ada come
chi vuol salvar la vita a una figliuola minacciata di morte da un assassino.
Tuttavia, quando si trovò nella casa della Baroggi, avendo
sentito il tenore onesto delle parole del Suardi, ed esplorato il contegno
della donna, mite, riguardoso ed educato; e poscia avendo notate le abitudini
devote di essa, si tranquillò e tacque; quando poi, avendo insinuato ad Ada
l'idea di supplicare quella donna perchè volesse condurle alle loro case,
l'innamorata fanciulla protestò con pianti di non voler per nessun conto fuggir
prima che il Suardi non fosse tornato; ella si trattenne, ed aspettò prudente e
lasciò fare, guardinga però e sospettosa; ed avendo sentito a parlare il
Suardi, quasi anch'essa si lasciò andare a credere alle maliarde parole di lui,
e non si rifiutò d'andare a Montepiatto per non abbandonare la sua cara Ada. Ma
qui, ne' discorsi fatti colla Baroggi, sentendo il nome del rapitore, si
risovvenne di quanto sul conto di quel nome avea udito più volte in casa; e col
coraggio di una madre che è spietata colla figlia in ragione dell'amore che le
porta, le manifestò tutti i suoi sospetti, e le raccontò le storie che
conosceva in parte; e le dimostrò che non poteva essere se non un tristo colui
che aveva potuto osare una così scellerata impresa di rapire a tradimento una
fanciulla da un monastero.
Un momento prima che noi vedessimo quel quadro di tre
figure, la Crivello avea fatto appunto un lungo discorso di tal genere all'Ada,
e questa, iraconda del sentirsi penetrare dal sospetto contro il giovane di cui
le sembianze non le partivano mai dalla calda
fantasia, indispettita si era disgiunta dalla Crivello, e sola erasi adagiata a
pensare e a ripensare, scorata e confusa. E la Crivello, stata pietosamente a
contemplarla per qualche tempo, al fine si alzò, e lentamente fattasi presso ad
Ada, e cingendola del suo braccio:
- E così come stai, le disse, cara la mia Ada? Sei ancora
adirata meco?
Ada si volse e:
- Come ho da stare, rispose, e perchè ho ad essere adirata
con te?... Ma le labbra le tremarono per la commozione e, non potendo
continuare, guardò la Crivello colle lagrime negli occhi; poi tutt'a un tratto,
abbassando il capo e nascondendolo in seno all'amica, diede in uno scoppio di
pianto.
E noi, dopo questo pianto, dolenti di non poterlo asciugare,
nè di poter fermarci a Montepiatto per sentire i lunghi dialoghi tra la
Crivello ed Ada, nè di recitar insieme con esse e colla devota Baroggi la terza
parte del rosario, dobbiamo recarci di premura a Bologna.
La contessa Clelia tornava una sera dalla casa Bentivoglio
dove convenivano il fiore de' gentiluomini e delle gentildonne bolognesi, i più
distinti professori dell'università, gli artisti più noti, i pittori incaricati
di sostenere con uno sforzo estremo il tramontante splendore della scuola
caraccesca; tornava dunque alla sua dimora, lieta e paga oramai della propria
condizione. Gli uomini della scienza le davan prove quotidiane della loro
stima, le gentildonne giovani e belle l'ammiravano senza invidiarla, perchè più
non temevano in lei chi potesse loro disputare il primato, o rubar qualche
amante sul terreno sdrucciolevole della galanteria. Ben è vero che quella sua
poderosa beltà romana, col crescere degli anni, non avea punto scemato, se
forse non era diventata più solenne; ma la toga scientifica e la cattedra dove saliva
a dettar matematica, la facea considerar loro come una donna sui generis, più
atta a destare il senso dell'invidia nei colleghi professori che in esse.
I giovani galanti poi la circondavano con un'ammirazione
piena di premura, ammirazione in cui, se non per tutti, per alcuni almeno, si
nascondeva pure qualche altro sentimento; ma quelli che lo nutrivano in secreto
rimanevano paghi d'un discorso che loro ella rivolgesse, d'una approvazione che
accordasse, persino anche dell'opposizione che lor facesse in una disputa
qualunque. Magnifica e severa precisamente come una Minerva (perchè, se come
tale l'abbiamo dipinta ne' suoi anni giovanili, nell'età matura non v'era chi
potesse contrastarle un tal predicato), ella serbava un contegno, che al
giovane più fervido ed audace, perfino alla stessa ebrietà tracotante avrebbe
fatto gelar la parola in bocca.
Ella però (le donne sono sempre
donne, ed anche gli uomini non canzonano) si compiaceva tra sè e sè,
indovinando quel che si celava sotto quell'ossequio. Per tutto ciò adunque,
ritornando quella sera a casa, si lodava della propria sorte, e pensava che
quasi poteva chiamarsi felice se avesse avuto seco la sua Ada, e d'uno in altro
desiderio, affrettava il giorno di farla uscir di convento per tenersela ognora
a fianco e deliziarsi tutta in essa.
Piena di questi pensieri, che erano gli abituali della sua
vita, salì nel suo appartamento, dove trovò una lettera con un Preme a grandi
caratteri sulla soprascritta. Quella parola bastò per agitarle il sangue e per
far ch'ella aprisse la lettera con mano tremante. Non sappiamo se il fatto sia
comune a tutti o a molti, ma la presenza di una lettera che non si aspetta,
anche allora che non reca quel terribile Preme, il Mane, Thechel, Phares delle
soprascritte, produce una sensazione disgustosa e angustiosa; forse ciò avviene
in coloro che non hanno avuto nella vita che maledette battiture dalla fortuna,
di modo che ad ogni indizio di un fatto che ancora non si conosce, si paventa
una nuova sciagura. Dopo questo, non sappiamo quel che la contessa Clelia
pensasse in proposito, nè se a lei la vista di una lettera facesse
costantemente quel senso disgustoso che produce in altri e in noi segnatamente;
il fatto sta che quando vide quella lettera deposta sul tavoliere, per la ragione
forse che non l'attendeva, volontieri ne avrebbe fatto senza. Ma qual fu il suo
parossismo, quando, lettala e rilettala, non seppe afferrar bene la cagione per
la quale veniva pregata a recarsi senza perder tempo a Milano. Non sappiamo se
il foglio fosse stato scritto di proprio pugno, o soltanto dettato, o semplicemente
consigliato dal Parini, che ne era stato incaricato da donna Paola; ma con
accorto ingegno era parlato in esso di una malattia della fanciulla Ada, per la
quale, mentre si raccomandava la sollecitudine della contessa a mettersi in
viaggio, le si faceva riflettere tuttavia che non v'era nulla di grave e di
pericoloso; tutto questo poi era espresso con tale arte, che la contessa non
dovesse rimanere percossa con violenza da un troppo crudo annunzio, ma nel
tempo medesimo giungesse a comprendere che oltre la malattia, trattavasi di
qualche altro fatto che richiedeva la sua presenza. Comunque pertanto sia la
cosa e comunque fosse savio il consiglio che aveva dettato quel foglio, si mise
una tale impazienza, un'ansia, un'irrequietudine sì forte nella povera contessa
che, di punto in bianco, scrisse un letterino al marchese Bentivoglio, dalla
cui casa era uscita un momento prima, con cui lo pregava a passare un momento
da lei; il marchese non si fece troppo attendere, e sentito dalla contessa
come, per un affare urgentissimo, le occorresse di recarsi a Milano, le ottenne
in quella notte medesima dal cardinale Legato un foglio di via per Milano.
Alla prim'alba, coi cavalli di posta, a tutta carriera,
dando e promettendo mancie a' postiglioni, che allora avevano a lottar di
continuo colle scabre strade, viaggiò per Milano. Da Bologna venne a Modena, da
qui a Parma, dove passò la notte e dove volle il caso che si sapesse della sua
venuta. Il nome della contessa, non ci ricorda se lo abbiamo già detto, e per
il suo casato e per quello del marito, e per la sua bellezza, e per le azioni
che se n'eran fatte, e per le sue avventure eccezionali e degne di storia, e
per la sua qualità di scienziata, e per essere successa in Bologna nella
cattedra di matematica alla grande Agnesi, era divenuto celeberrimo in tutta
Italia ed anche fuori, tanto che molti uomini di Bologna e d'altre città
avevano ambito di far la sua conoscenza o per lo meno di vederla, aspettandola
quando usciva di casa, quando si recava all'università, mescolandosi fra gli
studenti per sentirla a parlare. Per queste cose adunque, allorchè corse la
voce ch'ella era in Parma e che alloggiava all'albergo ducale, tosto fu una
folla di persone intorno alla porta dell'albergo stesso per poterla vedere, e,
tra le altre persone cospicue, furono a visitarla l'abate Frugoni in compagnia
del celebre Condillac, stato precettore del figliuolo del duca di Parma, morto
alcuni giorni prima.
Il Frugoni, che già s'era trovato colla contessa in Bologna,
e ne aveva tenuta parola spesse volte con Condillac quando con esso
s'intratteneva alla corte del duca, fu sollecito di fargliela conoscere,
perchè, torniamo a ripetere, la contessa Clelia V... era divenuta, come si direbbe
con frase moderna, una maravigliosa tanto in voga, che molti andavan superbi
soltanto a poter dire: Ci ho parlato anch'io.
Il Condillac, sebbene fosse amico della vita ritirata e
fosse grave ed austero al punto che nella medesima Corte ducale, per insolito
privilegio, era stato esentato da tutti quegli obblighi consentanei ad un
precettore di un principe Infante, pure molte volte avea espresso all'amico
poeta il desiderio di conoscere quella donna singolare, nella quale per lui era
inconcepibile il contrasto tra la scienza grave che professava ed insegnava, e
la storia delle sue avventurose vicende. Andò dunque assai volontieri a farle
visita. Ma questa circostanza accrebbe più che mai l'imbarazzo della contessa
che aveva tutt'altra volontà che di ricever visite d'uomini illustri, chè il
suo pensiero assiduamente assorto dalla sollecitudine che la spingeva verso
Milano, si trovò insopportabilmente angariato, costretta com'era a stare in
guardia per non perdere la scherma e conservarsi nella sua riputazione,
parlando con un uomo che tutt'Europa esaltava. Il Frugoni, quantunque toccasse
i settantaquattro anni, vivace, epigrammatico, motteggiatore, parlatore
instancabile, com'era stato instancabile e inesauribile produttore di versi,
giovò ad empir le lacune che troppo spesso intercedettero tra le parole del
Condillac e le risposte lente della contessa distratta altrove; ma non fu così
abile che il filosofo francese non si lamentasse poi dopo coll'abate poeta di
aver trovato una donna più bella e superba, che simpatica ed eloquente.
In ogni modo la contessa respirò più libera quando si trovò
sola, e quando, alla prim'alba, potè finalmente riprendere il viaggio. Venuta a
Piacenza, passato il ponte di barche sul Po, rimessi i cavalli al trotto, lungo
la strada da Casal Pusterlengo a Lodi, al rumore di altra carrozza che le
veniva incontro, mise fuori la testa dallo sportello per quel movimento
irresistibile onde chi viaggia è spinto a guardare i passaggeri che battono la
stessa strada, e s'incontrò quasi faccia faccia col passeggiero che stava
nell'altra carrozza e che medesimamente sporgeva la testa a guardare dallo
sportello. Le due carrozze, che erano tratte velocemente dai cavalli, non
lasciarono a quello scontro la durata di un minuto secondo. Ma questo bastò
perchè e l'una e l'altro si ravvisassero. Il viaggiatore era il Galantino. Or
non è a dire che turbamento mise in cuor alla contessa, senza che n'avesse una
ragione precisa, quella vista inaspettata; ma ciò che veramente la colpì fu che
nel retroguardare, sporgendo di nuovo la testa dallo sportello per una
curiosità che non seppe vincere, vide che il postiglione faceva dar di volta ai
cavalli, e la carrozza del Galantino alla lontana teneva dietro alla sua.
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