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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO NONO
    • V
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V

Vi sono città la cui storia è tutta una disgrazia, come la biografia di qualche infelice nato sotto la cattiva stella; città che nemmeno coi sacrificj possono placare la maldicenza; di cui i meriti e le virtù reali e le apparenti sono disconosciute e passate in silenzio; di cui i benefizj sono retribuiti d'ingratitudine; città che, al pari di qualche padre, di qualche madre, son disprezzate e bistrattate persin dai medesimi figli. Ci vorrebbe, per esempio, un bel talento a sostenere che la città di Milano sia stata il beniamino della sorte. Ella ha avuto le sue grandi pagine storiche al pari di chicchessia. Ella ha avuto qualche momento in cui fu piuttosto la prima che l'ultima; e questo momento, sebben sien corsi molti secoli, è stato, salvo errore, forse il più glorioso di tutta la storia d'Italia. Ella ha dovuto ed ha voluto patire e dissanguarsi per e per gli altri. Ella ha dato il suo contingente d'uomini grandi a tutte le discipline che fanno la civiltà; ella ha murato i suoi giganteschi edifizj, ella ha dato la sua schiera eletta di artisti per decorarli; ella fu così gentile e così amante del grande, del bello e del buono, che qualche nobile intelletto, mal compreso e infelicissimo altrove, raccolse qui le sue tende, e qui diventò famoso. Dopo tutto ciò è una gara universale di ripetere quel che Alfieri già disse in quel celebre sonetto, dove, lacerando le genti d'Italia come pagine di un libro che si disprezza, sentenziò che i Milanesi non sanno far altro che mangiare:

I buoni Milanesi a banchettare;

sentenza che Foscolo, forse a gratificarsi la grande ombra del suo modello, peggiorò e trasmutò e condensò in quel tal predicato disprezzativo che non amiamo ripetere. È dunque destino l'essere maltrattata in verso e in prosa, l'essere ingiuriata anche dagli uomini sommi e santi. Persino i suoi figli fanno a gara nel percuoterle ad ogni ora il seno abbondantissimo di latte nutriente; e noi stessi che diciam questo e parrebbe quasi volessimo prenderci l'impegno di difenderla, noi stessi ci assumiam l'incarico, per usare una frase d'ingegnere di campagna, di ricevere la consegna di tutti i suoi elementi materiali e morali che la compongono, in un momento che tutta quanta ella sta abbandonandosi ai piaceri del banchettare. Tuttavia noi non crediamo di offenderla, perchè, avesse ella pure avuta in addietro questa geniale tendenza, e che vuol dire perciò? Non sempre si deve creder nell'allegria di coloro che sembrano allegri; spesso l'uomo da cui più scoppietta la facezia, è il più melanconico di tutti: talvolta è un modo tutto suo di salvarsi dalla pressura dell'affanno. Chi più si tuffa nell'onda di Lieo, creperebbe d'amarezza se non esilarasse con esso il percosso ingegno. Ci fu un savio che quando vedeva taluno ebbro più del solito, e per gli effetti dell'ebbrezza intento a tenere in giocondità la brigata: Dio sa quanto costui ha sofferto! pensava tra , e convertiva in pietà quel primo senso di gajezza che in lui destava la presenza dell'uomo eccitato dai vapori del vino.

La città nostra sotto il martello di Uraja, nell'eccidio del Barbarossa, in mezzo ai cani di Bernabò, nei tradimenti onde abortì il triennio decorso dall'ultimo Visconti al primo Sforza, fra i pidocchi dei lanzichenecchi e le atroci guasconate dei gendarmi dei re di Francia, quasi a dare uscita all'affanno che minacciava di scoppiarle di dentro, ebbe sempre pronto l'aculeo della sua strofa vernacola che celò il pianto sotto alle risate gioviali e sonore; e lo celò al punto che quasi parve indifferente alle vecchie ingiurie, ai dolori nuovi, alle minaccie del peggiore avvenire; e forse fu allora che cominciarono a tenerla in basso conto quelli che, non sapendo che piangere come fanciulli battuti, non riuscivano a comprendere come si possa bere la cicuta ironicamente ridendo come Socrate. Da queste riflessioni il celebre verso d'Alfieri potrebbe dunque ricever l'ultimo e il più vero suo commento, e l'insulto di Foscolo verrebbe a ribadire il frons prima decepit multos di Fedro. A ogni modo, nel secolo passato l'allegria della nostra città era sulla sua superficie com'era nelle sue viscere. Ella si era dimenticata delle sue antiche miserie, e non viveva in timore d'un peggiore avvenire. S'era adagiata sul triclinio in pace, e non attendeva che a darsi buon tempo. Ma tutta l'Italia e tutt'Europa facevan lo stesso. Venezia bella pareva non voler più ricordarsi di Venezia forte. Parigi tripudiava come una baccante ubbriaca, eppure se ancor non le muggiva il vulcano dappresso, già ne usciva il fumo dal cratere. Ma è codesta una condizione inevitabile così dei popoli come degli individui, di non pensar più alle cose serie, nel punto stesso che lor si stanno maturando i gravi avvenimenti. Ed ora ritornando donde siamo partiti, alcuni fra quelli che più avevano schiamazzato sotto al balcone a cui dovettero affacciarsi donna Clelia e donna Ada, entrarono nella casa e domandarono di poter parlare alla padrona. Erano alcuni priori di maestranze che chiesero, affermativamente, ben s'intende, di festeggiare nell'occasione della prossima vigilia di san Pietro il ritorno della contessa, e il felice ritrovamento della sua figliuola. Noi crediamo che la contessa avrebbe volontieri fatto senza di quella pubblica dimostrazione, e probabilmente anche il conte; ma non essendo di prammatica il rifiutarsi, perchè il rifiuto non significava che il desiderio di risparmiare quel migliajo di zecchini, di cui tante quote entravano in quante erano casse di maestranze; espressero a quei bravi maestri operaj, colla consueta fraseologia della modestia di convenzione, la loro gratitudine; e si chiamarono assai felici, quantunque non meritevoli, di essere tanto onorati. Onde quei priori, usciti di casa Pietra, si recarono tosto alla casa Crivello a farvi anche colà un'abbondante messe di gratitudine.

Adempiuto a questi preliminari, su tutti gli angoli della città si affissero gli avvisi che la vigilia della festa di san Pietro vi sarebbe stato banchetto generale notturno alle porte delle case, e questo a glorificazione del Santo, e ad esultanza pubblica pel miracolo avvenuto nelle persone delle nobilissime zitelle donna Ada del conte V... e donna Giacoma dei marchesi Crivello.

In sabato dunque era stata fatta la dimostrazione sotto al balcone di casa Pietra. Alla domenica furono pubblicati gli avvisi. Al lunedì tutta la città non fece altro che pregustare l'allegria della prossima notte, e darne le disposizioni, perchè la festa di san Pietro cadeva in martedì.

Chi vuol farsi un'idea del trambusto giocondo che era in tutta la città in quel giorno, non deve far altro che esagerare l'idea della gioja che penetra in tutte le famiglie alla vigilia e all'alba del di Natale, gioja temperata soltanto da qualche velo di melanconia nei capi di famiglia i quali devono dar le mancie e son fuori affatto dal tiro di poter ricevere regali. E dalle intime consolazioni passando al movimento materiale della città, per farsene una imagine non si deve che esagerare il quadro del giorno del Corpus Domini in quelle contrade e in quelle case dove e innanzi a cui passa la processione; e, se occorre, risalire colla memoria a qualche anno addietro, quando in codeste faccende delle pubbliche processioni la città, e segnatamente il popolo minuto, pigliava un interesse che più non suole avere oggidì: giorno solenne in cui quelle case che guardano nelle contrade privilegiate si riversano, per così dire, tutte al di fuori, e segnatamente le popolane. La coperta gialla di filugello assume nuovo incarico, e va a servir di tappeto alla finestra e al poggiuolo; le secchie di rame e le secchioline di latta emigrano dalla cucina e vanno ad appendersi all'archetto della porta, fatte più lucenti del solito dalla cenere e dal pomice, per esser pari all'onore di tenere in fresco qualche mazzo d'ortensie appariscenti, circondate d'arundini listate.

Il canarino, il fringuello, il capinero, il merlo, soliti a far compagnia alle vecchie casalinghe, lasciano anch'essi la cucina e il terrazzo, e vanno a pigolare al pubblico, sulla porta della casa, o nelle gabbie messe a nuovo e guernite di foglie di lattuga e d'indivia, ornamento e cibo al tempo stesso. Giorno solenne, in cui chi possiede qualche vecchio arazzo è sollecito di decorarne le pareti esterne della casa; e la solerte fanciulla espone al pubblico il tuo tappeto a scacchiera d'arlecchino, fatto coi ritagli di panno a vario colore, sfuggiti già in più anni alla forbice paterna.

Se dunque per una festa che deve durare mezz'ora è tanta la giocondità che percorre le case, ed esalta segnatamente le persone giovani e i ragazzi, è facile imaginarsi che commozione febbrile ci doveva essere nei preparativi di una festa pubblica che aveva a distendersi da un capo all'altro della città, e in cui la devozione pel santo festeggiato e le congratulazioni per alcune persone a cui si credeva che in quei giorni la fortuna avesse voluto dare una beneficiata, dovevan ricever la loro sanzione ed essere documentate da tante cene quante eran case in Milano; e in cui tutti gli stomachi, come avviene nel di Natale, avevano il permesso di affrontare tutti i pericoli di una replezione, e gli aridi esofaghi d'inaffiarsi al punto che cessasse il buon accordo tra le teste e le gambe. E le case si riversavan davvero tutte al di fuori, e tutte si affannavano di parere sempre qualche cosa di più di quello che erano. Chi era avvezzo a mangiare in piedi e sulla nuda tavola di peccia plebea, sfoggiava la tovaglia e i tovagliuoli; chi mangiava per consueto ne' cucchiali di legno sfoggiava i cucchiali d'ottone luccicanti e tersi. Tra le case signorili poi era una gara a chi metteva in mostra più ricchezza e più varietà di vasellame d'oro e d'argento. Tutto il giorno di lunedì fu passato in apparecchi; i cuochi patrizj si apprestarono a dar saggio di tutte le risorse dell'arte loro; i maggiordomi discesero nelle vietate cantine a farvi una meditata scelta delle bottiglie più decrepite, consultando ed esplorando in cento modi il turacciolo se mai desse indizio che la soverchia vecchiaja del vino non lo avesse mai convertito in aceto. E nelle case medie e nelle povere e nelle poverissime era un affaccendarsi in altro modo. Le oche e le anitre plebee erano state fin dall'alba prese d'assalto dalle solerti madri e dai padri ghiottoni, che dalla bottega giravano l'occhio anche in cucina. Gli splendidi tacchini di otto in dieci libbre, distintivo della classe mercantile che aspira a regioni più eccelse, erano scomparsi tutti fin dal giorno antecedente dal Verzajo, dal Cascinotto, da san Clemente, contrada riputatissima fin d'allora nell'industria dei polli ben purgati e nell'arte di condurre al punto supremo la putrefazione della beccaccia; e le beccaccie e le beccaccine e i fagiani e i francolini e le folaghe, ecc., e tutta quella specie e sottospecie d'uccelli, che costituiscono, quasi a dire, l'alta nobiltà del regno ornitologico e che perciò hanno il diritto e l'obbligo di puzzar più degli altri, eran già tutte passate dalle panche della piazza alla prelibata moscajola della cucina patrizia.

Se non che ad intorbidare tutto questo allegro movimento della città avvenne quello che avviene quasi sempre allorquando il bel tempo e la più perfetta serenità del cielo è un elemento indispensabile al buon andamento di una festa pubblica. La statistica delle illuminazioni, sebbene non si possa garantire della sua esattezza, porta che una buona metà vennero offuscate dalle nebbie e dalle nevi, e spente sgarbatamente dal vento e dagli acquazzoni. Nei giorni della canicola e negli eterni del giugno e luglio, in cui il sole par che faccia di tutto per provocare l'ingratitudine de' mortali; chè dalle quattro del mattino ha l'indiscrezione di risplendere fin quasi alle nove della sera: in questi giorni in cui la pioggia è invocata come un beneficio salutare, essa è inflessibile, e non cade mai e sembra quasi compiacersi del tormento dei postiglioni che affogano tra i vortici della polvere delle strade postali, e dell'ira dei poeti che non trovano la rima, impediti dall'afa e dalle cattive digestioni. Ma solo allora che per un pubblico spettacolo si voglia approfittare di questa troppo cortese disposizione del cielo, state bene attenti che di punto in bianco si lascerà scorgere sull'orizzonte qualche nuvoletta bigia a sgomentar gli appaltatori che sospirano il guadagno, e il pubblico che sospira il divertimento.

Ma lasciando questa oziosa digressione, capitò dunque che in quel della vigilia di san Pietro, dopo che il sole per venticinque giorni aveva infuocata la città, dardeggiando senza interruzione per sedici ore al giorno; precisamente verso il mezzodì, per la prima volta e senza avvisi erasi ritirato dietro a un gruppo di nuvole di cattiva qualità, le quali misero l'incertezza in tutti quanti e fecero nascere molti alterchi nelle famiglie, perchè gli spiriti eran diventati acri pel dispetto, dacchè i banchetti non avrebbero avuto la metà del loro prestigio senza luna e senza stelle, e la pioggia li avrebbe resi affatto impossibili.

La fortuna però volle che, dopo essere stata la città continuamente in forse fin oltre al tramonto sulle mutazioni del cielo, al segno che alcuni pensavano per fino di trasportare al dopo, e di pieno giorno, e nell'interno della casa la loro quota di giubilo da consumarsi a pranzo; verso un'ora di notte un venticello inaspettato rendesse affatto sgombro il cielo; e la luna fosse pronta al suo posto, e le stelle popolassero il firmamento. Onde tornò la lena ne' petti, e giacchè le cene dovevano incominciare al tocco della mezzanotte, quelle ore intermedie si impiegarono nell'apparecchiar la tavola fuori delle porte di ciascuna casa, ed a metter la facciata delle case in quella maggior gala che era consentita dalla condizione dei padroni e degli inquilini. E venne anche la mezzanotte. E allo scampanamento che si fece sentire, com'era di pratica, agli orologi pubblici, tutta la città si mise a tavola, senza che fosse più incomodata da cavalli, da carri, da carrozze, perchè era severamente proibito a chicchessia d'uscire a quel modo per diporto per bisogno; rimanendone il privilegio a coloro soltanto per cui si faceva la festa; i quali anzi, qualche tempo dopo lo scocco della mezzanotte, dovevano per consuetudine fare il giro di quasi tutta la città in carrozza. Così dunque le carrozze di casa V... e quelle di casa Crivello si misero in movimento, allorchè qualche bottiglia era già stata vuotata tanto alla tavola dei ricchi che a quella dei poveri.

Ed ora, se il nostro racconto fosse un poema, l'invocazione della Musa sarebbe indicatissima. Ma invece, quando il lettore ce lo permetta, essendo assolutamente necessario di animare gli estri per riprodurre al vivo e al vero quella scena notturna, beveremo anche noi in anticipazione una buona bottiglia d'un vino che oramai più che all'enologia, può appartenere all'archeologia, quasi come il falerno d'Orazio; un vino che fu spremuto dai grappoli nel vendemmiale del primo anno di questo secolo. Per quello che dobbiamo far noi, che teniamo al guinzaglio cento anni, cinquanta del secolo passato e cinquanta del secolo corrente, l'ispirazione non può venire da Musa più propizia di questa bottiglia contenente il Napoleone dei vini, maturato anch'esso tra due secoli e capace di spumeggiare arbitro tra l'uno e l'altro.

 




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