VI
Verso le sette ore, ovvero sia un'ora dopo mezzanotte, il carrozzone
di gala scoperto che il conte V... mandò in casa Pietra-Incisa, uscì
trionfalmente dal portone di questa. La contessa Clelia e donna Ada vi stavano
adagiate sole senz'accompagnamento di cavalieri. Donna Paola se ne stette nelle
sue stanze perchè, sebbene fosse paga della buona riuscita di ciò che le avea
dato tanto affanno, pure aveva troppi dolori proprj per poter essere
perfettamente all'unisono colla gioja universale. Anzi dopo che le ultime
tormentose sollecitudini furono cessate, il pensiero rimasto solo della
condizione di suo figlio parve che fosse più forte di tutti gli altri dolori
che in cumulo aveva prima provati. Ella dunque se ne stette in casa; nè il
conte V... uscì del proprio palazzo, o fosse determinazione sua, o fosse
consiglio anche questo di donna Paola, perchè, dopo tutto, se riusciva un fatto
edificante la riconciliazione tra lui e la moglie, non era poi la cosa più
conveniente che in quella notte il conte figurasse in carrozza colla contessa.
Il mondo nella contemplazione di alcuni spettacoli trova il modo di ammirare
insieme e di deridere; trova degno del più grande elogio che una cosa sia stata
fatta, e non sa nel tempo stesso capacitarsi che vi possano essere stati uomini
di pasta così molle da lasciarsi indurre a farle.
La contessa e la giovinetta uscirono dunque sole; la prima
in tutto quello sfarzo imposto dalla solennità; la seconda in quella semplicità,
ben s'intende riccamente decorosa, voluta dalla sua condizione non ancor
cessata di educanda, e fors'anche, chi lo sa? dal desiderio materno che la semplicità
facesse parere ancora più giovane d'anni quella beltà adolescente. Il topè
necessariamente ci doveva essere, e la polvere di cipro aveva dovuto imbiancare
quelle chiome di seta bruna, la cui bellezza era un geloso segreto di cui non
era a parte che la governante e la mamma; ma il grembialetto di levantina nera
colle spalline non venne dimenticato; tanto era piaciuto a donna Clelia che
l'aura infantile circondasse quella sua figliuola più di quello che l'età
comportasse. Una rosa purpurea, intrecciata nei capelli, era il solo ornamento
accessorio che alterava di qualche poco la sobrietà di tutto il resto.
Vicina alla contessa, a cui lo sfarzo sovrabbondante aveva
come scemata quella perfetta somiglianza che due sere prima mostrò d'avere
colla figlia, questa poteva rendere l'imagine dell'arte pura del quattrocento
posta a raffronto coll'arte sfoggiata di poi a Venezia da Tiziano e Paolo;
pareva - già le similitudini non costano niente - la giovinetta e primitiva
Etruria messa a paro colla Roma imperiale, decadente sotto il manto di porpora
e d'oro. Nè il cocchiere tutto passamantato in argento, e che, come un oggetto
prezioso, poteva far gola ai ladri e venir rapito, seduto in alto sulla
cassetta a drappi e a frangie del carrozzone, e i tre servitori ritti in piedi
di dietro, gallonati senza risparmio, anch'essi, collo scialacquo della
prodigalità che ha smarrito il senso del gusto, le facevano il fondo più
adatto.
La corsa della carrozza ne' luoghi principali della città doveva
assomigliare ad un lungo viaggio, perchè i cavalli avevano a camminare di
passo, come avviene negli ingressi trionfali, e perchè ad ogni momento era
d'obbligo una fermata per rispondere agli evviva ed alle cortesie di chi stava
banchettando; e precisamente in piazza Borromeo, appena uscite dal portone di
casa Pietra, le due donne dovettero sostarsi innanzi al palazzo Borromeo, onde
ricevere le congratulazioni del conte padrone. Nel mezzo della piazza era stato
eretto un obelisco di legno posticcio tutto coperto dal vertice alla base da
cento fiammelle in vetri di vario colore che rischiaravano all'intorno la
piazza, e davano migliore aspetto alla facciata onde Fabio Mangone decorò
quella chiesa, fondata tanti secoli prima da quel figliuolo di un soldato di
Carlo Magno, che si chiamava Podone. Di qui svoltando a sinistra e procedendo
lentamente tra i consueti evviva che passavano di mensa in mensa, la carrozza
non fece altra fermata se non quando arrivò nella piazza dei Mercanti.
La scena che in quella notte offriva questa piazza era in
vero delle più pittoresche. Qui non v'erano banchetti di famiglia, ma quelli
delle rappresentanze del nobil Collegio de' giureconsulti, e delle Università
dei libraj, degli orefici, dei mercanti d'oro, dei bindellaj. Attraverso alle
colonne dello splendido edificio che Pio IV fece murare con disegno del Seregno
per le adunanze de' giureconsulti, stando in piazza si vedeva al vivo quella
scena che ci si offre nelle cene di Paolo Veronese; chè le mense erano state
disposte sotto ai portici stessi, per quanto erano lunghi. Il lusso
dell'architettura, le colonne doriche binate che tagliavan la scena ad
intervalli; la luce delle lumiere che pendevan dalla vôlta, la fiamma dei
doppieri che stavan sulla mensa; quei cinquanta o sessanta parrucconi bianchi,
que' colori delle giubbe d'ogni generazione, il fumo delle vivande che
involgeva quelle teste, tutte in agitato movimento, la luce in tremolìo che
sbizzarriva per mille accidenti fuggitivi e tramescolava tutte quelle tinte
vivaci e forti, tra cui dominava segnatamente il rosso fiamma, il verde pomo e
pistacchio, il fiordaliso, il croco, ecc. - chè la giovialità del secolo pareva
quasi cercare la sua espressione anche nel colore de' panni - tutto questo
miscuglio di cose produceva in vero un effetto de' più bizzarri e pittoreschi.
Al basso poi, intorno ai portici del Pretorio, oggi Archivio
generale, erano apprestate quattro lunghe mense; verso il lato che guardava il
Collegio dei giureconsulti stava seduta a tavola in gran numero l'Università
dei Libraj e Stampatori; al lato che prospetta l'ingresso all'Archivio v'era la
mensa dell'Università dei mercanti d'oro e chincaglie, ecc.; al lato verso la
loggia degli Osii, la numerosa Università degli orefici; a quello guardante lo
sbocco nella contrada dei Profumieri, l'Università dei mercanti di cordaria e
canevazzi, ecc.
Il palazzo dell'Archivio aveva smarrita l'unità della
primitiva architettura che fu convenuto di chiamar longobarda; il tempo e,
peggio del tempo, gli uomini lo avevano già reso informe per cattivi
riattamenti, per aggiunte importune, per la preoccupazione di servire al comodo
passeggiero senza rispetto di sorta alla forma decorosa; pure, con tutto
questo, nella sua apparenza di un edificio che aspetta di essere compiutamente
ristaurato, presentava ancora alcune parti solenni della vetusta architettura,
e segnatamente i finestroni sopra i portici. Per questa stessa mescolanza poi
di più elementi, il talento pittorico ne avrebbe al certo potuto cavar qualche
bizzarro partito per una scena prospettica, quando si fosse saputo fare una
bella scelta del punto di vista.
Quei sei finestroni aperti in alto nei lati più ampi
dell'edificio bastavano a ricordare e il tempo in cui esso era stato innalzato,
e tutte le idee concomitanti che quello svegliava: finestroni aperti a
grand'arco tondo, circoscrivente tre bassi e piccoli archetti addentrati e
sostenuti da due leggiere colonne. Tanto i pittori però, che gli architetti di
quel tempo, erano così lontani dal vedere con buon occhio la conservazione di
quelle, secondo loro, barbariche finestre, quanto noi dal congratularci cogli
architetti vandalici che fecero poi scomparire quelle aperture, richiamanti
l'età splendida dei liberi Comuni ed apersero nel piano aggiunto i giganteschi
occhi di bue i quali comunicarono a tutto l'edificio quella pesantezza goffa,
onde tutta la piazza e i decorosi e squisiti edificj di essa par come che ne
rimangano oppressi. Nè gli architetti nè i pittori di allora sapevano veder di
buon occhio nemmeno la loggia degli Osii, la quale per miracolo rimase salva
dal compasso devastatore degli architetti posteriori, i quali portarono la
confusione delle lingue in tutti i luoghi che ebbero a ristaurare. E la loggia
degli Osii era allora in tutta la sua primitiva schiettezza, nè erano anco
restate incastrate nel muro aggiunto le colonne su cui posano gli archi acuti.
Ma dell'essere rimasto incolume questo squisitissimo pezzo d'architettura
nessuno si congratulava in quel tempo, perchè i Bibienisti, che erano sul tramonto
della loro gloria, erano ben lontani dall'amare quello stile; e la nuova,
diremo, setta dei Pacisti, che spuntava allora a Roma ed in breve ebbe eco per
tutta Italia, prese una tale avversione a tutto ciò che non era greco e romano,
che guai se invece di pacifici architetti fossero stati conquistatori armati:
dell'Italia non sarebbe rimasta salva che una metà. Ma nè la contessa Clelia nè
la sua figliuola Ada ebbero tempo di far queste considerazioni architettoniche,
e dopo aver risposto agli evviva dei Giureconsulti che sorsero tutti in piedi a
far libazioni gratulatorie al passaggio della carrozza, e dopo che la fanciulla
Ada colla sua gentile manina mise il rotolo di prammatica nell'urna che stava
sotto alla bandiera portante il nome delle Università, e in quella che stava ai
piedi di un Sant'Eligio di legno dorato, il santo protettore degli orefici; la
carrozza svoltò in santa Margherita, e passò innanzi alla chiesa di santa Maria
alla Scala, e traendo per le Case Rotte nella piazza san Fedele, venne a fermarsi
davanti al palazzo Imbonati che allora era tra i più splendidi della città, e
oggidì mal si ravvisa in quella casa che sta rimpetto a san Fedele.
Innanzi dunque alla porta di casa Imbonati, dove era distesa
una lunga mensa che occupava tutta la sua fronte, dovette necessariamente
arrestarsi la carrozza delle festeggiate. Su quella mensa v'eran tutti gli
sfoggi della ricchezza che converte in eleganza, diremo intellettuale, anche le
imbandigioni. Intorno ad essa erano seduti i più segnalati fra gl'ingegni di
Lombardia. L'antica accademia dei Trasformati, sorta per la prima volta a
Milano nel 1546, per opera di dodici letterati insigni, fra cui il Majoragio e
il Gallerano, e in breve tempo venuta in gran fama in tutta Italia, aveva
dovuto per l'avversa condizione dei tempi ammutire e spegnersi, nè per un
secolo e mezzo non vi fu chi più tentasse a rinnovellarla. Soltanto nel 1743 il
conte Giuseppe Maria Imbonati, in cui la
squisitezza dell'ingegno era pari alla squisitezza dell'animo, avendo pensato
di farla sorgere a nuova vita, per raggiungere questo intento si associò alcuni
fra i più alti ingegni milanesi, ed aprì nella propria casa le aule per i
convegni de' socj. Gli statuti dell'accademia antica avean dato ai
trattenimenti più ampio cerchio di quello che comunemente allora era adottato;
onde non solo s'era occupata di letteratura amena, ma aveva dato opera anche
alla filosofia morale ed alle altre scienze.
La nuova società inaugurata da Giuseppe
Imbonati si propose dunque i medesimi scopi, ed anzi ne allargò la sfera, e
tosto divenne celebre per gli uomini eminenti che furono ascritti ad essa. A
quella mensa sedevano Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, il Tanzi, Cesare
Beccaria, il professore Teodoro Villa, Paolo Frisi, Giuseppe
Parini, il conte Giorgio Giulini, il Quadrio, il Baretti, e vi sarebbe seduto
anche colui che dalla bontà prodigiosa del cuore sembrò
aver attinto l'ingegno, vogliam dire Gian Carlo Passeroni, ma in quel tempo
viveva a Colonia qual segretario di monsignor Lucini, nunzio apostolico presso
gli elettori e principi pel circolo del Basso Reno; vi sedeva il poeta
Balestrieri, il successore del più grande Maggi: il Fogliazzi, il Guttierez, ed
altri molti. Nell'aula di questa società si può dunque dire che furono
primamente ventilate quelle questioni organiche che si proposero il più
razionale ristauro della vita civile. Qui il Parini si consigliò spesse volte
col Passeroni sull'orditura del suo Giorno. Qui il Passeroni fece lettura del
suo poema il Cicerone, dove, dissimulato dalla forma semplicissima
fino a parer disordinata, e dall'ingenua giocondità, e da quella bonomia di chi
è e non vuol parere, è sì prezioso tesoro di sapienza, di sana morale e di
coraggio. Nell'attrito della discussione qui si mostrò l'acuta penetrazione di
Pietro Verri, qui il più giovane Beccaria, sollecitato dall'amico, imparò a
liberare il potentissimo ingegno dall'indolenza. Però ripensando a queste cose,
e al tanto bene che iniziarono alcune accademie in Italia, e, segnatamente
questa dei Trasformati a Milano, non par vero come siasi potuto avvolgerle
tutte quante in un fascio, e multarle di ridicolo tutte; ma la storia delle
pecore, e quel che fa la prima e l'altre fanno - si presenta sempre
a ripetere qualche sbagliata opinione pronunciata per la prima volta, e messa
in corso non si sa da chi e perchè.
Nel mezzo dell'ampia mensa, fra vasi d'argento, di
cristallo, di porcellana, sorgeva un ramo di platano portante scritto su di un
largo nastro il motto virgiliano: Et steriles Platani malos gessere valentes,
che era l'impresa dell'accademia. Al fermarsi della carrozza s'alzaron tutti, e
il conte Giuseppe Imbonati insieme coll'unico
figlio, e col genero don Francesco Carcano e colla moglie contessa Bicetti,
anch'essa valorosa poetessa, si tolsero dalla tavola e si recarono allo
sportello della carrozza: i primi a fare i loro speciali complimenti a donna
Clelia, l'ultima a deporre un bacio sulla fronte della fanciulla Ada. Nel tempo
che succedeva questa amorevole intervista, stettero in silenzio tutti i
commensali dell'Imbonati, intenti a guardare le festeggiate, commosse a tanta
benevola accoglienza. E mentre si faceva silenzio, in quel punto si sentiva il
vasto e vario rumore che l'aria vi portava da tutti i punti della città. La
scena era grandiosa e interessante tanto per l'udito che per la vista. La
maestosa mole del palazzo Marino era illuminata dalla luna. In quel tempo non
era ancora stata edificata, a toglier la prospettiva del tempio di san Fedele,
quella casa che nel 1814 doveva poi essere l'orrida scena di un gran delitto
pubblico; però la piazza, se si eccettui il palazzo della Bella Venezia, stato
costrutto in seguito dall'architetto Zanoja, offriva press'a poco l'aspetto
d'oggidì: l'aspetto di una gran sala a cielo scoperto, solenne ed elegante pei
due cospicui edifici, senza contare la facciata di casa Imbonati che presentava
linee grandiose e ricchezza di ornato, linee e ornato che scomparvero nel
ristauro che se ne fece molto tempo dopo.
Ma la carrozza passò oltre, e giù per san Raffaello se ne
venne al Duomo, e giacchè il cocchiere aveva come a dire l'itinerario e quasi
la nota dei luoghi dove aveva a far le fermate, deviò verso Camposanto dov'era
un altro banchetto che meritava una distinzione, quello della scuola degli
scultori, la quale aveva sede precisamente in quel luogo. A quella mensa
insieme cogli scultori si trovaron alcuni architetti. Tra i primi v'era il
Franchi e il Bussi, e con essi un fanciullo di nove in dieci anni, Angelo
Pizzi, che lavorava in qualità di garzone scarpellino per la fabbrica del
Duomo, e che avendo poi mostrato uno straordinario ingegno per l'arte
figurativa, invece di fermarsi a far gli spigoli alla pietra di Viggiù e al
granito, era destinato a competere con Canova, e forse a superarlo nel ritrarre
in apoteosi e in dimensioni gigantesche la figura di Napoleone ottimo massimo.
Tra gli architetti poi sedevano il prospettico Bibiena sessagenario, e il
giovane Simone Cantoni, i quali rappresentavano in sè stessi il tramonto
dell'arte che sbizzarrisce e si perde per eccesso di fantasia e di audacia, e
il sorgere della scuola severa inaugurata a Roma, a cui sono impacciati i voli
per l'esclusiva adorazione delle tradizioni italo-greche. Vicino a questi
sedeva un fanciullo, anzi un abatino di dodici anni, che il Bibiena sessagenario
aveva carissimo per l'acutezza d'ingegno che mostrava, e per la non comune
attitudine che aveva alle arti del disegno. Quel fanciullo era Giuseppe
Zanoja d'Omegna.
Il Bibiena, che aveva condotto alcune opere nel palazzo del
conte V..., si alzò e si mosse e s'appressò allo sportello per inchinarsi alla
contessa, la quale nel girar lo sguardo su tutti quegli artisti là riuniti, non
potè a meno di chiedergli, maravigliando, per qual motivo fosse tra loro quel
piccolo abatino; e l'abatino, chiamato dal suo maestro, dovette lasciar la
tavola e farsi innanzi e rispondere alle domande della contessa, senza saper
togliere gli occhi dal volto della fanciulla. Ed ora se il lettore sente le
minacce della noja, costretto com'è a passare in rivista tante cose, di cui
probabilmente gli importa poco o punto, lo consoleremo con un po' di pausa, e
colla promessa di un avvenire migliore.
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