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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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VII Se alcuni dei nostri lettori, quando non sien tutti, il che non è lontano dall'improbabile, si annojano a tener dietro alla carrozza delle nostre due eroine, vuol dire che per questa volta si trovano in una condizione peggiore dei due lacchè che la precedevano colle torcie a vento, e che obbligati in quella notte a camminare di passo, respiravano invece a tutto loro agio, vuotavano i bicchieri di vino che loro venivano sporti dai banchettanti e si divertivano, senza fatica, ritardando con quell'impreveduto riposo l'inevitabile ernia dei vecchi anni. I quali due lacchè, quando il cocchiere applicò leggermente alle loro gambe lo scoppiettante spago della frusta (perchè era un vezzo dei cocchieri, quando erano di buon umore e andavan d'accordo coi lacchè, di far loro quel complimento, credendo così d'innalzarli fino al grado dei cavalli), lasciarono quelle catapecchie del Camposanto, dove a stento la carrozza si era internata, ed ajutando a mano i cavalli ad uscirne, precedettero il carrozzone lungo i fianchi del Duomo, ed entrarono trionfalmente su quella che anche allora, come adesso, con un coraggio degno di miglior causa, si chiamava la piazza del Duomo; ma foss'ella o non fosse una piazza, alla vista del carrozzone di casa V..., sorse tutta come un sol uomo, mandando tali evviva da intronarne l'aria e da minacciare, se non i pilastroni del Duomo, almeno le impalcature che stavano a molte parti di esso, e segnatamente alla guglia massima che era ancora in costruzione. Il Coperchio de' Figini, illuminato a giorno, dentro e fuori, presentava un ordine lungo di banchetti, ed eran quelli dei proprietarj delle botteghe colle loro mogli, coi loro figliuoli, colle loro fantesche. Il rumore delle voci e le liete strida infantili e le trombette acutissime onde i papà eran stati indulgenti ai figliuoli, soverchiavano tutti gli altri suoni, e rendendo inutili le orecchie, la libertà di scelta non rimaneva che agli occhi, i quali, dai banchetti, situati sotto il coperchio, giravano a veder una lunga fila di tavole che dalla porta maggiore del tempio andava a finire alla porta della casa che le sta dirimpetto, alle quali tavole, divise in più scompartimenti, sedevano altre università d'arti e mestieri: l'università dei ricamatori, dei tessitori, dei mercanti di lana, dei sellari. Tutta sola poi, e quasi sdegnosa di star colle altre, sedeva in quell'appendice della piazza, che era incorniciata dal palazzo Ducale, colle proprie insegne e i proprj titoli fatti con lumini in vetri colorati estesi nella lingua del Lazio, l'Abbatia et Universitas Salsamentariorum et Postariorum pinguedinis civitatis, ecc. La contessa Clelia che, tenuto conto di tutto, era piuttosto seria in quella notte e meditabonda, sebbene avesse vicino a sè e tenesse per mano quel caro angelo della sua Ada, sentì gli assalti del buon umore a leggere quelle parole, e si diede a ridere di cuore, riso che i rispettabili membri dell'abbazia interpretarono come un segno della gratitudine e dell'affabilità di quella egregia dama, e strepitarono per acclamarla e batterono palma a palma; e misero poi coi loro baci riconoscenti in gravissimo pericolo la bianca manina di donna Ada, quand'ella depose un rotolo di zecchini sovra il bacile d'argento, presso cui posava l'enorme testa di un cignale incoronato di salsiccia. Liberata la bianca mano di donna Ada dai baci micidiali dei Salsamentariorum, la carrozza tirò innanzi; ma fu trattenuta dalle acclamazioni speciali che s'innalzarono da una gran tavola numerosa di convivi, e disposta in modo che girava come un semicerchio irregolare intorno alla testa, diremo, dell'informe corpaccio dell'isola del Rebecchino, nella parte che guarda la facciata del Duomo. Quei convivi erano gli avventori del caffè del Greco, giovinotti liberi per la maggior parte e senza famiglia, e che anch'essi, quantunque senza statuti nè scritti nè stampati, e senza privilegj d'abbazia e d'università, costituivano di fatto, in una parola, se non di diritto, la più felice università dei benestanti, dei nullafacenti e dei maledicenti, tra' quali abbiamo alcuni nostri conoscenti vecchi. Avevano tutti una gran voglia di veder dappresso tanto la contessa che la sua figliuola, perchè la curiosità è il carattere dominante di coloro per cui il problema più arduo della vita sta nel come si possono passar senza noja le ventiquattr'ore del giorno astronomico. Il chiacchierone di nostra conoscenza, che ben potea essere il priore di que' socj più o meno felici, s'incaricò, senz'essere pregato, di parlare per tutti; e a nome di tutti espresse alla contessa la gioja ond'erano compresi al vedere ridonata a Milano una così celebre dama, da cui la città riceveva sì gran lustro e decoro; e soggiunse che tanto più si congratulava, in quanto la vedeva felice appresso alla sua giovinetta e bellissima figliuola, la quale, non ancora uscente dalla fanciullezza, aveva già patito la sventura; ma qui faceva considerare che per ciò appunto ella aveva ragione d'esaltarsi avendo vedute le prove manifeste del come la Provvidenza volle pigliarsi di lei una cura speciale; il che rendeva poi ragionevole la presunzione che fosse per essere chiamata a grandi destini chi aveva avuto così solenni principj. La contessa, un po' annojata, un po' imbarazzata, un po' eccitata all'ilarità da quell'orazione gratulatoria pro forma, rispose quattro parole complimentose, e due ne aggiunse come seppe la più confusa Ada, e il cocchiere frustò cavalli e lacchè, e tirò innanzi. E appena la carrozza fu a una distanza conveniente, tutti quanti liberarono una risata compressa a stento, e: - Bravo, il nostro oratore, esclamarono; bene il nostro cicerone. Altro che monsignor Bovio quando predica in Duomo! - Vi pare!... - E come! - E se non c'era io, faceva una bella figura la società del caffè Demetrio tanto rinomata per il suo spirito, che, per dar spaccio al suo giornale, Verri stesso ha stimato bene di dar ad intendere che venga pensato e scritto qui. - Tu però che assordi gli amici e chiacchieri di tutto e fai lo scalmanato su tutto, anche di mattina, quando nello stomaco non hai che cioccolata... si può dire che eri in soggezione, se dopo tanto Monterobbio hai pronunciato quel così goffo e mal unito discorso. Oh come deve aver riso la contessa! - Sarà per invidia, ma son contento del mio umile posto, di non aver fatto altro che ridere insieme colla contessa. Ma a proposito della contessa, dove diavolo è andato a finire il tenore Amorevoli. di cui non si sente a dir più parola? Questo sarebbe per lui il momento di tornare a Milano. - Sì, per cogliere la buon'occasione, e andare in prigione un'altra volta. - Perchè? - Perchè?... vedo che tutti quelli che andarono in prigione nel 1750 tornano in prigione nel 1766. Guardate: - Lorenzo Bruni, il violino del teatro Ducale, è ancora sotto custodia. Al Galantino non bastò la ricchezza per tenere in rispetto il barigello. Quasi quasi mi parrebbe che invece di sedici anni non sieno passate che ventiquattr'ore. È tutto precisamente al posto di prima; onde torno a ripetere che se il tenore capitasse a Milano... non sarebbero staccati i cavalli dalla sua vettura, che i fanti dell'eccellentissimo capitano andrebbero a fargli visita. Oh se ci fosse l'arte di tirarlo qui... che bella cosa! tutto quello che par finito scommetto che rincomincerebbe da capo. E per noi che non abbiam nulla a fare sarebbe una risorsa. Tornare al prologo quando si crede che manchi poco a calare il sipario! E chi parlava avrebbe continuato, ma le sue parole non essendo state raccolte da alcuno, caddero naturalmente in terra, e i compagnoni, rimessisi a sedere, passarono ad altro; onde noi non avremmo altro obbligo di lasciarli in compagnia delle loro bottiglie e della loro allegria, e dopo aver girato un altro sguardo alla piazza al Duomo in costruzione, alla sua facciata di cui non sorgevano che le porte del Pellegrini, stupende in sè stesse, ma che, per aver voluto contraddire ad Orazio, riuscirono ad essere la Prima e sola cagion d'ogni sventura; - ai due piloni del Buzzi, quelli del secondo progetto; alle traccie, diremo così, sbozzate degli errori futuri; dopo aver data un'occhiata all'architettura gotica e poderosa del palazzo ducale, un'occhiata tenera perchè non la vedremo più, chè il Piermarini sarà incaricato di scopare via la facciata, il nostro obbligo or sarebbe di tener dietro alla contessa e alla contessina, ma un discorso curioso ci trattiene ancora in piazza. - Che bella cosa (saltò su a dir uno, che non s'era mai mosso da sedere, e tutto assorto nella contemplazione della scena che gli si spiegava dinanzi, non s'era nemmen lasciato tentare dalla curiosità di veder dappresso la contessa e la sua figliuola); che bella cosa, disse, se invece di questa miseria di piazza, chi ha pensato a far sorgere questa montagna lavorata, avesse anche provveduto a distenderle intorno uno spazio conveniente, decorato di edifizi, degni della città!... in una notte come questa imaginatevi che magnifico effetto farebbe. - Quando il Duomo sarà finito, sta tranquillo, che chi verrà dopo di noi penserà a far quello che non si poteva e non si doveva fare tre secoli fa. - Perchè non si poteva? - Ma vuoi tu che si pensasse a fare la cornice prima di veder l'effetto totale del quadro? - Può darsi che tu abbia ragione, ma una piazza non è una cornice; e il popolo passeggia e si ferma e si trattiene in piazza prima ancora di entrare in chiesa, sicchè l'opportunità della piazza è contemporanea al tempio che vi deve campeggiare. Dirò di più, che se si fosse pensato fin d'allora a distendere la piazza per tutto lo spazio necessario a sì gran mole, anche il Duomo vi avrebbe guadagnato, e non sarebbe venuto in mente agli ingegneri del secolo passato, quando vennero a cessar gli scalpori sui tre progetti del Castelli, del Richini e del Buzzi, di impiccolire e immiserire il progetto dell'ultimo, respingendo l'idea dei due giganteschi campanili ai fianchi della facciata. La piazza regolare avrebbe mostrato che i due piloni laterali che vediamo adesso, non adempiono alle leggi della proporzione con tutto il resto del tempio. Che volete? la mia sarà un'idea stramba, ma due anni fa, quando Paolo Frisi si oppose alla determinazione degli ingegneri ed architetti del Duomo di innalzare la massima guglia sul lucernario prima di compire le altre parti del tempio, io ho detto: il padre Frisi, da quel grande uomo che è, ha ragione, ma avrebbe più ragione ancora se dicesse: signor capitolo del Duomo, signora fabbriceria, signori architetti e ingegneri, non abbiate tanta fretta; aspettate a far la guglia; aspettate a far la facciata; e, innanzi tutto sollecitate il pensiero di distenderle innanzi una piazza. La prima operazione dev'esser questa. - E dove si troverebbero i danari? - Dove? nelle saccocce dei cittadini, s'intende; son dieci, son dodici, son quindici milioni? Ebbene; i decurioni aprono un prestito, e giacchè sento che tanti e tanti temono sempre di non poter impiegare il danaro con sufficiente sicurezza, qual ci può essere garanzia più valida della città stessa? Ma di ciò non mi voglio impacciare io. Molti sono i mezzi per erogar danaro; e purchè ci sia la buona volontà e il buon accordo e la fermezza, la questione del danaro... a voi parrà ch'io dica una sciocchezza... ma la questione del danaro è ancora l'ultima. Ed ecco là che sorge gigante la prova perpetua di quel che dico. Mancavano i danari due anni fa, quando tutti gli architetti strepitarono a favore della guglia e ottennero il loro intento, e il padre Frisi alla testa di pochi altri voleva la facciata? No, ma mancava il buon accordo. Mancavano i danari nel 1656, quando sorsero tante dispute sui tre disegni presentati? anche allora era il buon accordo che mancava, e segnatamente nella schiera degli uomini dell'arte; perchè, come può darsi che i migliori architetti, almeno i più famosi, e tra gli altri anche Lorenzo Bernini, lodassero quella ridicola bomboniera dell'architetto Castelli; e tutti poi si gettassero addosso inviperiti al progetto del Buzzi? Or che n'è derivato? Gli uomini della scienza e dell'arte protestarono. Ma l'occhio che vuol la sua parte fece sì che i fabbricieri e il capitolo e i decurioni stessero per il Buzzi, e adottassero il suo progetto. Ma tanto per venire a patti coi pregiudizj, lo corressero in varie parti, e più e peggio dove c'era il pensiero più bello e più splendido. Ed ora ecco lì... due piloni meschini che fanno sperar pochissimo dell'avvenire di questa facciata, la quale allora fu continuata di mala voglia perchè la fabbriceria non era soddisfatta, e rallentò le operazioni colla speranza forse che il tempo correggesse gli spropositi. Ma ci vuol altro... - Tu dici benissimo, osservava un altro, e giacchè si parlava di piazza, se io fossi quello che comanda e che paga... il mio primo pensiero sarebbe rivolto alla piazza appunto, e farei sospendere tutti gli altri lavori. Un gran portico tutt'all'ingiro, e che girasse la più grande area possibile. - Allora, mio caro, comincerebbe subito l'opposizione, perchè se anch'io fossi quello che comanda e che paga, farei di tutto perchè non andasse il tuo progetto. Quegli che, dopo aver appoggiate le parole del commensale, che, a quanto pare, rubava all'ozio quotidiano qualche ora a pigliarsela calda pei progetti architettonici della città di Milano, si sentì, a titolo di ringraziamento, da lui così crudamente contraddetto: - Ma perchè, disse, tu saresti un mio oppositore? - Perchè piuttosto che vedere un grande spazio tutto circondato da portici uniformi con edifizj tutti d'uno stile e tutti d'una medesima altezza, mi accontento della piazza che vedo adesso. - Sarà bene che tu abbia ragione... ma se non io, c'è la piazza di San Marco di Venezia che ti dà torto da quasi tre secoli, e c'è la piazza di San Pietro a Roma che te lo dà da cento anni. - Domando mille perdoni, ma la piazza di San Marco è sempre là invece e a darmi ragione; in quanto poi a quella di S. Pietro, son ben contento ch'essa mi dia torto. Essa è l'opera più assurda del Bernini; basti il dire che, passeggiando sotto i portici, ad ogni momento fugge di vista il tempio per cui la piazza fu fatta. - Lascia da parte la forma ellittica, ed è subito tolta l'assurdità. - Sì... in quanto alla vista del tempio; ma resterebbe però sempre, invece d'una piazza, un gran cortile quadrato, che può parere anche un cimitero. - Torno a rammentarti la piazza di San Marco. - Bisogna distinguere, caro mio. - Distinguiamo pure. Non ho niente in contrario. - Dunque è da considerare che, quando si dice piazza di San Marco, l'imaginazione corre subito al suo quadro totale; vale a dire all'unione della piazza colla piazzetta, la quale, siamo sinceri, è quella poi che fa le spese di tutto. - Come fa le spese di tutto? - Sì, perchè se non ci fosse la piazzetta, ti regalo la piazza, che per me è davvero un cortile, grandioso, vasto, splendido, ornatissimo, ma sempre un cortile, e guai, dico, se non ci fosse la piazzetta a darci vita. - Ma che cosa ci vuole per te, affinchè una piazza debba essere una piazza? - Prima di tutto che non sia chiusa, vale a dire, che manifestamente presenti gli sfogatoj e gli sbocchi alle altre parti della città; in secondo luogo che offra la maggior varietà possibile tanto negli stili, quanto nelle elevazioni, quanto nell'indole degli edifizj ond'è determinata. - La confusione di Babele, in una parola; va benissimo. - Mi pare, caro mio, che tu prenda la piega di spropositare. - Bada che ho viaggiato, e ho buona memoria, e ho tutte le piazze d'Italia in testa e ho sempre avuto una certa inclinazione per l'architettura. - E nemmeno io posso dire d'esser sempre rimasto a Milano, e se ti cito San Pietro e San Marco, vuol dire che li ho visti; in quanto poi al resto, se tu sei amico dell'architettura, me ne congratulo tanto; ma anch'io schicchero, così per passare questi giorni lunghi, qualche quadruccio di prospettiva sotto la direzione del Bibiena, che ha ingegno da vendere e fantasia da regalare al tuo Cantoni. Tutta la sua disgrazia sta che la moda or pare che abbia preso di mira il suo genere; e la peggior disdetta è che la moda non si fermi alle parrucche, ai topè, ai puff, ma pretenda di sedere in cattedra a dar le leggi dell'arte. - Ma a che cosa vuoi riuscire con tutte queste?... - A ciò, che non basta nè l'aver viaggiato nè l'aver studiato, ma bisogna avere quel che si chiama buon occhio, buon gusto e criterio. - E tu sei così riccamente provveduto di queste tre cose, che per gli altri non è rimasto indietro nulla. Anche questo vuoi dire? - Non pretendo tanto; ma mi viene bensì qualche assalto di superbia quando mi trovo in faccia ad uno il quale mi dice che la varietà ha per conseguenza la confusione; e che ignora quel gran principio dell'arte vera, e quel segreto con cui il genio, e senza incomodare il genio, anche l'ingegno riesce a colpire di meraviglia gli osservatori; ed è quello appunto di saper far sì che l'unità trionfi nella varietà, - questo è il problema da sciogliere. - Mi spiego subito... e mi spiego pigliando per punto di appoggio precisamente la piazzetta di San Marco. Perchè tutti i forestieri d'ogni paese, d'ogni generazione, d'ogni levatura, sono costretti a confessare che in quell'aggregato d'edifizj è il trionfo dell'architettura, e che forse in nessuna parte del mondo può trovarsi una scena più maravigliosa di quella che si presenta a chi approda sulla scalea del molo della piazzetta di san Marco? perchè appunto trova l'unità nella varietà. A destra il palazzo Ducale del Calendario; vicino ad esso le prigioni del Da Ponte, dirimpetto l'edificio della libreria del Sansovino; vicino a questo il palazzo degli ufficj. E se dal primo, dirò così, sipario, si spinge l'occhio oltre le colonne di Todero e del Leone, ecco la basilica di San Marco a dritta colle sue cupole bisantine, ecco la torre dell'orologio di fronte e un brano delle Procuratie nuove de' Lombardi. Nientemeno che sette edifizj, sette stili, sette varie altezze, e una schiera d'architetti di tempi diversi e di diverse scuole che vi portarono il vario contributo della loro ricca fantasia. Ora, se invece di tutte queste cose non si vedesse che un portico lungo ed ampio a tiro d'occhio, lo spettatore sarebbe già addormentato prima di avere il tempo d'andar in entusiasmo. - Lo credi tu? - Lo credo perchè ciò mi accadde precisamente a Roma, stando sulla piazza di San Pietro. - Ora sentiamo che cosa faresti tu se la cassa pubblica avesse il ghiribizzo di vuotarsi tutta per il piacere di nominarti architetto della gran piazza del Duomo; perchè bada che questa piazza, per esser degna del tempio, bisogna che giri un'area immensa, e che però dovrebbe andar giù tutto il Coperchio de' Figini, tutta quest'isola del Rebecchino; e si dovrebbe lavorar di martello fino alla Dogana, demolire il corpo delle case che dividono la piazza de' Mercanti da quella del Duomo. - Se questo fosse, tanto andrebbe per la piazza a portici uniformi, come per la piazza a varietà d'edifici. Ma non è così, caro mio, ed è precisamente coll'idea del variare stili e altezze e indole d'edifici, e col gran segreto dei giuochi prospettici che non è necessaria tant'area; perchè coll'artistica illusione della varietà, l'occhio crede sempre di girare uno spazio infinitamente maggiore del vero. Che se fosse indispensabile quello che tu dici, il miglior architetto della piazza del Duomo sarebbe il parco d'artiglieria del re di Prussia. Ma stando a quel che io dico e che diceva appunto il Bibiena, fa in modo di rendere regolare la piazza, fa che la facciata del Duomo si metta d'accordo col suo asse, e passeggiando sotto agli archi dei vari edificj si vedano i fianchi del tempio. Fa scomparire quest'isolotto e innalza da questa parte due corpi di diversa architettura: uno greco romano puro, per esempio, sormontato da due statue che fanno sempre effetto con poco; l'altro più basso, più gentile con dei portici leggieri bramanteschi; lega i due edificj con un terrazzo, perchè così di sopra e di sotto appaja la fuga delle altre contrade, con che si ottiene d'ingrandir la piazza all'occhio; innalza dirimpetto al Duomo qualche edificio con quello stile che più ti garba, ma il di cui organismo sia tale che sembri come a traforo con fughe d'archi e di colonne nella base, con opportuni interrompimenti nelle elevazioni onde appajano così dalla lontana, e quantunque per isghembo, i fastigj dell'archivio e della torre dell'orologio della piazza de' Mercanti; allora la piazza de' Mercanti, senza accorgersi, verrà in ajuto di questa; demolito poi il Coperchio de' Figini, fa in modo che in quel lato sorga qualche palazzo a servizio di Pubblici uffizj, la di cui architettura, per esempio, somigli..., sei stato a Mantova? - Sì. - Bene, al palazzo Ducale di Mantova. Per introdurre poi de' cambiamenti, fa che il palazzo sia come diviso in due ale, e che la parte di mezzo sia una galleria ad ampi ed alti finestroni, i quali rendano come trasparente l'edificio, chè in tal maniera a suo tempo, anche la luna potrà venire in soccorso dell'architettura. I fianchi del Duomo finalmente sieno illustrati qui dal palazzo Ducale come sta, sebbene invochi un compiuto ristauro; là, da qualche altro palazzo che abbia una fronte molto ornata. A questo modo abbiam anche il vantaggio, di poter fare tutto a poco a poco, e senza che si stanchi il pubblico nell'aspettazione di veder compiuto un sistema unico di costruzione, che per la sua natura può stancar la pazienza di più generazioni. - A dire la verità, non afferro bene quest'ultimo tuo pensiero. - Voglio dire che, se venisse adottato un progetto sontuoso di una piazza, per esempio, come tu hai detto, tutta a portici uniformi e ad elevazioni eguali, subordinate ad un'idea sola architettonica, finchè l'opera tutta quanta non è condotta a compimento, le generazioni che ne vedono il principio e la lenta continuazione avranno sempre innanzi agli occhi qualche cosa che li disgusta. Col mio pensiero invece dei molteplici ordini d'edificj, quello con cui si dà avvio alla piazza può essere finito in breve tempo; e presentando un tutto armonico e compiuto in sè stesso, soddisfa appieno quelli che hanno avuto il merito d'innalzarlo, ed è come un compenso dell'opera loro. Ma questo è nulla; c'è un altro vantaggio ben maggiore: c'è che sulla piazza, potendosi innalzare più opere di varia architettura e di varia sontuosità, qualche ricco privato potrà sentir la tentazione di sfoggiarvi la sua ricchezza e il suo buon gusto; e l'esempio provocar l'imitazione; e la cassa cittadina venir così in gran parte risparmiata per la spontanea concorrenza dell'oro privato; con che si otterrebber nel tempo stesso due intenti: l'uno di render la piazza più magnifica mettendo in lizza le gare; l'altro di ridurla a compimento nel più breve tempo possibile. Or che te ne pare? - Che bisogna aver la fantasia molto riscaldata per poter fare di questi conti. Ma lasciando che questi due s'arrabattino tra di loro, noi raggiungeremo il carrozzone di casa V..., senza entrar arbitri in codesta questione, solo dicendo a coloro i quali fossero nemici delle piazze aperte ed a varietà d'edifizj, che possono consolarsi pensando che il prolisso interlocutore in quella notte dei banchetti era esaltato dai vapori della cena; quelli poi che fossero del suo parere si rallegrino pensando che le lucide cene sono eccitatrici mirabili di fantasia, senza della quale non si fa mai nulla di grande nelle opere dell'architettura.
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