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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO NONO
    • VIII
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VIII

Spaventati dallo spavento onde possono essere compresi i nostri lettori, i benevoli, intendiamoci bene, pel dubbio che questa nostra corsa notturna attraverso alle contrade Milano abbia a prolungarsi oltre i limiti della discrezione, abbiamo supplicato il cocchiere di casa V... a sollecitare al trotto i cavalli e a costringere al corso anche i due lacchè, sebbene dondolanti pel troppo vino bevuto. Non occorre dunque che ci arrestiamo in piazza Fontana dove banchettano l'illustre badia dei Bergamini e dei Caseri, e la più celebre dei Facchini, tre caste poderose, che costituivano l'aristocrazia della forza muscolare, e che, guardate anche di fuga, pur bastavano per distruggere tutte le opinioni di un filosofo persuaso della graduale decadenza della razza umana. occorre che la carrozza si trattenga nel classico Verzajo, dove in quella notte imperversarono più dell'usato tutte le ricchezze del vocabolario milanese; ma, dopo aver fatto una visita in Chiaravalle, alla tavola dove sedevano i soci dell'accademia dei Fenicj, di cui il segretario perpetuo era l'abate Andrea Oltolina, erudito, bibliografo, poeta vernacolo e pedagogo, proceda oltre verso porta Romana, perchè bisognerà pur troppo che si trattenga innanzi a qualche banchetto patrizio. E casa Annoni ecco che si mostra per la prima volta alle due donne che si sentono acclamate avanti quasi di essere vedute, e a qualche distanza dirimpetto a quella, ecco la casa dei Mellerio, il fermiere milionario che manda fuoco e fiamme a soverchiar lo splendore di casa Annoni. Nell'umile prospetto della qual casa (chè il Cantoni non era ancora stato chiamato a rifabbricarla), contrastante colla pompa sibaritica che sfolgorava alla porta, appariva come in evidente compendio la storia perpetua della ruota della fortuna. E innanzi ad essa, chiamate ad alta voce dal ricco e pomposo padrone, circondato da numerosa folla di dipendenti, dai tosatori di seconda mano e dalle ausiliarie sanguisughe del pubblico, dovettero pur fermarsi le due donne, dopo essere state un momento prima baciate e ribaciate dalla contessa Annoni, vecchia dama, tutta compresa della propria posizione, e quasi fatta più rispettosa verso se stessa per la considerazione della grande nobiltà del casato in cui la Provvidenza l'aveva fatta nascere. Adempiuto a questi convenevoli, la carrozza procedette con trotto normale fin oltre il ponte, non arrestandosi che innanzi al palazzo Pertusati, ovvero sia all'albergo delle Muse, come esso veniva chiamato per antonomasia. Coloro che sedevano a quel banchetto erano tutti pastori e pastorelle d'Arcadia, della così detta colonia milanese, introdotta fra noi dal padre Giannantonio Mezzabarba fin dal 1704. A questa colonia il conte Carlo Pertusati, stato presidente del Senato e gran cancelliere, aveva dato per sede delle adunanze il proprio palazzo. Ad imitazione degli orti Rucellaj vi aveva poi fatto disporre un giardino, il più squisito nel Ducato per piante rare ed esotiche, dove gli Arcadi si raccoglievano in estate a recitarvi i loro componimenti, e dove don Luca Pertusati, ad alternare la scienza colla poesia, aveva radunati i più valenti cultori di botanica per mettere in comune i loro studj. Ma ciò che costituiva la rinomanza di quel palazzo era la copiosa biblioteca che il conte Carlo, nel tempo ch'era stato reggente del consiglio d'Italia, aveva arricchito di opere onnigene e delle più riputate edizioni. Chi avesse detto al conte che quella biblioteca era destinata a diventar la base di quella che fu in seguito la biblioteca di Brera, per lasciar poi che si sperdesse nell'obblio il nome del suo primo padre!

Ricevute le più calde congratulazioni dal conte Pertusati, conservatore di quella colonia, e che, nelle solenni adunanze, dimentico quasi della sua qualità di questore del Senato e di prefetto della compagnia di San Giovanni alle Case Rotte, non si gloriava che di essere un pastore; accolti i complimenti degli altri arcadi, e sopportata con aspetto ridente la tempesta dei baci di quella dozzina di pastorelle che sedevano al banchetto; la contessa e la contessina colle guancie fatte frolle dalle impronte di tanta cordialità, si partirono, ingiungendo la contessa al cocchiere di tirar via dritto pel corso senza tornare indietro, di pigliar la via de' bastioni di porta Romana, e per di passare a porta Orientale; chè sentiva, tanto essa che la figliuola, un gran bisogno di respirare, salvandosi per un momento dal pubblico entusiasmo. Come furono sulle mura, i loro occhi riposarono da tanta luce, e gli orecchi da sì prolungato frastuono. Bene dal bastione, girando lo sguardo sulla città sottoposta, si vedevano gli sparsi splendori di tante e tante cene, ma resi sopportabili agli occhi stanchi dalla vaporosità interposta; e medesimamente il vario e vasto concento in cui si confondevano tante migliaja di voci e di grida saliva fin , ma fatto più fioco dalle distanze.

I cavalli intanto, annojatissimi anch'essi dell'aver dovuto andare a passo per tanto tempo, o tutt'al più ad un mezzo trottino, si slanciarono a carriera appena il cocchiere ebbe loro liberato i freni; e i due lacchè agitando le torcie a vento si spinsero anch'essi al corso, con una velocità a cui erano obbligati rare volte ma che pur bastava per assicurare e l'asma e l'ernia al loro deplorabile avvenire.

Per un raccoglitore d'impressioni, quel carrozzone sfarzoso che con fragor cupo rotolava sul terreno nudo e brullo e ineguale e gibboso de' bastioni, allora incolti e senza fronda d'albero; e quei due lacchè, che, colla zazzera a riccioni svolazzanti (perchè i lacchè così come i cocchieri portavan quasi sempre una foggia di pettinatura già respinta dalla moda, per un capriccio della moda stessa), correnti a rompicollo e colle torcie a larghe fiamme lascianti indietro odor di resina e faville, parevano, veduti a qualche distanza, quasi due furie anguicrinite dell'inferno pagano, mal dissimulate dalla livrea del secolo XVIII; e il fondo bizzarro su cui staccavano queste figure volanti, fondo luminoso e romoroso da una parte, smorto e silente verso la vasta campagna; e su nel cielo e luna e stelle e pace infinita, e ai lembi estremi dell'orizzonte i primi annuncj della luce crepuscolare, che aggiungeva una tinta nuova ai lumi artificiali che apparivano da tutti i punti della città, come onde chiazzate di un lago; tutta questa scena dunque, diciamo, doveva necessariamente fare effetto in un poetico raccoglitore d'impressioni. Ma la carrozza, ad onta del terreno che si affondava spesso, percorse in breve tutto il bastione di porta Romana, e giunse a quello di porta Tosa, e trasvolò innanzi alla cupola della Passione, e in breve fu alla porta Orientale. Arrivata dove il bastione inclina alla città, uno splendore straordinario che usciva dalle piante di un giardino e una confusa armonia di voci e canti e suoni colpirono l'attenzione della contessa, che domandò al cocchiere:

- Or che è questo?

- È il signor marchese Alberico F... insieme colla solita brigata, rispose il cocchiere.

- Allora fermati qui, gli disse la contessa nell'udire quel nome.

I cavalli si fermarono, trattenuti da una forte imbrigliata. I lacchè sostarono anch'essi, ansando come due mantici di maniscalco quando soffiano nella massima furia del lavoro notturno, ed asciugandosi il sudore che pioveva di sotto alla prolissa cesarie.

- Non si può entrare in città, scansando di passare per di qui? chiese poi la contessa.

E il cocchiere che aveva compreso dove andavano a finir quelle parole:

- Non pensi a nulla, signora contessa, chè io, anche passando in mezzo a costoro, tirerò via di buon trotto, e la carrozza non sarà trattenuta da nessuno.

- Bene, ma aspetta un momento.

E intanto s'udiva la musica d'un minuetto; ed era quella precisamente che Mozart trasportò molti anni dopo nel suo Don Giovanni nella scena della festa; perchè, come abbiamo già fatto osservare, il grande Mozart prendeva spesso in piazza i motivi già fatti popolari, affinchè trionfasse la verità in tutta la schiettezza ne' suoi drammi sublimi.

Ma lasciando Mozart e il minuetto, già diffuso dappertutto prima ch'egli lo rendesse celebre e lo perpetuasse nel Don Giovanni, per qual motivo la contessa s'era come sgomentata al nome del marchese Alberico F...? Cari lettori, non fu per un motivo solo, ma per due; il primo era ovvio, vale a dire che il marchese Alberico era in voce del più sfrenato libertino della città, e sapevasi che i suoi pranzi, le sue cene, le sue feste somigliavano troppo ai lupercali di Roma, e spesso vi danzavano a tondo le alunne di Tersicore involate alle scene dei principali teatri d'Italia. Donna Clelia non voleva dunque che la sua Ada neppur dalla lontana avesse a intravedere quelle baraonde; la seconda cagione poi non avrebbe saputo spiegarla a medesima nemmeno la contessa; ma all'annuncio ed al cospetto di cose e di persone che neppure si può dir di conoscere, coloro che hanno sentimento squisito provano talvolta delle ripugnanze invincibili, alle quali, secondo il nostro debole parere, si deve dar sempre ascolto anche alla cieca. Sono esse, quasi potrebbe dirsi, le arcane ammonizioni che il destino, nei suoi momenti pietosi, come di sfuggita a coloro che, contro suo genio, è incaricato d'insidiare e d'affliggere.

Ma intanto che la contessa, tenendosi stretta la sua Ada, tende l'orecchio a quei suoni, perplessa di far retrocedere o di mandar innanzi la carrozza, noi la precederemo, per soddisfare anche alla curiosità del lettore, se mai ne avesse alcuna, e

Col favor della Musa o del demonio

Che il crin ne acciuffa e ne scaraventa,

Ci cacceremo in mezzo al pandemonio.

 




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