VIII
Spaventati dallo spavento onde possono essere compresi i
nostri lettori, i benevoli, intendiamoci bene, pel dubbio che questa nostra
corsa notturna attraverso alle contrade dì Milano abbia a prolungarsi oltre i
limiti della discrezione, abbiamo supplicato il cocchiere di casa V... a
sollecitare al trotto i cavalli e a costringere al corso anche i due lacchè,
sebbene dondolanti pel troppo vino bevuto. Non occorre dunque che ci arrestiamo
in piazza Fontana dove banchettano l'illustre badia dei Bergamini e dei Caseri,
e la più celebre dei Facchini, tre caste poderose, che costituivano
l'aristocrazia della forza muscolare, e che, guardate anche di fuga, pur
bastavano per distruggere tutte le opinioni di un filosofo persuaso della
graduale decadenza della razza umana. Nè occorre che la carrozza si trattenga
nel classico Verzajo, dove in quella notte imperversarono più dell'usato tutte
le ricchezze del vocabolario milanese; ma, dopo aver fatto una visita in
Chiaravalle, alla tavola dove sedevano i soci dell'accademia dei Fenicj, di cui
il segretario perpetuo era l'abate Andrea Oltolina, erudito, bibliografo, poeta
vernacolo e pedagogo, proceda oltre verso porta Romana, perchè là bisognerà pur
troppo che si trattenga innanzi a qualche banchetto patrizio. E casa Annoni
ecco che si mostra per la prima volta alle due donne che si sentono acclamate
avanti quasi di essere vedute, e a qualche distanza dirimpetto a quella, ecco
la casa dei Mellerio, il fermiere milionario che manda fuoco e fiamme a
soverchiar lo splendore di casa Annoni. Nell'umile prospetto della qual casa
(chè il Cantoni non era ancora stato chiamato a rifabbricarla), contrastante
colla pompa sibaritica che sfolgorava alla porta, appariva come in evidente
compendio la storia perpetua della ruota della fortuna. E innanzi ad essa,
chiamate ad alta voce dal ricco e pomposo padrone, circondato da numerosa folla
di dipendenti, dai tosatori di seconda mano e dalle ausiliarie sanguisughe del
pubblico, dovettero pur fermarsi le due donne, dopo essere state un momento
prima baciate e ribaciate dalla contessa Annoni, vecchia dama, tutta compresa
della propria posizione, e quasi fatta più rispettosa verso se stessa per la
considerazione della grande nobiltà del casato in cui la Provvidenza l'aveva
fatta nascere. Adempiuto a questi convenevoli, la carrozza procedette con
trotto normale fin oltre il ponte, non arrestandosi che innanzi al palazzo
Pertusati, ovvero sia all'albergo delle Muse, come esso veniva chiamato per
antonomasia. Coloro che sedevano a quel banchetto erano tutti pastori e
pastorelle d'Arcadia, della così detta colonia milanese, introdotta fra noi dal
padre Giannantonio Mezzabarba fin dal 1704. A questa colonia il conte Carlo
Pertusati, stato presidente del Senato e gran cancelliere, aveva dato per sede
delle adunanze il proprio palazzo. Ad imitazione degli orti Rucellaj vi aveva
poi fatto disporre un giardino, il più squisito nel Ducato per piante rare ed
esotiche, dove gli Arcadi si raccoglievano in estate a recitarvi i loro
componimenti, e dove don Luca Pertusati, ad alternare la scienza colla poesia,
aveva radunati i più valenti cultori di botanica per mettere in comune i loro
studj. Ma ciò che costituiva la rinomanza di quel palazzo era la copiosa
biblioteca che il conte Carlo, nel tempo ch'era stato reggente del consiglio
d'Italia, aveva arricchito di opere onnigene e delle più riputate edizioni. Chi
avesse detto al conte che quella biblioteca era destinata a diventar la base di
quella che fu in seguito la biblioteca di Brera, per lasciar poi che si
sperdesse nell'obblio il nome del suo primo padre!
Ricevute le più calde congratulazioni dal conte Pertusati,
conservatore di quella colonia, e che, nelle solenni adunanze, dimentico quasi
della sua qualità di questore del Senato e di prefetto della compagnia di San
Giovanni alle Case Rotte, non si gloriava che di essere un pastore; accolti i
complimenti degli altri arcadi, e sopportata con aspetto ridente la tempesta
dei baci di quella dozzina di pastorelle che sedevano al banchetto; la contessa
e la contessina colle guancie fatte frolle dalle impronte di tanta cordialità,
si partirono, ingiungendo la contessa al cocchiere di tirar via dritto pel
corso senza tornare indietro, di pigliar la via de' bastioni di porta Romana, e
per di là passare a porta Orientale; chè sentiva, tanto essa che la figliuola,
un gran bisogno di respirare, salvandosi per un momento dal pubblico
entusiasmo. Come furono sulle mura, i loro occhi riposarono da tanta luce, e
gli orecchi da sì prolungato frastuono. Bene dal bastione, girando lo sguardo
sulla città sottoposta, si vedevano gli sparsi splendori di tante e tante cene,
ma resi sopportabili agli occhi stanchi dalla vaporosità interposta; e
medesimamente il vario e vasto concento in cui si confondevano tante migliaja di
voci e di grida saliva fin là, ma fatto più fioco dalle distanze.
I cavalli intanto, annojatissimi anch'essi dell'aver dovuto
andare a passo per tanto tempo, o tutt'al più ad un mezzo trottino, si
slanciarono a carriera appena il cocchiere ebbe loro liberato i freni; e i due
lacchè agitando le torcie a vento si spinsero anch'essi al corso, con una
velocità a cui erano obbligati rare volte ma che pur bastava per assicurare e
l'asma e l'ernia al loro deplorabile avvenire.
Per un raccoglitore d'impressioni, quel carrozzone sfarzoso
che con fragor cupo rotolava sul terreno nudo e brullo e ineguale e gibboso de'
bastioni, allora incolti e senza fronda d'albero; e quei due lacchè, che, colla
zazzera a riccioni svolazzanti (perchè i lacchè così come i cocchieri portavan
quasi sempre una foggia di pettinatura già
respinta dalla moda, per un capriccio della moda stessa), correnti a rompicollo
e colle torcie a larghe fiamme lascianti indietro odor di resina e faville,
parevano, veduti a qualche distanza, quasi due furie anguicrinite dell'inferno
pagano, mal dissimulate dalla livrea del secolo XVIII; e il fondo bizzarro su
cui staccavano queste figure volanti, fondo luminoso e romoroso da una parte,
smorto e silente verso la vasta campagna; e su nel cielo e luna e stelle e pace
infinita, e ai lembi estremi dell'orizzonte i primi annuncj della luce
crepuscolare, che aggiungeva una tinta nuova ai lumi artificiali che apparivano
da tutti i punti della città, come onde chiazzate di un lago; tutta questa
scena dunque, diciamo, doveva necessariamente fare effetto in un poetico
raccoglitore d'impressioni. Ma la carrozza, ad onta del terreno che si
affondava spesso, percorse in breve tutto il bastione di porta Romana, e giunse
a quello di porta Tosa, e trasvolò innanzi alla cupola della Passione, e in
breve fu alla porta Orientale. Arrivata dove il bastione inclina alla città,
uno splendore straordinario che usciva dalle piante di un giardino e una
confusa armonia di voci e canti e suoni colpirono l'attenzione della contessa, che
domandò al cocchiere:
- Or che è questo?
- È il signor marchese Alberico F... insieme colla solita
brigata, rispose il cocchiere.
- Allora fermati qui, gli disse la contessa nell'udire quel
nome.
I cavalli si fermarono, trattenuti da una forte imbrigliata.
I lacchè sostarono anch'essi, ansando come due mantici di maniscalco quando
soffiano nella massima furia del lavoro notturno, ed asciugandosi il sudore che
pioveva di sotto alla prolissa cesarie.
- Non si può entrare in città, scansando di passare per di
qui? chiese poi la contessa.
E il cocchiere che aveva compreso dove andavano a finir
quelle parole:
- Non pensi a nulla, signora contessa, chè io, anche
passando in mezzo a costoro, tirerò via di buon trotto, e la carrozza non sarà
trattenuta da nessuno.
- Bene, ma aspetta un momento.
E intanto s'udiva la musica d'un minuetto; ed era quella
precisamente che Mozart trasportò molti anni dopo nel suo Don Giovanni nella
scena della festa; perchè, come abbiamo già fatto osservare, il grande Mozart
prendeva spesso in piazza i motivi già fatti popolari, affinchè trionfasse la
verità in tutta la schiettezza ne' suoi drammi sublimi.
Ma lasciando Mozart e il minuetto, già diffuso dappertutto
prima ch'egli lo rendesse celebre e lo perpetuasse nel Don Giovanni, per qual
motivo la contessa s'era come sgomentata al nome del marchese Alberico F...?
Cari lettori, non fu per un motivo solo, ma per due; il primo era ovvio, vale a
dire che il marchese Alberico era in voce del più sfrenato libertino della
città, e sapevasi che i suoi pranzi, le sue cene, le sue feste somigliavano
troppo ai lupercali di Roma, e spesso vi danzavano a tondo le alunne di
Tersicore involate alle scene dei principali teatri d'Italia. Donna Clelia non
voleva dunque che la sua Ada neppur dalla lontana avesse a intravedere quelle
baraonde; la seconda cagione poi non avrebbe saputo spiegarla a sè medesima
nemmeno la contessa; ma all'annuncio ed al cospetto di cose e di persone che
neppure si può dir di conoscere, coloro che hanno sentimento squisito provano
talvolta delle ripugnanze invincibili, alle quali, secondo il nostro debole
parere, si deve dar sempre ascolto anche alla
cieca. Sono esse, quasi potrebbe dirsi, le arcane ammonizioni che il destino,
nei suoi momenti pietosi, dà come di sfuggita a coloro che, contro suo genio, è
incaricato d'insidiare e d'affliggere.
Ma intanto che la contessa, tenendosi stretta la sua Ada,
tende l'orecchio a quei suoni, perplessa di far retrocedere o di mandar innanzi
la carrozza, noi la precederemo, per soddisfare anche alla curiosità del
lettore, se mai ne avesse alcuna, e
Col favor della Musa o del demonio
Che il crin ne acciuffa e là ne scaraventa,
Ci cacceremo in mezzo al pandemonio.
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