IX
Don Alberico F..., il quale è pur quegli che, a perfetta
vicenda col finanziere Baroggi, dee dividere il seggio di protagonista in
questo lungo dramma; fino a questo punto lasciò che tutti gli altri personaggi
facessero liberamente e con tutto agio le loro evoluzioni sul davanti del
proscenio, senza ch'egli, nella sua indolenza, siasi mai mostrato un istante in
prima fila. Soltanto ha permesso che lo nominassimo spesso e senza lode; e una
volta sola, quando non aveva ancora vent'anni, è comparso in iscena per pochi
minuti, a contemplare nello specchio la sua bella faccia con gran compiacenza,
tutto preoccupato ad aggiustarsi un neo, crediamo alla destra pozzetta; e tutto
ciò nel punto solenne che all'illustrissimo suo padre il conte F... stavano per
suonare i tocchi dell'agonia a Santa Maria Podone.
E riepilogando il già detto ed aggiungendo quello che non fu
ancor detto; quando don Alberico marchese e conte F... rimase erede, a
vent'anni, delle grandi ricchezze del padre e delle maggiori dello zio marchese,
liberato dalle stringhe paterne e dalle più tenaci dei maggiordomi che s'eran
proposti di gratificarsi il conte padrone, fin che fu vivo, coll'imitarlo; fu
repentina e compiuta l'eruzione di tutti suoi istinti, e di tutte le sue, non
le chiameremo nè facoltà nè doti, ma semplicemente
tendenze; i quali istinti e le quali tendenze, un po' native un po' acquisite,
parve che si fossero accumulate in lui precisamente com'era avvenuto della
eredità del padre e dello zio. Il padre era stato il più indomabile egoista del
suo tempo; riservato, pacato, avaro, non erasi occupato che ad ammontare
ricchezze; al quale intento, con tutte le arti e con astuzia squisita, ogni
qualvolta si presentò il pericolo, s'era adoperato affinchè il fratello non
riuscisse a sperdere altrove i suoi grandi averi con qualche matrimonio. Questo
egoismo orgoglioso, inteso soltanto alla prosperità del casato, aveva fatto le
spese di tutti gli altri suoi vizj. I preti non avevano mai potuto
rimproverargli un peccato: le Lidie astute e le crescenti Cloe non arrivarono
mai ad involargli uno zecchino. Il più ricco fratello, all'opposto, in bagordi,
in cene, in giuoco, in donne, aveva profuso largamente il suo; e se,
sparnazzando a dritta e a sinistra le copiose entrate, non era mai riuscito ad intaccare
il capitale, era perchè il fratello potè sempre
accorrere a prevenire i disastri, con una prontezza e una importunità da
provocar la collera e gli strapazzi e le ingiurie violenti del marchese,
ingiurie ch'ei sopportava senza turbarsi, non fedele che all'ultimo intento. Di
questi due fratelli ognuno dunque può vedere che la pasta del maggiore era
stata di gran lunga meno trista di quella del cadetto. La prodigalità talvolta
avrebbe condotto il marchese a qualche beneficio; e la sensualità talora lo
avrebbe messo al tu per tu di provare qualche meno impuro sentimento, qualche
affetto; e quantunque fosse assiduamente passato di amori in amori, come
fossero larve d'una lanterna magica, con una incostanza sempre
sazia di tutto e sempre sitibonda, pure era
stato spesso al punto di fermarsi in una affezione durevole, e più specialmente
dopo che era caduta nelle sue insidie l'infelice che fu poi la madre del
Baroggi. Se il conte cadetto non fosse sempre
accorso a recitar le parti di Creonte quando vedeva il vizio disposto a
capitolare, c'è da scommettere cento contro uno che la povera Baroggi sarebbe
riuscita a diventar la moglie del marchese. Ma abbandoniamo i due fratelli
morti; è dell'erede vivo che dobbiamo occuparci. Le qualità del padre e dello
zio confluirono dunque tutte in lui, cospirando a farne un originale
stranissimo; poichè egli era avaro e fastoso, prodigo e taccagno, continuamente
raggirabile dalle proterve beltà, ma pur sempre
presente a sè stesso quando alcuna minacciava di voler durar troppo in carica;
splendido mecenate di cantanti e di ballerine ed anche di artisti, e sovventore
spontaneo delle loro povere famiglie; e pur nel tempo stesso egoista e
spietato, chè il beneficio era apparente, e non si risolveva all'ultima che in
una paga anticipata alle insidie future. Avaro e prodigo, come dicemmo, ad onta
della contraddizione per soddisfare ad un capriccio fuggitivo avrebbe gettato
un tesoro colla spensieratezza di un fanciullo; ma era poi capace di condurre i
creditori di camera in sala per mesi e mesi onde usufruttare la loro bisognosa
impazienza, e angariarli in mille modi coll'avidità insaziabile di un usurajo.
Dopo tutto ciò, egli aveva qualche non vulgare qualità;
qualità, state bene attenti, non virtù; conosciamo benissimo, il valore delle
parole, e le misuriamo, non volendo che i farisei fiscalizzino, per trovarci
lodatori di quella che vituperiamo; e codesta qualità era un'abitudine di
eleganza che aveva recata nella sua vita orientalmente voluttuosa. In Milano
possedeva due palazzi, quello del padre e quello dello zio. La casa paterna era
stata da lui abbandonata. Invece aveva arricchito il palazzo dello zio di
statue e quadri e vi dimorava nell'inverno. Per la stagione estiva s'era poi
fatto fabbricare appositamente un palazzino sibaritico tra platani e tigli, in
una parte di quell'area che fu poi tutta occupata appresso dai pubblici
giardini. I fratelli Galliari e il Bibiena vi dipinsero prospettive; del
Tiepolo juniore di Venezia vi erano raccolti quadretti di genere, rappresentanti
scene di una giocondità tutt'altro che irreprensibile. Aveva fatto acquisto
d'una Galatea del Maratta, della toilette di Venere del Lazzarini, di una
bellissima Leda col cigno dello Zuccari, e di altre tele molte d'antichi e
contemporanei. Aveva commesso al giovinetto Biondi, scolare del vecchio Porta,
una copia del ritratto della Fornarina di Raffaello, un'altra della Gioconda di
Leonardo. Amava dunque l'arte e se ne circondava, quantunque la pagasse scarso
e lento. E come amava l'arte, così prediligeva la beltà femminile, nella stima
della quale poteva sostenere la discussione con un intero corpo d'artisti
accademici; e la giudicava anche di sotto alle dubbie apparenze col colpo
d'occhio d'un trafficante di schiave, commissionario d'harem; o come un mercante
di puledre, estimatore infallibile d'incollature e terga e fianchi e popliti e
garetti. Frequentatore assiduo del palco scenico, quantunque fosse
intendentissimo di musica e della grande arte delle capriole, pure non era già
nè il trillo più agile, nè la scala più granita, nè la nota tenuta più limpida,
nè il salto più imperterrito che lo esaltavano; bensì era capace di attaccarsi
con sembianza d'amore (aprendo però sempre
la borsa, per la gran pratica che aveva nel mondo) anche alla stonatrice più
perversa, purchè avesse il collo di Diana; di scegliere anche l'ultima
danzatrice in linea d'arte, purchè fosse la prima nella linea del corpo.
In codesta sfera di erudizione nessuno lo vinceva; qui era
tutta la forza del suo genio.
Circondato da' suoi colleghi di stravizzo, il signore del
luogo, tra le alunne di Citerea e le bottiglie di Sciampagna e le carte
micidiali, vi passava in trista giocondità, non i giorni ma le notti quando
trovavasi a Milano. Diciamo le notti perchè di giorno tutto taceva colà, e nelle
ore in cui tutta la città era operosa, quel luogo poteva meritar l'appellativo
di Casa del sonno, quantunque il popolo per antonomasia continuasse a chiamarla
argutamente La casa del diavolo.
Abbiamo detto che vi passava le notti quand'egli trovavasi a
Milano, perchè spesso trovavasi in fazione, aggiunto al presidio militare di
qualche città del Ducato, nella sua qualità di capitano del reggimento Clerici.
Chè egli aveva a danaro comperato quel grado nella milizia, essendo vaghissimo
di sfoggiar le insegne militari come quelle che più che mai lo rendevano
accetto alle donne. E non sempre eran le
venali alunne di Tersicore e di Pafo quelle di cui si compiaceva; ma faceva la
corte anche alle dame, e spesso accompagnava al teatro la pudica d'altrui sposa
a lui cara, che capricciosamente cangiava quasi ad ogni cangiar di luna: e
l'assisa e le spallette e gli speroni facevano l'effetto del guizzasole negli
occhi ingenui anche di qualche fanciulla inesperta, e qualche fratello,
rovinato da lui al giuoco e da lui soccorso con diabolica intenzione, diventava
spesso il funesto intermediario d'amore.
Ad onta di tutte queste scellerate qualità, il più delle
volte protette dall'oscurità e dal silenzio, perchè il danaro faceva miracoli,
ed era interesse della vergogna di non lasciarsi vedere in pubblico; esso non
era, pur troppo, come si sarebbe meritato, in odio alla moltitudine. I
suonatori d'orchestra, per esempio, parlavano
benissimo di lui, perchè quando taceva il teatro, era per lui se scansavano il
pericolo di andar ad impegnar il contrabbasso o il violino; i portinai del
teatro lo portavano a cielo, perchè non c'era nessuno che lo superasse
nell'abbondanza e nella frequenza delle mancie. Gli impresarj, i mediatori
teatrali che da lui avevano tante incombenze d'ingaggio ed erano ben pagati,
tra le altre cose ebbero persino a lamentarsi perchè non fosse nominato
direttore perpetuo del regio ducale teatro. Ed anche fuori di Milano, anche
nelle altre città del Ducato non si parlava male dì lui, perchè se alla testa dei
suoi soldati non vi recava la scuola dei buoni costumi, vi metteva bensì in
movimento molto denaro; chè s'era proposto d'imitare il celebre general
Clerici, il quale, quando si moveva, trasportava seco un'intera compagnia
teatrale d'opera e ballo pur nelle stesse fazioni di guerra, avendo fatto
erigere più volte a proprie spese dei teatrini posticci per rallegrare i
bivacchi notturni. Fido infatti a questa imitazione, il marchese Alberico aveva
lasciato buonissimo nome di sè anche fuori d'Italia, quando nel 1759, giovane
di ventott'anni, aveva militato ad Hohenkirchen sotto al generale Lascy, il
Vauban della Germania.
Dopo tutto ciò, questo Sardanapalo cogli spallini e in
calzettina di seta; questo Baldassare non minacciato da nessun motto arcano e
non intercedente spiegazioni da verun profeta di sventure, in quella notte dei
banchetti generali, per mantenersi nel suo primato di sibarita scialoso, aveva
aperto intorno a sè una specie di corte bandita. Alla mensa apparecchiata per
lunghissimo tratto innanzi al suo casino, mezzo nascosto dalle alte piante, i
convivi sedettero in gran numero. Se vi fu profusione d'imbandigioni, vi fu
buon gusto straordinario nella disposizione, diremo, ornamentale del banchetto;
vi fu originalità nel modo onde venne servito; chè in luogo di camerieri
incipriati e livreati e passamantati, dodici donzelle, præstanti corpore, alla
più matura delle quali la Parca, appena appena - Il decimo ed ottavo anno
filava - dodici donzelle foggiate in vario costume e discinte anzichè no facevano
il servizio della tavola, e ad un cenno degli invitati, da espertissime Ebi a
cinquanta soldi al giorno, versavano spumante lieo nei calici lucenti.
Allorquando poi i convitati furono saturi, e la mensa presentò come la scena di
un campo di battaglia, e rovine di pasticci, e ruderi di bomboniere, e una
selva inestricabile di bottiglie e di vasi e di calici, allora cominciarono le
danze, e più decine di cavalieri colle loro ballerine intrecciarono quadriglie
ed eseguirono il lento minuè, tanto propizio alle digestioni.
Innanzi a questo banchetto, con pochi amici e col bicchiere
alla mano, continuò a star seduto il marchese, intanto che fervevano le danze,
e negli intervalli la bella e capricciosa Agujari cantava nell'aperto salone
del palazzino mettendo il delirio in tutti gli ascoltanti; la bella Agujari che
costava tesori a chi la voleva corteggiare, e che da poco tempo s'era degnata
di accordare la sua benevolenza allo splendido marchese, perchè un giorno, dopo
il pranzo, le aveva concesso di fracassare un ricchissimo servizio di
porcellana del Giappone; e un altro giorno che don Alberico era smontato da un
bellissimo cavallo arabo, ottenne da lui, se non voleva ch'ella il piantasse
sui due piedi, di poter tirare un colpo di pistola nell'orecchio di quel nobile
animale.
Mentre adunque l'orchestra suonava e i ballerini ballavano,
oppure quella viziata virtuosa sfoggiava sghiribizzando le note più acute della
voce più estesa che, al dire degli esperti, allora vi fosse al mondo; egli
s'indugiava a tavola, e precisamente per aspettare l'arrivo della carrozza
della contessa Clelia e della sua figliuola. - Don Alberico quasi poteva dire
di non conoscere la prima e non aveva mai veduta la seconda; onde per le
avventure strane dell'una e dell'altra, e per la gran fama della loro bellezza
aveva una grande curiosità di vederle e di complimentarle; e tanto più che
s'era banchettato per loro e bevuto alla loro salute.
Aspettava dunque da qualche tempo, e si maravigliava che,
essendo già tardi, non si vedessero ancora a comparire; quando, all'improvviso,
fortissimi evviva e battimani che venivano da coloro i quali avevano estese le
danze fin quasi alla porta della città, lo avvisarono che ciò doveva essere pel
loro passaggio.
Infatti, allorquando la contessa diede ordine al cocchiere
di procedere per porta Orientale col trotto il più serrato, il cocchiere spinse
i cavalli, sicuro della felice riuscita; ma appena dal bastione ebbe svoltato
verso il borghetto, che le loro signorie, la contessa e la contessina, furono
salutate con urla di gioja matta da quelli che ballavano sub luna; e le
danzatrici ebriose, alcune fermarono i lacchè con violenza, lor togliendo le
torcie, e agitandole come tirsi con faunina protervia; altre si fecero
imperterrite al muso de' cavalli, quasi offrendo quella scena che si presenta
al viaggiatore nauseato, quando nella città di Napoli si avventura a passar per
via Capuana. Pure, ad onta di tutto questo, la carrozza potè andare innanzi,
sebbene con lentezza, e quando fu per passar presso la mensa abbandonata, il
marchese Alberico, circondato da' suoi, quasi diremmo, camarlinghi, si presentò
allo sportello.
Or guardate caso stranissimo! - Ada, nel vederlo, tirò la
mano intrecciata a quella di sua madre, e mandò un'esclamazione di maraviglia
paurosa che a tutti sfuggì, com'è naturale, ma non a sua madre, la quale si
volse a quel sommesso grido, interrogandola cogli occhi indagatori più che
colle parole.
Che dunque significa ciò? Significava.... ma non mettiamoci in
apprensione, significava un fatto naturalissimo. La giovinetta Ada, quando vide
il conte Alberico, credette, a tutta prima, di vedersi innanzi il Galantino in
divisa militare, e ciò per la ragione che, infatti, tra il Galantino e il
marchese Alberico era una gran somiglianza, di quel genere però che forse
poteva passare inavvertita agli indifferenti, ma non a chi aveva imparato a
palpitare per la prima volta sotto il fascino di quelle tali forme, di quelle
tali linee caratteristiche e distinte.
Or che cos'è, dirà il lettore, codesta storia della
somiglianza? È anche questa una conseguenza d'un altro fatto naturale, poichè
bisogna ricordarsi che l'Andrea Suardi era nato in casa F... da un Giovanni
Suardi stalliere, salito poi al grado di cocchiere. E ora è da aggiungere che
il cocchiere Giovanni, quando da una bellissima moglie del contado di Cremona
gli nacque il fanciullo che fu il primo e l'ultimo, non potè più salvarsi dalle
celie de' suoi compagni di scuderia e di rimessa e di tutta la servitù di casa F...;
e le celie crebbero col crescere del fanciullo, il quale, se il marchese avesse
avuto moglie, tutti avrebbero detto che era suo figlio. Al conte Alberico che,
siccome avviene sovente tra consanguinei, per le misteriose bizzarrie della
natura, rendeva più le sembianze dello zio che
del padre, toccò dunque in sorte di somigliare al figliuolo d'un cocchiere;
somiglianza che andò dileguando col tempo, e che, a dir così, non guizzava che
di sfuggita dai muscoli dei loro volti e da certi movimenti caratteristici dei
loro corpi; perchè il lacchè, anche per quelle ragioni fisiologiche sviluppate
dal bastardo Filippo Faulconbridge nel Re Giovanni di Shakespeare, aveva
sortito due gambe poderose dove l'altro aveva avuto de' fuseragnoli; due
braccia atletiche dove l'altro avea dovuto ricorrere alla correttrice ovatta;
un viso della più bella tinta incarnata e porporina dove l'altro non aveva
potuto rinunciare ai beneficj del minio. - Ecco dunque come nacque lo scambio
che mise sottosopra il sangue della povera Ada, e la rituffò ne' suoi tristi
pensieri, onde sollecitò la mamma di partire di là, gettando però alla sfuggita
un'occhiata al protervo marchese; come chi non può staccarsi dalla
contemplazione di un ritratto che ricorda un originale il quale, a proprio dispetto,
non si può dimenticare.
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