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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMO
    • III
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III

La predica fatta in San Lorenzo aveva dunque raggiunto l'intento voluto dal predicatore, il quale era di mandare in teatro, ad assistere al ballo del papa, quel maggior numerò di persone che fosse stato possibile. La verità dimostrata a parole non penetra intera che negli intelletti robusti e liberi da pregiudizj; ma la verità rappresentata dall'azione palpitante del dramma e affidata a personaggi vivi, ottiene più facilmente il libero ingresso nell'intelligenza di tutti. D'altra parte, l'idea trapassa al popolo, quando è sazia di soffiare inutilmente nelle alte regioni. A tre ore dopo mezzodì, come dicemmo, la piazza della Scala era talmente stipata di pubblico, da presentare tutti i pericoli di un fiume straripato e irruente, che non trova il suo sfogo, e che, fino a tanto che non gli è dischiusa una via, non manca di lasciare qualche traccia e qualche vittima dell'impeto suo.

Tuttavia, dopo molto tempestare e urtare, dopo che la folla, rappresentata atleticamente dagli uomini che erano riusciti a collocarsi colla schiena alla porta tanto della platea che del loggione, dandovi di tanto in tanto degli urtoni e delle scosse formidabili, ebbe esaurite tutte le intimazioni minacciose di aprire, le porte finalmente si dischiusero, ma non precisamente dove la folla s'era di più accalcata, ma bensì agli aditi laterali di quell'angusto e basso e prolungato androne, che l'architetto Piermarini sembra avere ideato e disegnato in un momento di collera contro il pubblico milanese e coll'intento di vendicarsene tutte le volte che si recasse alla Scala per divertirsi.

Codeste irruzioni di pubblico nel teatro, le quali presentano i pericoli di una battaglia, dopo la decadenza dell'arte, non si verificarono più affatto; e i giovani ventenni che, a spettacolo incominciato, oggi possono, anche in una prima sera, avere accesso in platea, crederanno esagerata la nostra relazione. Ma noi avemmo più volte compresse le costole agli spigoli dell'andito, dove svolta a mostrarci la faccia burbera del portinajo, quando adolescenti ci recammo ad assistere agli ultimi splendori dell'arte vera. Non del resto, in quella sera di quinquagesima, trattavasi d'arte. La musica e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero avevano tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più d'occasione che di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla, bisognava che si facesse ausiliaria della politica e dei fasti militari. La scienza e l'arte della parola avevano preceduto, anzi avevano generato i fatti, ma le altre arti sorelle dovettero aspettare, per trasformarsi, la piena maturità di essi. Ma di ciò parleremo in momenti di minor premura, e quando la folla non ci assorderà col suo vasto mormorìo, da farla parere un mar tempestoso.

Appena infatti la folla, dopo l'ultima lotta e le ultime violenze incontrate nel prender d'assalto le sedie della platea, potè espandersi in lungo e in largo e respirare; e quelli che avevano sofferto di più, poterono tastare le membra indolenzite per valutare il grado di importanza delle contusioni ricevute, e dare una occhiata di riassunto ai vestiti, per verificare se le falde strappate erano ancora capaci di un ristauro, se gli orologi non si erano dileguati strada facendo, se le ciarpe e i veli erano stati irremissibilmente involati dalla bufera; cominciarono i discorsi, le discussioni, i diverbi, gli alterchi, segnatamente fra i crocchi e i gruppi di quella parte di pubblico, che, ad onta di essersi trovata sulla piazza col boccone in bocca e sotto il sole ancora brillante delle ore tre, non era stata molto esperta nel regolare le mosse durante la crisi dell'ingresso, e aveva dovuto accontentarsi di stare in piedi, esposta alla perpetua ondata di cui era vittima e cagione nel tempo stesso.

Come il lettore sa benissimo, il teatro prima dell'ora della rappresentazione non era illuminato che da due povere fiamme ad olio, le quali spargevano un pallido albore per tutta la vastità del vaso; albore ajutato in gran parte dai cerini, che i seduti in platea avevano accesi, per potere intanto passar la noja dell'aspettare col leggere il programma del nuovo ballo di monsieur Lefèvre. Veduta quella scena dall'altezza del loggione, intorno intorno al quale era stipata la moltitudine due volte repubblicana, pareva come di vedere un'acqua stagnante e cupa, in cui si riflettessero le stelle senza l'aerino del cielo; o meglio un pavimento a traforo, da cui trapelassero qui e qua delle fiammelle. Ma anche il loggione, nella sua dignità repubblicana e nella sua avversione d'istinto al terzo stato che sedeva in platea, ad onta dell'albero della libertà e della cambiale non girabile dell'eguaglianza, volle fare a gara con lui e accese i suoi cerini sugli orli del parapetto.

Senonchè l'illuminazione suppletoria fatta dalla platea e dal loggione si consumò colla lettura del programma, e vi fu un momento in cui tutto ritornò nel bujo crepuscolare di prima, il quale durò più di un'ora. Il signor Giocondo Bruni che, per essere amico dell'impresario e del coreografo Lefèvre, e del primo violino per i balli, signor Giuseppe Peruccone, detto Pasqualino, aveva libero accesso in teatro, vi si recò a tutto suo agio, verso quell'ora appunto in cui dovevano tardar pochissimo ad entrare i suonatori in orchestra e a popolarsi i palchetti, e a scattar fuori le fiamme della ribalta. Mosse innanzi tutto al palcoscenico a salutare i suoi amici e a dare una stretta di mano a monsieur Lefévre, già vestito in abito pontificale; poi spinse, attraverso al pertugio del telone, un'occhiata su quel cupo maremagno della platea muggente; poi, quando vide che i professori d'orchestra erano tutti ai loro stalli, e che l'esimio signor Luigi De Baillou, primo violino per l'opera, ultimo era entrato a metter piede sull'alto suo seggio, e stava dando la pece greca all'archetto, in dignitosa posa e con burbero ciglio, ombreggiato dal cappellone con coccarda e con fibbia d'acciaio lucente, in cui faceva il guizzasole la luce della ribalta; discese anch'egli in orchestra, e si mise a sedere fra due contrabbassi suoi amici, sotto alla cui protezione aveva l'abitudine di godersi lo spettacolo degli spettatori, più che quello del palco scenico.

Stando così fra que' due amici, porgendo l'orecchio attento al vasto frastuono che faceva il pubblico, sentiva da molti punti spiccarsi netto il suono di varie parole, che servivano quasi ad indicar l'argomento dei molteplici discorsi che si facevano. Bonaparte Alvinzi Caldiero Arcole Tedeschi Pio VI Mantova Tolentino Arciprete Besozzo Repubblica Romana Francesco Arciduca Carlo Aristocratici Morte Inferno Papa Capitale del mondo le quali parole, prese così al volo da un uomo di garbo, e cucite insieme con della frangia, potevano bastare a fare il riassunto dello stato delle cose in Italia in quel momento.

Difatti Bonaparte, nell'anno antecedente, dal maggio in poi, come sanno anche i fanciulli, aveva del tutto ricacciati i Tedeschi dall'Italia colle battaglie di Caldiero, d'Arcole e di Rivoli. Dopo s'era dato a far la guerra al pontefice, aveva vinto il generale Colli alla battaglia del Sevio, aveva provocato la pace di Tolentino, nel febbrajo del 97, togliendo le Legazioni agli Stati della Chiesa. Ma l'Austria, dopo tutto ciò, e precisamente in quei giorni di marzo, mandava nuove genti in Italia sotto la condotta dell'Arciduca Carlo. Però da una parte speranze illimitate; dall'altra timori non irragionevoli; e gli odj quasi, più che contro l'Austria, erano contro il pontefice, nemico di repubblica, nemico del nome francese, nemico di civiltà e di progresso.

Ma intanto che la gran caldaja del teatro bolliva e gorgogliava repubblicanamente, a dare una piega più morbida a quei pensieri, a quei discorsi, a quei progetti, le belle milanesi si affacciarono a brevissimi intervalli l'una dall'altra, ai palchetti, sfoggiando quasi tutte il berretto frigio, specialmente quelle che si ritrovavano in prima fila, tra le quali ve n'erano alcune che s'erano messe alla testa dei rivolgimenti, in gran parte per convinzione, come vogliamo credere, ma anche per moda, ma anche per ingraziarsi la parte più giovane dell'esercito vittorioso, e per far pompa della loro giovanile beltà. Comparve prima in un palchetto in prima fila una donna straordinariamente bella e straordinariamente seminuda, della quale non solo taciamo il nome, ma non metteremmo nemmeno l'iniziale, se la consonante R non ci facesse forza; diremo poi che essa capitò tra noi dalle beate sponde del Verbano a recarci la spettacolo della più splendida vegetazione femminile; che di essa noi conosciamo i figli de' figli de' figli; che noi stessi ne abbiam visto il ritratto dipinto dall'Appiani, di grandezza al naturale, in costume di una Diana che entra nel bagno, senza sospetti d'Atteoni che la stiano mirando; che... ma è meglio finirla coi soverchi indizj.

Tante cose fece e disse quella donna, tanti peccati, sebbene gentili, ella commise, tante teste fece girare; tanti affanni diede ai figli ed alle figlie di alcuna di que' personaggi che già abbiam conosciuti, che, in quanto al nome, è meglio lasciarlo nel mistero.

E medesimamente nella prima fila, quando si mostrò al palchetto, fece voltare a tutte le teste un'altra giovane donna, di tanta bellezza che, per il momento, fece dimenticar la rivale; ma più che la bellezza, la cagione di tanta attenzione era il suo abbigliamento, che, continuando essa a stare in piedi, appariva in faccia al pubblico in tutta la licenziosa esattezza del costume d'allora. Portava il berretto rosso; le spalle e le braccia, di greca perfezione, aveva nudissime; una veste di lana bianca, fermata al sommo delle spalle con chiovi romani, discendeva in quattro ampie liste senza cintura; quelle liste, al moversi di lei, si scomponevano e si aprivano, lasciando travedere come di furto e col passaggio repentino del baleno le linee e l'incarnato della sottoposta nudità, la quale, per chi non sapeva nulla, potea parere, più che altro, un sospetto da verificarsi; ma per chi aveva intimità colle mode e col figurino, non era illusione, ma realtà, quantunque le maglie incarnatine coprissero la pelle; ma ciò non certo a custodia di pudore, sibbene ad obliqua lusinga di desiderio, e a tentazione del sangue. Anche di costei dobbiamo tacere con gran riguardo, avendo solo il permesso di dire che l'iniziale della parentela di suo marito era la prima lettera dell'alfabeto.

E una terza comparve pure a fermar l'attenzione generale. Meno bella delle altre, anzi, per certi guizzi fuggitivi delle linee del volto, tale da parere irregolare, di quella irregolarità che lascia sospetto di deformità morale; era però maestosa e plastica delle forme del corpo. Ella si assise girando intorno sugli spettatori il suo occhio d'aquila. Veniva colei dai bassi fondi della società, ma dotata di scaltrissimo ingegno: seguì e s'accompagnò alle sorti di un avvocato, furbo, acuto, avaro, ladro; fu una delle dee infernali dell'eccidio del Prina. Ma basti anche di questa donna, e tiriamo innanzi.

I cinque ordini dei palchi, in un quarto d'ora di tempo, apparvero dunque tutti splendidi di beltà più o meno giovani, sormontate tutte quante dal rosso berretto, ad espressione non problematica di colore politico, e sovente a tutela della sicurezza personale. E in ragione che salivano gli ordini dei palchetti, scemava il valore nominale delle donne repubblicane; le modeste, le prudenti, le timorose temevano più che mai la berlina della prima fila; medesimamente le foggie si facevano tanto meno obbedienti al figurino, e il pudore, tanto più ci guadagnava quanto più si ascendeva; ma il pubblico, quantunque non in tutto approvasse quella trionfante protervia e delle tre dee e delle altre che facevan cerchio in prima fila, pur le festeggiava, come succede sempre dell'arte falsa messa in concorso coll'arte vera.

Alle ore sette, il direttore De Baillou diede dell'archetto in sulla latta, e tra il costante mormorio della platea l'opera incominciò, e i cantanti si sfiatarono senza che il pubblico si desse nemmeno per inteso, perché era venuto in teatro per tutt'altro, e i consolidati dei soprani e dei tenori avevano in quel biennio sofferto un ribasso formidabile. Soltanto attrasse l'attenzione la fine del primo atto dell'opera, ma non già per il merito del dramma e della musica dell'Ademira, ma sibbene perchè e dramma e musica e maestro pensarono bene, a stornare le fischiate, di trasformarsi in una strofa d'occasione. L'atto normale si chiudeva cogli affanni e le lagrime della prima donna, e colle parole:

Quest'acuta gelosia

Nella tomba mi trarrà

ma, tutti i cantanti, compresa la prima donna in lagrime, e i coristi, proruppero invece di punto in bianco nei seguenti versi:

A suon di violini,

Di corni e clarinetti,

Con giubili perfetti

Andiamo a festeggiar;

E per render la gioja palese

D'un bel canto patrioto francese

L'aria intorno facciam risuonar.

E il canto patriota finiva con questa stanza:

D'âge en âge, de race en race.

Que le plus brillant souvenir

Porte jusqu'au sombre avenir

Les prodiges de notre audace!

Que nos neveux, leurs enfans,

Par nous à jamais triomphans,

Nous doivent leur indépendance!

Que le monde brise ses fers!

Et que ce jour cher à la France

Soit la fête de l'univers.

Siccome e strofe e musica erano conosciutissime, perchè state composte e cantate fin dall'autunno dell'anno prima, ed appiccicate, senza badare al senso, con violenza demagogica all'ultima scena dell'Astuta in amore, di Fioravanti; così gli applausi da tutte le parti del teatro scoppiarono contemporaneamente alle prime battute del canto patriotico, e lo accompagnarono, con quel crescendo naturale che poi diventò arte con Generali e con Rossini, fino alle ultime note. Le grida di Viva la Francia, Viva 1'Italia succedettero a quel canto con tempestosa irruenza, e insieme i Viva la libertà e l'eguaglianza; alle quali voci fuse in una sola onda sonora, come quella del mugghiante oceano, si sovrappose, partendo dalle alte vette, non dell'Olimpo, ma del loggione, una voce stentorea di trachea taurina, che gridò Viva la Dionisa. La tremenda satira popolana, con breviloquenza inimitabile, in quel detto avea saputo condensare la critica delle esorbitanze generali onde i perpetui guastamestieri, che s'introducono nel santuario del progresso, aveano cercato di contaminare il nuovo ordine di cose. La Dionisa era il nome di una donna paffica del Bottonuto. Applicando questo nome alla figura che rappresentava la libertà sullo stemma dei venditori di tabacco e sale, il popolo, col prepotente intuito del giusto, stigmatizzava quella libertà fescennina, tanto deplorata dal Parini e tanto contraria alla libertà vera.

Ma poco a poco si rimise la tranquillità nel pubblico, segnatamente quando il primo violino, signor Peruccone, comparve al suo seggio, e dalla boccascena l'avvisatore battè palma a palma, per significare che l'orchestra poteva cominciare il preludio del nuovo ballo.

In questo intermezzo il signor Giocondo Bruni puntò il suo cannocchiale monocolo verso un giovane dragone dall'elmo lucente; indi lo drizzò a un palchetto in terza fila, poi a quella fra le tre dee della prima che, siccome dicemmo, fu dipinta dall'Appiani, in costume di Diana. Il dragone guardava al terz'ordine. Di una giovinetta guardava lui; il Bruni si accorse che la dea del frigio berretto fremeva nel sorprendere lo scontro di quei due sguardi furtivi.

Il dramma domestico ha i suoi ritorni storici come la vita delle nazioni. Nell'esordio del nostro racconto abbiamo visto il tenore Amorevoli a guardare la contessa Clelia V... ora il tempo dei tenori è passato, la musica ha dato luogo all'arte bellica: chi è senz'elmo e senza speroni disperi di piacere al bel sesso. Ma dopo tutto ciò, i cuori e le passioni sono sempre le medesime, e quello sguardo del dragone, il quale è nientemeno che un figlio del povero Baroggi, incontratosi con una figliuola nientemeno che della contessina Ada... intersecato dagli sguardi iracondi della Diana della prima fila, produrrà, mutatis mutandis, un affastellamento di casi tali, che la pronipote ne gemerà come la nonna. In quella sera v'era anche la contessa Ada in teatro; e v'era anche il banchiere Andrea Suardi, più che sessantenne; e v'era il marchese F.... sessantenne esso pure; e tutti si guardavano per mille cagioni, ricordando il passato e congetturando il futuro; e in alto ancora, come in quella tal notte di cui dee rammentarsi il lettore,

Scintillava il beffardo occhio del fato.

 




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