III
La predica fatta in San Lorenzo aveva dunque raggiunto
l'intento voluto dal predicatore, il quale era di mandare in teatro, ad
assistere al ballo del papa, quel maggior numerò di persone che fosse stato
possibile. La verità dimostrata a parole non penetra intera che negli
intelletti robusti e liberi da pregiudizj; ma la verità rappresentata
dall'azione palpitante del dramma e affidata a personaggi vivi, ottiene più facilmente
il libero ingresso nell'intelligenza di tutti. D'altra parte, l'idea trapassa
al popolo, quando è sazia di soffiare inutilmente nelle alte regioni. A tre ore
dopo mezzodì, come dicemmo, la piazza della Scala era talmente stipata di
pubblico, da presentare tutti i pericoli di un fiume straripato e irruente, che
non trova il suo sfogo, e che, fino a tanto che non gli è dischiusa una via,
non manca di lasciare qualche traccia e qualche vittima dell'impeto suo.
Tuttavia, dopo molto tempestare e urtare, dopo che la folla,
rappresentata atleticamente dagli uomini che erano riusciti a collocarsi colla
schiena alla porta tanto della platea che del loggione, dandovi di tanto in
tanto degli urtoni e delle scosse formidabili, ebbe esaurite tutte le
intimazioni minacciose di aprire, le porte finalmente si dischiusero, ma non là
precisamente dove la folla s'era di più accalcata, ma bensì agli aditi laterali
di quell'angusto e basso e prolungato androne, che l'architetto Piermarini sembra
avere ideato e disegnato in un momento di collera contro il pubblico milanese e
coll'intento di vendicarsene tutte le volte che si recasse alla Scala per
divertirsi.
Codeste irruzioni di pubblico nel teatro, le quali
presentano i pericoli di una battaglia, dopo la decadenza dell'arte, non si
verificarono più affatto; e i giovani ventenni che, a spettacolo incominciato,
oggi possono, anche in una prima sera, avere accesso in platea, crederanno
esagerata la nostra relazione. Ma noi avemmo più volte compresse le costole
agli spigoli dell'andito, là dove svolta a mostrarci la faccia burbera del
portinajo, quando adolescenti ci recammo ad assistere agli ultimi splendori
dell'arte vera. Non del resto, in quella sera di quinquagesima, trattavasi
d'arte. La musica e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero
avevano tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle
grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più d'occasione che
di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla, bisognava che si facesse
ausiliaria della politica e dei fasti militari. La scienza e l'arte della
parola avevano preceduto, anzi avevano generato i fatti, ma le altre arti
sorelle dovettero aspettare, per trasformarsi, la piena maturità di essi. Ma di
ciò parleremo in momenti di minor premura, e quando la folla non ci assorderà
col suo vasto mormorìo, da farla parere un mar tempestoso.
Appena infatti la folla, dopo l'ultima lotta e le ultime
violenze incontrate nel prender d'assalto le sedie della platea, potè
espandersi in lungo e in largo e respirare; e quelli che avevano sofferto di
più, poterono tastare le membra indolenzite per valutare il grado di importanza
delle contusioni ricevute, e dare una occhiata di riassunto ai vestiti, per
verificare se le falde strappate erano ancora capaci di un ristauro, se gli
orologi non si erano dileguati strada facendo, se le ciarpe e i veli erano
stati irremissibilmente involati dalla bufera; cominciarono i discorsi, le
discussioni, i diverbi, gli alterchi, segnatamente fra i crocchi e i gruppi di
quella parte di pubblico, che, ad onta di essersi trovata sulla piazza col
boccone in bocca e sotto il sole ancora brillante delle ore tre, non era stata
molto esperta nel regolare le mosse durante la crisi dell'ingresso, e aveva
dovuto accontentarsi di stare in piedi, esposta alla perpetua ondata di cui era
vittima e cagione nel tempo stesso.
Come il lettore sa benissimo, il teatro prima dell'ora della
rappresentazione non era illuminato che da due povere fiamme ad olio, le quali
spargevano un pallido albore per tutta la vastità del vaso; albore ajutato in
gran parte dai cerini, che i seduti in platea avevano accesi, per potere
intanto passar la noja dell'aspettare col leggere il programma del nuovo ballo
di monsieur Lefèvre. Veduta quella scena dall'altezza del loggione, intorno
intorno al quale era stipata la moltitudine due volte repubblicana, pareva come
di vedere un'acqua stagnante e cupa, in cui si riflettessero le stelle senza
l'aerino del cielo; o meglio un pavimento a traforo, da cui trapelassero qui e
qua delle fiammelle. Ma anche il loggione, nella sua dignità repubblicana e
nella sua avversione d'istinto al terzo stato che sedeva in platea, ad onta
dell'albero della libertà e della cambiale non girabile dell'eguaglianza, volle
fare a gara con lui e accese i suoi cerini sugli orli del parapetto.
Senonchè l'illuminazione suppletoria fatta dalla platea e
dal loggione si consumò colla lettura del programma, e vi fu un momento in cui
tutto ritornò nel bujo crepuscolare di prima, il quale durò più di un'ora. Il
signor Giocondo Bruni che, per essere amico dell'impresario e del coreografo
Lefèvre, e del primo violino per i balli, signor Giuseppe
Peruccone, detto Pasqualino, aveva libero accesso in teatro, vi si recò a tutto
suo agio, verso quell'ora appunto in cui dovevano tardar pochissimo ad entrare
i suonatori in orchestra e a popolarsi i palchetti, e a scattar fuori le fiamme
della ribalta. Mosse innanzi tutto al palcoscenico a salutare i suoi amici e a
dare una stretta di mano a monsieur Lefévre, già vestito in abito pontificale;
poi spinse, attraverso al pertugio del telone, un'occhiata su quel cupo
maremagno della platea muggente; poi, quando vide che i professori d'orchestra
erano tutti ai loro stalli, e che l'esimio signor Luigi De Baillou, primo
violino per l'opera, ultimo era entrato a metter piede sull'alto suo seggio, e
stava dando la pece greca all'archetto, in dignitosa posa e con burbero ciglio,
ombreggiato dal cappellone con coccarda e con fibbia d'acciaio lucente, in cui
faceva il guizzasole la luce della ribalta; discese anch'egli in orchestra, e
si mise a sedere fra due contrabbassi suoi amici, sotto alla cui protezione
aveva l'abitudine di godersi lo spettacolo degli spettatori, più che quello del
palco scenico.
Stando così fra que' due amici, porgendo l'orecchio attento
al vasto frastuono che faceva il pubblico, sentiva da molti punti spiccarsi
netto il suono di varie parole, che servivano quasi ad indicar l'argomento dei
molteplici discorsi che si facevano. Bonaparte Alvinzi Caldiero Arcole Tedeschi
Pio VI Mantova Tolentino Arciprete Besozzo Repubblica Romana Francesco Arciduca
Carlo Aristocratici Morte Inferno Papa Capitale del mondo le quali parole,
prese così al volo da un uomo di garbo, e cucite insieme con della frangia,
potevano bastare a fare il riassunto dello stato delle cose in Italia in quel
momento.
Difatti Bonaparte, nell'anno antecedente, dal maggio in poi,
come sanno anche i fanciulli, aveva del tutto ricacciati i Tedeschi dall'Italia
colle battaglie di Caldiero, d'Arcole e di Rivoli. Dopo s'era dato a far la
guerra al pontefice, aveva vinto il generale Colli alla battaglia del Sevio,
aveva provocato la pace di Tolentino, nel febbrajo del 97, togliendo le
Legazioni agli Stati della Chiesa. Ma l'Austria, dopo tutto ciò, e precisamente
in quei giorni di marzo, mandava nuove genti in Italia sotto la condotta
dell'Arciduca Carlo. Però da una parte speranze illimitate; dall'altra timori
non irragionevoli; e gli odj quasi, più che contro l'Austria, erano contro il
pontefice, nemico di repubblica, nemico del nome francese, nemico di civiltà e
di progresso.
Ma intanto che la gran caldaja del teatro bolliva e
gorgogliava repubblicanamente, a dare una piega più morbida a quei pensieri, a
quei discorsi, a quei progetti, le belle milanesi si affacciarono a brevissimi
intervalli l'una dall'altra, ai palchetti, sfoggiando quasi tutte il berretto
frigio, specialmente quelle che si ritrovavano in prima fila, tra le quali ve
n'erano alcune che s'erano messe alla testa dei rivolgimenti, in gran parte per
convinzione, come vogliamo credere, ma anche per moda, ma anche per ingraziarsi
la parte più giovane dell'esercito vittorioso, e per far pompa della loro
giovanile beltà. Comparve prima in un palchetto in prima fila una donna straordinariamente
bella e straordinariamente seminuda, della
quale non solo taciamo il nome, ma non metteremmo nemmeno l'iniziale, se la
consonante R non ci facesse forza; diremo poi che essa capitò tra noi dalle
beate sponde del Verbano a recarci la spettacolo della più splendida
vegetazione femminile; che di essa noi conosciamo i figli de' figli de' figli;
che noi stessi ne abbiam visto il ritratto dipinto dall'Appiani, di grandezza
al naturale, in costume di una Diana che entra nel bagno, senza sospetti d'Atteoni
che la stiano mirando; che... ma è meglio finirla coi soverchi indizj.
Tante cose fece e disse quella donna, tanti peccati, sebbene
gentili, ella commise, tante teste fece girare; tanti affanni diede ai figli ed
alle figlie di alcuna di que' personaggi che già abbiam conosciuti, che, in
quanto al nome, è meglio lasciarlo nel mistero.
E medesimamente nella prima fila, quando si mostrò al
palchetto, fece voltare a sè tutte le teste un'altra giovane donna, di tanta bellezza
che, per il momento, fece dimenticar la rivale; ma più che la bellezza, la
cagione di tanta attenzione era il suo abbigliamento, che, continuando essa a
stare in piedi, appariva in faccia al pubblico in tutta la licenziosa esattezza
del costume d'allora. Portava il berretto rosso; le spalle e le braccia, di
greca perfezione, aveva nudissime; una veste di lana bianca, fermata al sommo
delle spalle con chiovi romani, discendeva in quattro ampie liste senza
cintura; quelle liste, al moversi di lei, si scomponevano e si aprivano,
lasciando travedere come di furto e col passaggio repentino del baleno le linee
e l'incarnato della sottoposta nudità, la quale, per chi non sapeva nulla,
potea parere, più che altro, un sospetto da verificarsi; ma per chi aveva
intimità colle mode e col figurino, non era illusione, ma realtà, quantunque le
maglie incarnatine coprissero la pelle; ma ciò non certo a custodia di pudore,
sibbene ad obliqua lusinga di desiderio, e a tentazione del sangue. Anche di
costei dobbiamo tacere con gran riguardo, avendo solo il permesso di dire che
l'iniziale della parentela di suo marito era la prima lettera dell'alfabeto.
E una terza comparve pure a fermar l'attenzione generale.
Meno bella delle altre, anzi, per certi guizzi fuggitivi delle linee del volto,
tale da parere irregolare, di quella irregolarità che lascia sospetto di
deformità morale; era però maestosa e plastica delle forme del corpo. Ella si
assise girando intorno sugli spettatori il suo occhio d'aquila. Veniva colei
dai bassi fondi della società, ma dotata di scaltrissimo ingegno: seguì e
s'accompagnò alle sorti di un avvocato, furbo, acuto, avaro, ladro; fu una
delle dee infernali dell'eccidio del Prina. Ma basti anche di questa donna, e
tiriamo innanzi.
I cinque ordini dei palchi, in un quarto d'ora di tempo,
apparvero dunque tutti splendidi di beltà più o meno giovani, sormontate tutte
quante dal rosso berretto, ad espressione non problematica di colore politico,
e sovente a tutela della sicurezza personale. E in ragione che salivano gli
ordini dei palchetti, scemava il valore nominale delle donne repubblicane; le
modeste, le prudenti, le timorose temevano più che mai la berlina della prima
fila; medesimamente le foggie si facevano tanto meno obbedienti al figurino, e
il pudore, tanto più ci guadagnava quanto più si ascendeva; ma il pubblico,
quantunque non in tutto approvasse quella trionfante protervia e delle tre dee
e delle altre che facevan cerchio in prima fila, pur le festeggiava, come
succede sempre dell'arte falsa messa in
concorso coll'arte vera.
Alle ore sette, il direttore De Baillou diede dell'archetto
in sulla latta, e tra il costante mormorio della platea l'opera incominciò, e i
cantanti si sfiatarono senza che il pubblico si desse nemmeno per inteso,
perché era venuto in teatro per tutt'altro, e i consolidati dei soprani e dei
tenori avevano in quel biennio sofferto un ribasso formidabile. Soltanto
attrasse l'attenzione la fine del primo atto dell'opera, ma non già per il
merito del dramma e della musica dell'Ademira, ma sibbene perchè e dramma e
musica e maestro pensarono bene, a stornare le fischiate, di trasformarsi in
una strofa d'occasione. L'atto normale si chiudeva cogli affanni e le lagrime
della prima donna, e colle parole:
Quest'acuta gelosia
Nella tomba mi trarrà
ma, tutti i cantanti, compresa la prima donna in lagrime, e
i coristi, proruppero invece di punto in bianco nei seguenti versi:
A suon di violini,
Di corni e clarinetti,
Con giubili perfetti
Andiamo a festeggiar;
E per render la gioja palese
D'un bel canto patrioto francese
L'aria intorno facciam risuonar.
E il canto patriota finiva con questa stanza:
D'âge en âge, de
race en race.
Que le plus
brillant souvenir
Porte jusqu'au
sombre avenir
Les prodiges de
notre audace!
Que nos neveux,
leurs enfans,
Par nous à jamais
triomphans,
Nous doivent leur
indépendance!
Que le monde
brise ses fers!
Et que ce jour
cher à la France
Soit la fête de
l'univers.
Siccome e strofe e musica erano conosciutissime, perchè
state composte e cantate fin dall'autunno dell'anno prima, ed appiccicate,
senza badare al senso, con violenza demagogica all'ultima scena dell'Astuta in
amore, di Fioravanti; così gli applausi da tutte le parti del teatro
scoppiarono contemporaneamente alle prime battute del canto patriotico, e lo accompagnarono,
con quel crescendo naturale che poi diventò arte con Generali e con Rossini,
fino alle ultime note. Le grida di Viva la Francia, Viva 1'Italia succedettero
a quel canto con tempestosa irruenza, e insieme i Viva la libertà e
l'eguaglianza; alle quali voci fuse in una sola onda sonora, come quella del
mugghiante oceano, si sovrappose, partendo dalle alte vette, non dell'Olimpo,
ma del loggione, una voce stentorea di trachea taurina, che gridò Viva la
Dionisa. La tremenda satira popolana, con breviloquenza inimitabile, in quel
detto avea saputo condensare la critica delle esorbitanze generali onde i
perpetui guastamestieri, che s'introducono nel santuario del progresso, aveano
cercato di contaminare il nuovo ordine di cose. La Dionisa era il nome di una
donna paffica del Bottonuto. Applicando questo nome alla figura che
rappresentava la libertà sullo stemma dei venditori di tabacco e sale, il
popolo, col prepotente intuito del giusto, stigmatizzava quella libertà
fescennina, tanto deplorata dal Parini e tanto contraria alla libertà vera.
Ma poco a poco si rimise la tranquillità nel pubblico,
segnatamente quando il primo violino, signor Peruccone, comparve al suo seggio,
e dalla boccascena l'avvisatore battè palma a palma, per significare che
l'orchestra poteva cominciare il preludio del nuovo ballo.
In questo intermezzo il signor Giocondo Bruni puntò il suo
cannocchiale monocolo verso un giovane dragone dall'elmo lucente; indi lo
drizzò a un palchetto in terza fila, poi a quella fra le tre dee della prima
che, siccome dicemmo, fu dipinta dall'Appiani, in costume di Diana. Il dragone
guardava al terz'ordine. Di là una giovinetta guardava lui; il Bruni si accorse
che la dea del frigio berretto fremeva nel sorprendere lo scontro di quei due
sguardi furtivi.
Il dramma domestico ha i suoi ritorni storici come la vita
delle nazioni. Nell'esordio del nostro racconto abbiamo visto il tenore
Amorevoli a guardare la contessa Clelia V... ora il tempo dei tenori è passato,
la musica ha dato luogo all'arte bellica: chi è senz'elmo e senza speroni
disperi di piacere al bel sesso. Ma dopo tutto ciò, i cuori e le passioni sono sempre
le medesime, e quello sguardo del dragone, il quale è nientemeno che un figlio
del povero Baroggi, incontratosi con una figliuola nientemeno che della
contessina Ada... intersecato dagli sguardi iracondi della Diana della prima
fila, produrrà, mutatis mutandis, un affastellamento di casi tali, che la
pronipote ne gemerà come la nonna. In quella sera v'era anche la contessa Ada
in teatro; e v'era anche il banchiere Andrea Suardi, più che sessantenne; e
v'era il marchese F.... sessantenne esso pure; e tutti si guardavano per mille
cagioni, ricordando il passato e congetturando il futuro; e in alto ancora,
come in quella tal notte di cui dee rammentarsi il lettore,
Scintillava il beffardo occhio del fato.
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