II
Fin dai tempi più remoti dei Bramini, il tirannico proposito
di spaventare le moltitudini coi terrori della divinità, avvolgendole in una
catena inestricabile di riti arcani, che avessero la forza della legge,
corroborata dalla minaccia di orribili pene, passò di generazione in
generazione, quasi per fedecommesso, agli ordini sacerdotali di tutte le
religioni. Il cristianesimo solo, nella sua prima istituzione e nei primi anni
della sua vita, recò e mantenne nel mondo una luce serena, a consolazione
dell'umanità. Ma fu per poco. I sacerdoti snaturarono l'istituzione; la lettera
mite del Vangelo fu torta a diverso significato. La scienza della teologia
turbò di commenti tortuosi la semplicità del
testo. Allorchè il successore di S. Pietro si dimenticò della povertà
primitiva, e della prima rete e della prima navicella, e vestì la pompa mondana
dei re e dei sacerdoti di Babilonia e di Ninive, il limpido zampillo della
parola di Cristo scomparve nell'onda impura dell'interesse umano. Il potere
temporale del papa fu la più grande sventura del cristianesimo. Quei pontefici,
che gli diedero la massima espansione, intentarono alla religione una guerra
funesta. Gregorio VII, che venne canonizzato santo, non fu che un genio
d'ambizione e d'astuzia; egli offese non solo la religione vera, ma offese
l'umanità, condannando i sacerdoti all'assurdo obbligo di un celibato
impossibile, che gli avvezzò ai raggiri dell'ipocrisia, all'odio dei fratelli
più privilegiati. Pur troppo, dal giorno che il monaco Ildebrando cinse la
corona, la storia della corte romana è uno spettacolo che contrista la ragione.
Senza rammentare le pagine più cupe di codesta storia; senza
ripensare ai più tortuosi avvolgimenti della politica dei pontefici; senza
rinnovarci il fremito dei patiboli e dei roghi da essi accesi; senza ponderare
i due memorandum delle Marche e delle Legazioni, dove sono consegnate tutte le
accuse e le prove irrefragabili dei delitti ufficiali dell'ultimo periodo del
potere pontificio; per rimanere percossi di stupore, basta scorrere soltanto un
libro, che pur si limita a prudenziali intenti: questo libro è l'Indice dei
libri proibiti.
Non ricorriamo ad altri documenti, non sommoviamo la storia,
lasciamo gli apostoli e i santi padri in pace. Questo libro, nella sua semplicità
numerica, nella sua laconica grettezza, è il riassunto di tutti i capi
d'accusa, di tutto il corpo delle citazioni erudite, di tutte le argomentazioni
della sapienza, di tutte le strettoje della logica inesorabile. Il potere
pontificale è giudicato in ultima istanza dal suo Indice dei libri proibiti.
L'uomo colto si faccia passare innanzi alla memoria tutte le opere del pensiero
che più hanno beneficato l'umanità, quelle che hanno determinato un nuovo
atteggiamento della civiltà, che apersero nuovi mondi alla scienza, che
vivificarono coll'incanto del linguaggio poetico i pericolosi ozj della vita;
eppoi consideri, che quasi tutte codeste opere furono messe all'indice
pontificio dei libri proibiti: le più splendide emanazioni delle menti
privilegiate, tutte son segnate a condanna in quell'Indice, che si riduce ad
essere il rifiuto documentato dei doni più insigni del genio che, in terra, è
l'ombra più sublime della divinità.
I Paria erano maledetti dai sacerdoti del Dio Brama: gli
uomini più benemeriti della società lo sono dal potere pontificale. Per negare
questo fatto spaventoso, bisogna mettere sul rogo il libro dell'Indice. La più
sofistica dialettica del più astuto figlio di Lojola non può che ammutolire al
cospetto di questa verità.
Quando Gioberti consolandosi, per un violento artificio del
suo forte intelletto e delle sue generose aspirazioni, col primo jeratico
posseduto in proprio dall'Italia, cosperse di lodi convenzionali il pontefice e
la sua corte, coll'intento di placarlo e di renderlo propizio all'Italia e al
mondo, mise per condizione, che fosse tutta quanta ristaurata l'educazione
dell'ordine sacerdotale, ma senza pensare che era impossibile la florida
vegetazione degli sparsi rami, senza provveder prima al tronco dell'arbore
vetusto. Ben se ne accorse dieci anni dopo, e con ritrattazione coraggiosa
scompose tutto quanto il suo edifizio, e propugnò la necessità inevitabile
della distruzione del poter temporale del papa, e venne a conchiudere, che
l'ordine sacerdotale non avrà mai educazione propizia al sincero progresso
dell'umanità, se non si procederà innanzi tutto alla riforma radicale della
corte romana.
Da quella fonte corrotta derivano tutte le torbide gare che
infestano il libero progresso.
Nei seminarj, la scienza
che si amministra ai giovani adepti è una scienza intralciata e caotica, quando
non è mendace e sovversiva. Se gl'intelletti che vi si abbeverano, hanno, per
una particolare benedizione del cielo, il privilegio della serenità e della
forza, col dono del sentimento e dell'istinto del bene, i sacerdoti ne escono
intatti, non conservando che la veste sacerdotale, ma senza appartenere in
realtà all'ordine clericale; soltanto allora che vi si raccolgono menti volgari
e fiacche, oppure ingegni forniti di quella prontezza meccanica delle facoltà
con cui s'imparano e si esercitano molte discipline, ma senza il benefizio del
buon senso e del sentimento, soltanto allora dai seminarj
escono i sacerdoti nel mondo, secondo l'intenzione di Roma, ciechi al
progresso, testardi di falsa scienza, propugnatori crudeli di oscurantismo,
nemici degli uomini, contristatori assidui delle povere anime ingenue, alleati
naturali di tutti i tristi.
Di quest'ultima classe, erano alcuni sacerdoti, che, nel
lunedì della settimana grassa del 1797, si trovarono, verso il mezzodì, in
quella tal casa in Santa Maria Fulcorina; casa che noi non dobbiamo designare
esplicitamente, per un riguardo ad uomini morti di recente, consanguinei di
persone tuttora vive, e, ci confidiamo, ben pensanti e ben volenti.
In un ampio salotto, a pian terreno verso corte, stavano,
alcuni seduti, alcuni in piedi, da dieci a dodici tra preti e frati, uniti in
quel punto in domestichezza, quantunque vi fosse tra loro la discrepanza
portata dai diversi gradi della gerarchia ecclesiastica a cui appartenevano.
Quei dieci o dodici preti e frati erano tutti in abito secolare completamente
nero, col cappello tondo, protetto dall'inevitabile coccarda, incaricata di
stornare dalle loro schiene le probabili bastonature della folla capricciosa.
Quello di loro che stava seduto nel mezzo, era nientemeno che il vescovo di...
di una città non molto distante da Milano, e non era di quelli che la natura,
ne' suoi momenti di probità, compone apposta, perchè il mondo esperimentato non
rimanga ingannato dalle apparenze; testa grossa, fronte ampia e fatta a cofano,
naso corto e quadro, bocca larga, con labbra sottili e in tutto rendente la
somiglianza di una sferla fatta con un coltello in una zucca; gli occhi si
vedevano, e basta. L'uomo, come vescovo, era giovane, vale a dire non varcava i
quarantatre anni; era di corporatura breve, ma densa e pettoruta, con un lieve
sintomo di quella rachitide, che distingue i nani tarchiati e petulanti dai
gobbi mingherlini e gentili. Colui era stato uno dei migliori allievi usciti
dal Seminario di Milano. Avendo predicato nella chiesa di S. Gottardo a Corte,
ebbe la protezione dell'arciduca Ferdinando, e quindi dell'arcivescovo, del
vecchio Kaunitz, e di Leopoldo II; e in breve, di curato fatto prevosto e
arciprete, balzò alle insegne vescovili. Alle scuole ginnasiali era stato
l'antipatia de' suoi condiscepoli giovinetti, che l'avevano odiato perchè aveva
avuto l'abitudine di far la spia presso al maestro; ed anche perchè, fornito di
gran memoria ed essendo un gran sgobbone, era salito al grado d'imperatore,
come voleva il costume a que' tempi.
Venuto alla scuola di belle lettere in Brera, il Parini,
lettore sagacissimo di fisionomie, e acre e bisbetico, lo ebbe talmente in
sulle corna, che lo espose spesso alle risate della scolaresca. Dalla giovine
società che lo aveva circondato, non ebbe mai dunque che segni d'antipatia e di
disprezzo in tutto il tempo de' suoi primi studj. Però il seminario
riuscì per lui un luogo di sicurezza e di tranquillità, dove fu ben felice di
sentir l'odore de' sornioni suoi pari, che l'odorarono a gara, e gli si
accostarono e si strinsero in lega seco. In simile maniera s'accovacciano
insieme nelle cantine, e accanto ai focolari delle vecchie pinzochere, i gatti
soriani, in odio al mondo e all'allegra brigata dei cani barboni.
Vicino a quel vescovo v'era un monsignore del Duomo, stato
professore in seminario di lingua ebraica, poi
di casistica; dottissimo interprete di scritture antiche, e forte in
numismatica, specialmente nella romana. Costui era dotato di quell'ingegno
specialissimo, a cui riescono agevoli tutte quelle discipline che non hanno
viscere, e che al più degli studiosi presentano insuperabili difficoltà. Era un
uomo non cattivo; viveva e lasciava vivere; era modesto, pacato, non pretendeva
nulla, non offendeva nessuno. Ma sebbene paresse fatto di ghiaccio, e nella
maggior parte delle quistioni fosse inclinato alla mitezza la più indulgente
cogli avversarj, toccato nelle cose di religione, mandava di repente fuoco e
fiamme, e, contrariato, muggiva come un tigre ferito. In conclusione, pare che
fosse un po' tocco nel cervello, e che le facoltà dello spirito che più aveva
ricevute perfette dalla natura, e più aveva esercitate, avessero provocato uno
strano squilibrio nelle altre. Barnaba Oriani, che aveva studiato seco, lo
qualificava per quel furioso cretino pieno di sapere. Gli altri astanti erano
stati frati di varj ordini regolari, di quelli che Giuseppe
II, il quale aveva fatto male anche il bene, dall'oggi al domani aveva gettati
senza ricovero e senza pane sulle pubbliche vie, provocando per essi nelle
moltitudini una pietà, che quei frati aboliti non avevano meritato per sè
stessi, ma che meritavano come uomini aventi il diritto di vivere, e di non
sentire la necessità di confederarsi alla colpa per vendicarsi dei concittadini
secolari, e di quel monarca esaltato e presuntuoso, che fece parere atti di
tirannia crudele e insopportabile, anche le più benefiche riforme volute dalla
filosofia. Quei frati, dopo aver passato un pajo d'anni in una vita che non fu
certo una meraviglia nè d'agiatezza nè di buone azioni, avevano finalmente
trovata la protezione di quel monsignor vescovo e dell'altro monsignore del
Duomo, e furono messi curati e vicarj in alcuni villaggi della diocesi
milanese, coll'incarico di guastar le teste della povera gente. Di coloro uno
era anche buon predicatore, per quella parte, già s'intende, che non sta nel
raziocinio, ma nell'aria del polmone.
A sospendere i discorsi di costoro, entrò nel salotto con
burbero cipiglio il marchese F..., accompagnato da un conte T..., dal
milionario Mellerio, da un tal Vincenti, provveditore della repubblica di
Venezia, e dal banchiere Suardi.
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