XIV
Le ultime parole della contessa Ada S... relative alle
vicende della sua vita passata, ci consigliano a cogliere questo momento per raccontare
quanto avvenne nel tempo decorso dalla notte del 1766 in cui si tenne l'ultimo
banchetto pubblico alle porte delle case di Milano al giorno 12 marzo del 1797.
La narrazione di un tale intermezzo, se a tutta prima può sembrare
un inciampo per que' lettori che hanno volontà d'andar sempre
avanti, è qui necessaria, perchè, senza di essa, mancherebbe lume ai fatti che
descriveremo in appresso e ai personaggi che compariranno in iscena per la
prima volta. E questa narrazione la faremo riproducendo una specie di
promemoria che il signor Giocondo Bruni stese per noi, quando gli abbiamo
manifestato il pensiero di pubblicare un libro relativo a ciò che a mano a mano
ei c'era venuto raccontando.
E credemmo bene di riprodurlo tale e quale fu steso da
quell'ometto di garbo, ma non in tutto fornito di quella che chiamasi perizia
letteraria; non arrogandoci altro diritto che di far scomparire gli errori più
solenni di sintassi e quelli d'ortografia, e di aggiustare alla meglio il
contesto della narrazione, là dove ci parve che alla memoria o al periodo fosse
scappata qualche maglia.
Adoperando di questa maniera, se dubitiamo di non poter
piacere a quelli che amano la più completa armonia nei costrutti
architettonici; siamo però certi di riuscire accetti a quanti, nel timore di
venire ingannati dai libri stampati e dalle storie, vanno negli archivi a
cercar la riprova del vero nei documenti originali.
Ecco dunque la narrazione del signor Bruni, trascritta qui
letteralmente:
"La festa di S. Pietro dell'anno 1766, che fu il giorno
successivo alla festa cittadina dei banchetti notturni, io fui insieme con mia
madre a far visita alla contessa Clelia e a donna Paola. Là per la prima volta
vidi la contessina Ada, che io guardai con avidità più di giovane che di
fanciullo, innanzi tutto perchè, fino a quel giorno, io non avevo mai visto
niente di più bello; in secondo luogo, perchè me la rendevano attraente in
sommo grado le strane avventure e il pericolo che aveva corso. In quel giorno
stesso e in quel luogo stesso conobbi anche il marchese F...., che io scambiai
pel Suardi. A proposito di che mi ricordo d'aver domandato sottovoce a mia
madre che cosa mai era successo al signor Suardi per essere diventato così
pallido e così magro, ma secondo il costume delle mamme, ella per tutta
risposta mi guardò severissima, e mi mise a tacere; tanto che non seppi se non
tornato a casa chi era davvero quel giovane tutto tempestato di berilli e colle
dita piene d'anelli.
"Per lo scrittore o per il pittore che di costui
volesse di fantasia fare un ritratto in punto e virgola, credo bene di darne
qui la descrizione:
"Era un giovane di statura piuttosto alta; aveva la
faccia regolare, naso aquilino, bocca ben disegnata, ma lievemente piegata
verso gli orecchi come quella di un fauno; aveva occhi neri e piccoli e lucenti
come quelli di un topo di chiesa; quando sogghignava d'improvviso gli si
spiegavano, ai lati della bocca, due rughe che non si vedevano allorchè stava
serio. Quando, a casa, seppi chi era colui, pensai tra me, da qual cosa dipendesse
che, essendovi pure tanta somiglianza tra il Suardi, avanzo di galera, e lui
cavaliere nobilissimo, pure si guardava il primo con una certa soddisfazione
dell'occhio, dove il secondo riusciva diabolicamente antipatico. Metto qui
codesta considerazione, perchè, fatta allora da un fanciullo senza esperienza e
senza l'abito di riflettere, viene ad acquistare un certo significato.
"Per quell'anno io non vidi più nè quella casa, nè
quelle persone, nè la giovinetta Ada, la quale, quantunque io non contassi che
dodici anni, avrei visitata assai volontieri. Dopo, per tre anni successivi.
vissi con mia madre e mio padre, un po' a Parigi, un po' a Berlino, un po' a
Napoli, e non ritornai a Milano che nel 1770. Io avevo allora sedici anni.
"A questa età chi è stato a Parigi e ha viaggiato
mezz'Europa e non è nato scimunito e ha sfregate le quinte di tanti palchi
scenici, non è più un ragazzo, ma un giovane fatto. Noto questo perchè, quando
seppi che mia madre era andata sola a far visita in casa della contessa, io mi
lamentai dell'essere stato dimenticato, e, senza chiedergli nè un permesso, nè
un parere, pensai di recarmi là io solo.
"Prima d'andare, m'informai di ciò ch'era avvenuto di
tutte le persone che componevano quella casa. Rimasi assai maravigliato quanto
seppi che la contessina Ada la chiamavano già la sposina; chè, dopo molti
dispetti e lagrime della fanciulla, finalmente erano riusciti a farle dire che
era contenta di concedere la mano al marchese F... Tutti però mi assicuravano
ch'ella avrebbe voluto andar piuttosto alla morte, che a quelle nozze. A tale
notizia io rimasi ancora più stupito, perchè non mi pareva vero che donna Paola
Pietra, e la contessa Clelia, che avrebbe dato il sangue per la sua figliuola,
fossero e l'una e l'altra congiurate ai danni della medesima. A tutta prima
dunque pensai che non era quello il momento opportuno per andare in quella
casa; chè certissimamente sarei stato accolto malissimo come una persona di più
in quel parapiglia domestico. Tuttavia, dopo alcuni dì, sfacciatello com'era,
mi risolsi, e un bel mezzogiorno entro in casa Pietra.
"Annunciato e introdotto dal servo, mi trovo innanzi a
donna Paola; fresco di Parigi e colla fumana degli adolescenti che vogliono far
l'uomo, dissi in sull'istante mille cose a quella donna veneranda, e senza più
avventuro una congratulazione sul matrimonio della contessina. Donna Paola non
rispose al primo, poi soggiunse: È vero ma non si fermò su quel tasto, e passò
ad altro, e mi chiese dei viaggi fatti da me col papà e la mamma, e del come
erami venuto educando, e che cosa avrei voluto fare in avvenire, ecc., ecc. Io
risposi di conformità, e partii, ma col fermo proposito di ritornare ancora,
perchè era pur sempre quella cara Ada ch'io
volevo vedere.
"Qui, sebbene mi sia proposto di essere brevissimo,
perchè toccherà poi allo scrittore a distendere in lungo e in largo e a far
diventare arte questo cencio di carta, pure non posso far a meno di dir qualche
cosa di me stesso. Sono le consolazioni della vecchiaja che si volta indietro a
dare un'occhiata al passato. Devo dunque dire che, senza ch'io stesso lo
sapessi, io era un po' innamorato di quella ragazza. Vedutala quand'io non avea
che dodici anni ed ella quindici, m'avea lasciato di sè una tale impressione,
che la sua cara figurina mi rimase sempre
innanzi agli occhi per tutto il tempo che stetti fuori di Milano co' miei
parenti; venuto poi coll'età il primo rigoglio del sangue, quel rigoglio che ti
fa desiderare per fin ciò che non si conosce; non avendo mai avuto occasione di
fermare a lungo la mia attenzione su fanciulla nessuna, perchè oggi si era qua,
domani là, invece di crearmi un ideale, come fanno i giovinetti quando il
sentimento si sviluppa e non si conosce nessuno con cui alimentarlo, io nella
mia memoria mi ero messo a fare conversazione perpetua coll'imagine di colei;
cagione codesta perchè tanto desiderai di rivederla, quando ritornai a Milano.
Fatto così il primo tentativo e non vedutala, tornai altre volte in casa
Pietra, tornai solo e tornai spesso con mia madre, e mi consolai vedendo che
noi eravamo benissimo accetti, e mi consolai tanto più quando mi accorsi che la
contessa Clelia fece delle confidenze non indifferenti a mia madre. Questa però
non mi disse mai nulla, perchè voleva tenermi all'oscuro di tutto. Fortuna che
mio padre Lorenzo non la pensava come lei, e voleva che un giovane sapesse
tutto quello che si può sapere. Egli dunque, filosofando, com'era il suo
costume, mi disse tutto quanto era avvenuto e avveniva in quella famiglia; mi
disse che donna Paola non dovevasi incolpare se non si era opposta a quel
matrimonio. Guglielmo Crall suo figlio amava donna Ada con tanta maggior
passione quanto più la giovinetta, sebbene egli potesse vantare tutte le doti
della gioventù, della bellezza, dell'ingegno, aveva dimostrato di sentire
un'invincibile ripugnanza per lui. Perciò donna Paola desiderava che, giacchè
erasi presentato un partito più che conveniente, lo si affrettasse al più
presto, nella fiducia che, troncando al figliuolo ogni speranza e togliendogli
l'occasione di veder la fanciulla ogni dì, egli alla fine avrebbe fatta la cura
del cuore col rimedio del tempo. In secondo luogo, non potevasi ascrivere nè a
crudeltà, nè a pregiudizio l'aver cercato di costringere la fanciulla ad
accettare la mano del marchese F..., ricchissimo, nobilissimo, ancor giovane,
ancora avvenente; e tanto più che bisognava pure cercar di toglier di mezzo
quel fatale amore del Suardi; amore che, essendo stato il primo, ed avendo
incontrato tanti contrasti, s'era sprofondato tanto, che pareva divenuto
incurabile. Su questo fatto poi, per dare una novella prova del cuor generoso
di donna Paola e della sua mente spregiudicata e indipendente, mio padre mi
raccontò che, parlando con essa di quest'affare intralciato, l'udì una volta ad
uscire in queste precise parole:
" Vi assicuro, che se questa Ada fosse mia figlia, o se
credessi lecito di consigliare altrui in una cosa così delicata e pericolosa,
io lascerei strillare tutto il mondo, ma accontenterei la fanciulla, anche
perchè ho la convinzione che il Suardi, a diventare un perfetto onest'uomo, non
ha bisogno che di questo matrimonio. Finchè il mondo continuerà a contrariarlo,
a sprezzarlo, ad abborrirlo, egli, di necessità, sapendo di essere in guerra
con tutti, deve trattar tutti come nemici; essendo poi naturalmente scaltro e
facoltoso, a lungo andare è lui che si vendicherà degli altri. Se l'opinione
pubblica non fosse così implacabile, quanti iniqui di meno ci sarebbero a
questo mondo! Però io temerò sempre dal Suardi
qualche colpo terribile, o a danno della fanciulla o a danno della contessa
Clelia; però la fanciulla non potrà mai essere felice con questo marchese che,
per dirvelo a quattr'occhi, e purchè non lo ripetiate a nessuno, mi sembra
ben più tristo di quell'altro. Ma il bel mondo applaude a queste nozze, perchè
ci son venti milioni, perchè il casato è cospicuo, perchè è disposto a
perdonare al marchese tutta la sua vita scapestrata, essendo come attratto
simpaticamente verso un certo genere di colpe; e credendo di conciliar
l'indulgenza colla morale, coprendo tante vergogne con un matrimonio degno di
festa pubblica e di pubblica illuminazione.
"Così pensava donna Paola; ma ora bisognerà dir qualche
cosa del Suardi, e di quel che avvenne di lui dal maggio del 1766, quando fu
carcerato pro rapto virginum, come portava la denuncia dell'avvocato Strigelli.
"Il Suardi, a malgrado della sua posizione, delle sue
ricchezze, delle sue conoscenze, stette otto mesi interi nelle prigioni del
Capitano di Giustizia. Fu generale il desiderio così del pubblico come
dell'intera magistratura, che quella vecchia volpe lasciasse finalmente la coda
nella trappola. Ma la vecchia volpe fu superiore perfino alla propria fama; ma
la fortuna e le speciali circostanze giovarono alla volpe più di quello che si
sarebbe creduto. Il Baroggi, sottotenente di Finanza, era innocentemente
complice di quanto il Suardi aveva ordito e consumato; ora l'innocenza
innegabile per l'avvocato lontano dal tribunale e per l'uomo che giudica le
cose fuori delle aule della giustizia costituita, non era una moneta in corso
nelle mani del Capitano di Giustizia. La complicità c'era, e per provar tutto a
danno del Suardi bisognava provar il resto a danno del Baroggi. L'avvocato
Strigelli, volendo risparmiare costui per cento buone ragioni, si trovò dunque
impacciato nella procedura. Accadde poi, tanto quel Suardi era protetto dalla
fortuna, che la madre del Baroggi, la quale, per l'eccesso della sua semplice
natura avrebbe potuto, una volta chiamata in giudizio, far delle rivelazioni
dannose al Suardi, ma più dannose al figliuolo; accadde adunque ch'ella venne a
morire sette mesi dopo la carcerazione del Suardi; e cosí mancando le prove
effettive incontrovertibili, l'accusato diventò quasi innocente il mese dopo, e
venne rimesso in libertà.
"Qui però giova tener conto di una cosa, anzi di un
sistema di cose in forza del quale la giustizia a Milano non rimase che in
istato d'emblema là dove sedeva l'autorità, ma cessò affatto di essere un ente
reale, pratico, efficace. Mi spiego in due parole.
"Gli storici, l'uno dopo l'altro, allorchè pervengono a
quel periodo della dominazione austriaca, quando Kautniz aveva in mano le
redini di tutto l'impero, e il conte di Firmian quelle del ducato di Milano,
non hanno che parole di lodi enfatiche per questi due ministri. Non è qui il
luogo di parlare di Kautniz, ma, per dirla così di passaggio, questo troppo a
torto venerato personaggio era di tal natura, che per denaro si lasciava
tentare a chiudere un occhio sulle piaghe più profonde dello Stato.
"Io ho letto delle sue lettere di ringraziamento
dirette al conte Greppi, il quale ogni anno, d'accordo coi colleghi della
Ferma, gli mandava dei regali del valore di più migliaja di lire, dove erano
consegnate le prove e della colpa e della complicità. Su una di esse ho notato
questa frase, che è degna invero di don Basilio: Voi avete degli argomenti ai
quali non si risponde. Tali lettere furon viste dai giovani di studio del conte
Greppi nell'atto di deporre quei documenti negli archivj di casa. Lo scrittore
faccia di una tale notizia quell'uso che vorrà, ma se non vuol essere un
copista pecorone e adulatore come tutti gli altri, approfitti di quanto gli
dico. Or veniamo al conte di Firmian. Molte volte, a proposito di codesto
Tirolese, così concordemente lodato dagli storiografi, mi vennero in mente quei
versi dell'Ariosto stupendissimi:
Non fu sì santo nè benigno Augusto
Come la tuba di Virgilio suona:
L'avere avuto in poesia buon gusto,
La proscrizione iniqua gli perdona.
"L'aver dunque avuto o mostrato di avere qualche
interesse per la poesia, e non essendo stato scortese con Parini, fu la causa
per cui quel ministro trovò tanta indulgenza negli scrittori. Ma egli era
ignorante, sospettoso, vendicativo, prodigo e ladro mi pare che basti. Per di
più, e questo fu il colmo del disastro, aveva a' proprj stipendj un ex barbiere
di Trento, che innalzò al grado di suo segretario privato, un tristo arnese
della stampa del barbiere di Luigi XI. Esso per molti anni fu il mestatore
principalissimo delle cose di Lombardia, e segnatamente della città di Milano.
"Se lo scrittore, in vista dell'enormità di queste
accuse, fosse tentato a non prestarmi fede, per buona fortuna può leggere un
libretto postumo di Pietro Verri, dove si dice precisamente quello che dico io.
Non già che Pietro Verri sia più galantuomo di me, ma avendo più autorità,
toglierà di mezzo qualunque dubbio. A proposito di codesto signor Diletti, io
ho saputo dalla bocca del signor Giovanni Ambrogio Rosnati, ragioniere in capo
della Banca Suardi, come, avuto il permesso di abboccarsi col proprio
principale, quando questi trovavasi ancora nelle carceri del Capitano di
Giustizia, ei gli fece comprendere, in un momento che i secondini si erano
allontanati, fatti più morbidi dal consueto unguento, di tentare il Diletti con
promessa di danaro; il quale, dopo essersi dimostrato inespugnabile in
principio, diventò arrendevolissimo dopo; tanto che in più riprese ricevette da
lui fino a quattromila zecchini di Venezia. Queste cose io le seppi dal detto
ragioniere quando il Firmian era già morto, legando un debito di un milione di
lire milanesi, e lasciando nella miseria più d'una famiglia perfidamente
ingannata dal segretario Diletti, che per il prodigo e fastoso padrone aveva
fatto il sensale onde ottenergli molte somme in prestito. Della quale notizia
lo scrittore approfitti per cavarne qualche situazione interessante,
collocandola in quella sede del suo racconto che più gli parrà adatta.
"Tornando al fatto, se io ho aspettato molti anni per
sapere dalla bocca del Rosnati la riprova delle pubbliche dicerie; già sin dal
giorno che il Suardi, improvvisamente, per decreto del Senato, venne rimesso in
libertà, tutto il mondo sapeva che ciò era avvenuto per ordine espresso del
conte di Firmian, il quale voleva quel che voleva; e tutto il mondo vociferava
che il cameriere Diletti era stato impinguato dal Suardi.
"Ora, giacchè mi trovo sotto la penna questo nome, dirò
che mio padre, allorchè venne per certi nostri affari a Milano e andò a
visitare donna Paola, seppe da quella veneranda signora come il Suardi, due
mesi dopo essere stato rimesso in libertà e dopo aver trovato il modo di
diventare accetto al popolo con abbondanti largizioni di denaro, di grano e
miglio, nell'occasione che il calmiere del pane diventò insopportabile per la
carestia, credendo di esser diventato nobile, ebbe l'animo di recarsi da donna
Paola per chiederle di bel nuovo la mano della contessina Ada. In quella casa
dove assiduamente frequentava il marchese F..., per necessità il Suardi non
poteva essere accolto. La servitù propalò poi per la città come fosse avvenuto
un alterco scandalosissimo tra que' due, e come il tutto finisse collo sfratto
del Suardi. Dico che fu la servitù a propalare la notizia di quest'alterco,
perchè donna Paola, quantunque si sprigionasse affatto con mio padre, che era
uomo da comprenderla, non gli disse mai nulla di tutto ciò.
"Ora è tempo di raccontare quanto avvenne in quella
famiglia, quasi direi, sotto alla mia testimonianza.
"Come dissi, essendo io fortemente preso di simpatia per
quella fanciulla, dico simpatia perchè non oserei dire se fosse precisamente
amore, mi recava in casa Pietra soventi volte, e più forse che nol comportasse
la convenienza e la mia speciale condizione. Ma mi dava coraggio quella santa
donna di donna Paola, e trovava indulgentissima e cortese anche la contessa
Clelia. Bensì quella carogna odiosissima (sic) del marchese poteva bastare per
farmi star lontano mille miglia, tanto ei mi guardava d'alto in basso al punto
da toccar la manifesta villania; ma questa medesima invincibile antipatia mi
comandava di non abbandonar quella fanciulla, e di tentar di consigliarla a
star forte e a rifiutare la mano di quello stupido spavaldo. Un dì, che per
caso mi trovai da solo a sola con lei, mi feci animo a interrogarla per
tastarle, a così dire, il cuore. La risposta fu quella che mi attendevo; ella
si adattava a sposare il marchese perchè sua madre lo desiderava, ed ella non
aveva cuore di contrariar sua madre. Io le dissi che si trattava della
condizione di tutta la vita, e che nessuno ha diritto d'imporci la nostra
infelicità, nè i padri, nè le madri, e che però stesse salda e si consigliasse
con donna Paola. Ah, mi rispose, se quella donna fosse sola qui, sola, mi
capite, certo che mi ajuterebbe; ma.... e qui troncò le parole con un sospiro.
Entrò in quel momento la contessa Clelia, che addatasi del colloquio, colse il
pretesto di far uscire la figlia, poi mi domandò di che cosa stavamo parlando.
Io risposi franco e netto, e con impeto e con ira le dissi che era un'indegnità
il voler sagrificare a quel modo la sua unica figliuola. La contessa alle mie
parole rimase come percossa dal fulmine, e non replicò; ma tutto fu inutile, e
venne stabilito per le nozze il giorno 7 di luglio del 1770.
"Bisogna sapere che mio padre, il quale era molto
accetto a donna Paola, e anche alla contessa Clelia, non ostante tutto quello
che era avvenuto, fu pregato e dall'una e dall'altra a lasciarsi vedere spesso,
perchè essendo uomo disinvolto e scaltrissimo, e nel tempo stesso di una rettitudine
specchiata, amavano adoperarlo nel disbrigo di molte cose necessarie a farsi in
quella circostanza del matrimonio. È inutile il dire che mio padre avea sempre
tempestato perchè si mandasse al diavolo il marchese; ma come s'accorse che non
c'era verso, e che v'erano circostanze tali, in faccia a cui non era più
possibile scansare il male, si adoperò col più sincero interesse perchè almeno
potesse rendersi più sopportabile. L'avvocato Strigelli, che per celia chiamava
mio padre il suo consultatore, lo richiese da senno del suo parere, quando si
trattò di stendere il contratto nuziale. Il marchese F... vedeva ciò di
malissima voglia, perchè tra mio padre e lui c'era un'avversione cordiale; ma
siccome, non dirò l'affetto, ma la sua passione per la contessina, apparteneva
alla categoria dei furori, onde era impaziente e convulso d'ogni benchè minimo
indugio, così taceva e lasciava andare, e non aveva objezioni da fare, comunque
fossero i patti. Per tutto ciò e per le mille gentilezze di cui colmava la contessina
e pei regali veramente principeschi che aveva messo a' piedi di lei; inoltre,
per una giocondissima amabilità che gli era data fuori e gli andava crescendo
in ragione che si avvicinava il giorno del matrimonio; per tutto questo adunque
era riuscito a metter la pace e l'allegria in tutti; e m'accorgevo che s'era
fatta abbastanza lieta anche la fanciulla, e quasi era diventato sopportabile
anche a me. Torno a ripetere, io sentivo molta simpatia per quella ragazza; ma
era una simpatia molto somigliante a quella che un uomo ragionevole e povero ha
pei cavalli e le carrozze, che cioè ne ha il desiderio, senza per questo dar la
testa nelle muraglie se deve andare a piedi. Perciò, giacchè tutti erano
contenti, io assistevo in pace all'allegria generale. Così dunque camminavan le
cose, e non mancavano che tre dì a quello stabilito. La sera del terz'ultimo io
vado in casa Pietra. Mio padre era con me. Mi ricordo di quella sera come se
fosse adesso. Entro in sala, e, dopo aver data un'occhiata in giro, mi faccio tosto
all'orecchio di mio padre, e gli dico: Che cosa diavolo è successo? Mio padre
non rispose, ma aveva capito anch'esso che c'era qualche novità. Quando
entrammo, c'era il marchese F..., la contessina, donna Paola, donna Clelia,
l'avvocato Strigelli, tutti quelli, in conclusione, che ci dovevano essere. E
tutti parlavano, e tutti erano tranquilli, e non mancavano nemmeno i sorrisi.
Chi insomma non era pratico della casa e dell'indole delle persone, non avrebbe
avuto a fare osservazioni di sorta. Ma noi che avevamo assistito alla
giovialità eccessiva sviluppatasi nel marchese alcuni giorni prima; noi ci
accorgemmo precisamente che il marchese parlava per parlare e sorrideva per
obbligo di galateo, ma era manifestamente impacciato e preoccupato; del che accortisi
gli altri, per consenso necessario erano preoccupati e impacciati del pari.
Quando una conversazione procede per la sola virtù legale dei reciproci
riguardi, si prova un gran desiderio di trovarsi altrove. Pare che l'avvocato
Strigelli fosse di questo parere, perchè di repente si alzò, accusando di
essere chiamato altrove per oggetti della sua professione, e nel tempo stesso
guardò mio padre, come a dirgli: Usciamo insieme. Mio padre non si fece
pregare, e, sebbene donna Paola lo invitasse a rimanere, egli, promettendo di
tornar tosto, si alzò, e fatto segno a me di seguirlo, uscì coll'avvocato.
"Quando si fu nella pubblica via, parlò prima
l'avvocato:
" Vi siete accorto che ci deve essere qualche novità?
" Qualche cosa sì; mi pare ci sian dei nuvoli. Ma che
mai è successo?
" Che cosa possa essere successo non lo so, ma si
direbbe che il marchese abbia veduto il diavolo.
" In conclusione, che ha detto?
" Nulla affatto, ma è appunto perchè non ha detto
nulla, che non si sa cosa pensare.
" Dunque?
" Il dunque lo lascio a voi da spiegare. Però un
sospetto l'ho anch'io.
" E quale?
" Che il Suardi lo abbia minacciato di fargli qualche
mal gioco se sposa la ragazza.
" Il Suardi non è tale da compromettersi con una
minaccia che lo ritornerebbe diritto al Capitano di Giustizia.
" Il Suardi, tra l'amore che lo cuoce sempre
più e il puntiglio che lo agita e la rabbia di essere stato scacciato dai
servitori del marchese, può essere in tale condizione da non saper più quel che
si faccia.
" Non sono del vostro parere...
"E dopo aver ciò detto, mio padre tacque e almanaccò un
pezzo prima di parlare... Io stava attento. Alfine così prese a dire (mi
ricordo delle sue parole come se mi suonassero ancora nell'orecchio. Povero
uomo, non era possibile trovare chi fosse più onesto e nel tempo stesso più
furbo e acuto di lui!):
" Caro avvocato, disse dunque, a questo mondo bisogna
aver buona memoria. È il passato che fa lume al presente, e se siamo nel 1770 è
una minchioneria dimenticarsi del '50. Però sono tanto certo che il mio
sospetto è la verità, che scommetterei centomila talleri di Maria Teresa per
sostenere il mio punto.
" Non vi capisco.
" Se nel '50 invece di aver sette anni aveste avuta la
mia età, certo che capireste. Ora ascoltate. Io ho sempre
creduto che lo zio dell'attuale marchese abbia realmente istituito erede il
figlio della Baroggi. Io ho sempre creduto,
che alla morte di colui il testamento fosse chiuso nello scrigno del suo
studio. Io ho sempre creduto che il Suardi
l'abbia trafugato, e ho sempre creduto e credo
che il testamento sussista ancora.
"A questo punto mio padre mi guardò, come se si fosse
pentito d'aver parlato in mia presenza, e però, scostatosi due o tre passi,
continuò a parlar sottovoce allo Strigelli, il quale, facendo le meraviglie e
fermandosi ad ogni quattro passi, ripeteva come per intercalare:
" Ma sta a vedere che la indovini, volpone!
"Io, com'è giusto, non capii più nulla; onde m'entrò
addosso tanta curiosità, che quando mio padre ebbe lasciato l'avvocato sulla
porta della sua casa, io lo tormentai perchè dicesse qualche cosa anche a me.
Ma mio padre, dopo aver tentato di tirarmi più volte giù di strada, conchiuse
bruscamente col dirmi: La cosa di cui si tratta è un'inezia. Ma tu per ora non
la devi sapere.
"Per quel giorno dunque non si parlò oltre di
quell'affare. Il giorno dopo l'avvocato venne da mio padre, e stettero insieme
un pezzo: ma io non potei penetrar nulla. Mi recai in casa Pietra per vedere se
mai le nubi del giorno prima si fossero condensate in temporale. Ma con mia grande
sorpresa era tornato il sereno. In ogni modo passò quel dì e un altro e il
terzo, e spuntò quel delle nozze. Era ricomparsa l'allegria. Le visite di tutto
il parentado affollavano la casa. La matrina della sposa, che fu donna
Valcalzel De Cordova marchesa dello Balbases e duchessa del Sesto, veniva da
qualche giorno a star colla sposina e accompagnarla. I testimonj erano stati
scelti, e furono don Giacomo Sanazzari e il marchese Paolo Recalcati Cernuschi.
Era un andare e venire continuo di carrozzoni e carrozzini di tutta la nobiltà
di Milano. Nè mancavano i preti, e segnatamente i due parroci, perchè allora
v'erano due parroci, così detti porzionarj, della parrocchia di Santa Maria
alla Porta, che si chiamavano don Giambattista Redaelli e don Felice Temperati.
Alla vigilia delle nozze ho visto anche l'abate Parini, ma era accigliato, e,
dopo poche parole con donna Paola, colla contessa e i saluti di convenienza al
marchese e alla sposina, se ne andò con quel suo zoppicare caratteristico, che
pareva piuttosto un movimento dell'orgoglio che un difetto del corpo. Venne la
sera; le nozze dovevano essere benedette alle due di notte all'altar maggiore
di Santa Maria alla Porta dal parroco Redaelli. Gl'inviti erano stati numerati
per ordine severissimo del marchese F... Mio padre naturalmente fu messo nel
numero degli invitati; ed io, dubitando di essere escluso perchè, per uno di
quei pregiudizj sciocchi che erano tanto in voga nel secolo passato, non si
voleva che gli adolescenti assistessero a simili cerimonie, io dunque supplicai
donna Paola perchè mettesse una buona parola per me. Non era possibile che
quella cara donna mi dicesse di no.
"Ma veniamo a quella sera memoranda di cui mi ricorderò
per tutta la vita. Il matrimonio del marchese F... colla contessa Ada S... era
da molti giorni il discorso di tutta la città, di tutti gli ordini, di tutti i
luoghi. La grande ricchezza del marito e la sua vita passata; la gran bellezza
della sposina e le sue peripezie sofferte, accrescevano quell'interesse volgare
che s'attacca pur sempre a un matrimonio
d'alta sfera. In sull'imbrunire v'era la folla alla porta di casa Pietra per
tentare di poter vedere la sposina; v'era la folla alla porta maggiore della
chiesa; la folla alla porta sussidiaria che risponde sulla contrada dei
Meravigli e a quella del vicolo del Teatro. Come quando si attende la lepre,
che s'appostano i cacciatori dov'è probabile di sorprenderla al varco, il
pubblico adocchiava impaziente ed avido tutti i pertugi per dove credeva che la
sposina potesse passare.
"Quando si fu presso alle due di notte, l'onda del
popolo che da Santa Maria Podone veniva impetuosa verso la parrocchia e il
rumore delle carrozze fecero muovere il sagrestano e i chierici che stavano
alla porta maggiore, i quali entrarono tosto per andare a chiamare il parroco.
Io era già entrato in chiesa, e mi ero messo tra quei chierici. Vennero dunque
presto le carrozze, ed eran sei. Tre svoltarono ne' Meravigli. La sposina era
in una di quelle. Le altre si fermarono innanzi alla facciata, e ne discesero
tutti quelli che erano ammessi alla cerimonia. Le guardie urbane nella strada
tenevano indietro la folla che faceva impeto e, in un batter d'occhio, appena
gl'invitati furono in chiesa, si chiusero tutte le porte, e solo fu lasciata
dischiusa quella che mette al vicoletto, standovi a guardia il servitore del
parroco, che, in quella solenne occasione, aveva messa vesta e cotta. Quel
servitore non lasciava passar persona che non presentasse un viglietto di casa
F... Io era tutto intento a guardar la contessina nel punto che colla duchessa
del Sesto e i testimonj e il marchese F... entravano in sagrestia per adempire
alle cerimonie d'uso, quando, a un tratto, vedo un parapiglia sull'ingresso
della porta segreta tra il servo in cotta ed uno che voleva entrare.
Sull'istante abbandono una scena per l'altra; e, avvicinatomi, vedo il signor
Suardi in persona, il quale lascia andare sulla faccia del servo in cotta uno
schiaffo così sonoro e potente che me lo sbatte dietro la bussola; e buon per
lui che strisciò lungo la pattona, la quale gli tolse il colpo nella caduta.
Tutto questo avvenne in un batter d'occhio, e il Suardi fu subito in chiesa, e
si collocò presso la predella dell'altar maggiore (scoperto allora di fresco,
ed era lavoro di Agostino Agrati), tra lo stupore dei signori invitati. Passò
un quarto d'ora. I chierici si schierarono intorno all'altar maggiore colle
torcie accese. Il parroco Redaelli salì l'altare. Dalla sagrestia uscirono nel
tempo stesso gli sposi col seguito.
"La contessina Ada, tenuta a mano dalla matrina, fu
messa a inginocchiarsi sul cuscino preparatole. Contemporaneamente l'altro
parroco don Felice Temperati invitava il marchese a inginocchiarsi sul suo.
Com'è naturale, io m'ero collocato ben presso alla balaustra, e dal momento che
il signor Suardi era entrato in chiesa, io non l'aveva mai perduto d'occhio.
Ora nel momento che il marchese stava per inginocchiarsi, m'accorsi ch'ei vide
per la prima volta il Suardi, il quale gli teneva gli occhi fissi in volto. Il
modo di guardare del Suardi e la sua curiosa immobilità mi fecero, dico il
vero, un senso di paura, quantunque io non sapessi nulla; ma era la scena dello
schiaffo che m'aveva fatta impressione. Com'io guardava intanto, guardavano
tutti e guardava il parroco Redaelli.
"Il fatto sta che tutt'a un tratto il marchese si alza
e dice non so che cosa all'orecchio d'un chierico. Questi parla al parroco, che
lascia l'altare, si fa presso al marchese, e dopo un momento rientra in
sagrestia con esso.
"Poco appresso furono chiamati in sagrestia i due
testimonj, don Giacomo Sanazzari e il marchese Recalcati, uno de' quali uscì
per accostarsi alla duchessa del Sesto, che non s'era mai staccata dal fianco
della sposina; la sposina e la duchessa uscirono sull'istante. Di lì a poco il
parroco don Giovanni Redaelli, fattosi alla balaustra: Per oggi, gridò, è
sospeso il matrimonio. Loro signori possono andare.
"Per quanto la stranezza del caso mi facesse attonito,
pure non ho mai tolto l'occhio dalla figura del Suardi, che non si era mai mosso
dal posto dove si collocò in principio. Tranquillo e grave lo vidi dunque a
muoversi per la prima volta, e levarsi di là, quando il parroco disse quelle
parole agli intervenuti.
"Ora è facile imaginarsi la meraviglia di tutti
costoro, e il bisbiglio e il malcontento che ne seguì, quasi che il matrimonio
lo dovessero far loro; è facile imaginarsi come quel bisbiglio e quel
malcontento passasse dalla chiesa al piazzale, alle vie, al vicolo dove tanta
folla aspettante e curiosa era stipata. Ma più di tutti gl'intervenuti e della
folla, quelli che rimasero veramente colpiti dallo stupore furono mio padre e
l'avvocato. Quand'io m'accostai ad essi, per domandar qualche schiarimento,
essi stavano guardandosi muti con quell'espressione che hanno le statue. Uscendo
dalla chiesa insieme con essi, udii mio padre, che fu il primo a rompere il
silenzio, a dire queste precise parole: Non c'è Cristi che mi possa far cambiar
di parere. Non può essere stata che la virtù magica di dieci milioni quella che
ha spezzato in un istante i legami di un matrimonio, a preparare il quale ci
son voluti quattro anni. Il marchese, coi suoi stravizj degni d'un imperatore
della decadenza, ha scantonata la propria ricchezza, come fanno gli ebrei,
quando tosano gli zecchini. Se veniva a questo nuovo scappellotto, certo che lo
avremmo veduto all'ospizio di S. Vincenzo. Lo Strigelli crollava il capo
ripetendo:
" Non è possibile.
"E mio padre:
" Per che cosa volete dunque che il Suardi abbia avuto
quel lungo colloquio col marchese?
" Ma ne siete poi sicuro?
" Il guardaportone di casa F... l'ho fatto cantar io.
Il carrozziere del Suardi cantò lui.
"Com'è naturale, io ascoltai questo dialogo, senza
comprenderlo. Quanti anni dovettero passare prima che mi si porgesse la chiave
per aprire quella serratura congegnata a segreto!
"E qui finisco, perchè di tutto quello che avvenne
dopo, in quel periodo, non mi riuscì d'esser testimonio oculare. Il matrimonio
non fu solamente sospeso, ma troncato. Il marchese si astenne affatto dalla
casa Pietra. La contessina Ada rimase ancora una fanciulla da marito."
Questa relazione del Bruni sarebbe rimasta in tronco, se noi
non lo avessimo pregato a stenderne un'altra per que' fatti posteriori, troppo
necessarj al complemento della nostra storia; e che avvennero vivente lui, e
che sentì egli stesso a raccontare o dalle parti o dai testimonj o dalla
pubblica voce. Eccola, conservatissima nel contesto, sebbene alquanto
raccomodata nella forma:
"Nell'anno 1776 cominciò a fermare l'attenzione del
pubblico milanese un giovane patrizio, il conte Achille S... Questo giovane
allora poteva contare ventitrè anni, ed era già tornato dall'America, dove,
avendo sentito che Lafayette, non ancora diciottenne, aveva già fatto
abbastanza per la gloria, si mise in testa di emulare il francese sul campo
dell'onore. Ma la differenza stava in ciò, che Lafayette, oltre il coraggio e
il desiderio della vita avventurosa, possedeva una grande uguaglianza di
carattere e una costanza inalterabile; dovechè il nostro giovane patrizio era
uno di quei caratteri inestricabili, in faccia ai quali anche il giudice più
sapiente e più tranquillo non sa che sentenza pronunciare, perchè se da un lato
gli sembra scorgere le qualità di un eroe,
dall'altro gli pare d'intravedere i tristi istinti di uno scellerato. Infatti,
rimasto, a diciasette anni, senza padre e senza madre, ed erede di una sostanza
ingente, non tollerando i consigli e l'autorità del tutore, che fu il conte
Sanazzaro, con questi venne a tali escandescenze, da percuoterlo violentemente
e da lasciargli le impronte del proprio furore. Fu dopo codesto fatto che,
pentito dell'avvenuto e iracondo di non poter spendere e sciupare, come voleva,
i proprj averi, lasciò Milano, passò in Francia, in Inghilterra e di là in
America. I giornali dell'una e dell'altra nazione in più circostanze ebbero a
fare onorevole menzione di lui pel coraggio dimostrato in molte battaglie; ma
dopo due anni, comparve sulla Gazzetta di Sciaffusa la relazione di un tremendo
alterco avvenuto tra esso e un colonnello americano, pel quale, venuti alle
mani, pur in mezzo alla festività di un banchetto, il sottotenente milanese
uccise il suo capo, onde senz'altro se ne dovette fuggire e ritornare in
patria, lasciando colà una giovane moglie che morì di lì a poco tempo.
"Reduce a ventidue anni compiuti, trovò che il conte
Sanazzaro era morto; il pretore ducale invitò allora altri tra i parenti del
conte S... perchè ne volessero assumere la tutela; ma nessuno amando togliersi
quel carico per cui erano in pericolo anche le spalle, e il giovane tempestando
di non voler tutela in nessun modo; esso in via d'eccezione e per decreto del
presidente del Senato fu dichiarato maggiore prima dell'età legale.
"Ricco, come ho detto, di una sostanza ingente,
cominciò una vita di pazzie, di scialacquo, di giuochi, d'amori, di scandali a
tal punto, da destare un gran rumore non solo in Milano, ma anche fuori del
ducato. Ed io mi ricordo che nella settimana grassa, al carnevalone, quando da
tutte le città della provincia e da quelle del Veneto affluiva la folla a
Milano e nel teatro Ducale, tutti gli sguardi erano appuntati al palco dove
questa bestia feroce sedeva insieme co' suoi degni colleghi. Mi sono
dimenticato di notare che questo giovane aveva qualità straordinarie
d'avvenenza, d'ingegno e di spirito. Pareva insomma che la natura, in un
momento d'esaltazione, avesse vuotato il sacco per metterlo insieme; e che
dall'altra parte il diavolo o qualche suo agente si fosse messo in testa di
assassinare l'opera geniale della natura stessa. Ma, per queste qualità
appunto, anzi per la loro contraddizione violenta, non è a dire quanto costui
riuscisse caro alle donne. Posso assicurare che molte marchese e contesse, in
fama d'invincibile castità, smarrirono la tramontana per questo scavezzacollo;
posso assicurare che molti matrimonj avviati da lunghi e casti amori si
turbarono di punto in bianco al comparire di questo Lucifero vivo e vero, il
quale aveva l'incarico di portare il disordine e il peccato ovunque si
presentasse.
"Se non che una vita così turbolenta e pazza doveva
portare le sue inevitabili conseguenze. Infatti non passarono tre anni che,
indebitato fin sopra la testa, ipotecati tutti i fondi, si trovò nella
condizione di chieder soccorso a un suo vecchio zio, col quale era già venuto a
terribili alterchi. Lo zio, com'è naturale, fu sordo a tutte le preghiere dei
parenti e degli amici, tanto che il giovane dovette un giorno seguire le
guardie urbane e recarsi nelle carceri del pretorio alla Malastalla. I debiti,
l'avvilimento, la prigione non mancarono di fare un certo effetto sull'animo di
quel giovane, il quale, cosa strana, si acconciò a scrivere una lettera allo
zio. Siccome era d'ingegno e d'animo versatile, e dall'oggi al domani si
trasformava come un camaleonte, così trovò il modo, secondo dicevasi per la
città, di scrivere una lettera allo zio così affettuosa, toccante ed eloquente,
che lo zio si lasciò smuovere, e, chiamati i creditori, venne con loro a
convenzione, e, aggiustato alla meglio il disastro economico del nipote, gli
assegnò una pensione ragionevole perchè potesse vivere con decoro e con
tranquillità, promettendo che a seconda dei diporti la pensione avrebbe anche
potuto crescere. Infatti, ritiratosi in campagna, il giovane visse per quasi un
anno una vita esemplare; tanto che, quando
veniva a Milano, o lo si vedeva in teatro, ciascuno lo compiangeva, e malediva
l'avarissimo zio perchè lo condannava a vivere così allo stecco; e allora lo
zio, a cui vennero all'orecchio codeste dicerie, lo mandò a chiamare per fargli
una proposta.
"La proposta fu che, giacchè per molti indizj avea
mostrato di poter essere anch'egli come tanti altri, un giovane savio e
assestato, così si preparasse a prender moglie; in tal caso il signor zio gli
avrebbe fissata una rendita degna della sua condizione e della sposa, e per di
più lo avrebbe nominato suo erede. Il nipote accettò; la sposa era già
preparata, giovane, bella, ricca. Il matrimonio si fece; ma colla ricchezza
ricominciarono i capogiri del giovinotto; e gli sciali, e i giuochi, e le donne
e il diavolo a quattro; e non finì un anno, che la consorte, la quale fu donna
Giulia Rodriguez de Arevolo, figliuola unica, morì, il mondo disse, per un
calcio dato dal marito furioso a lei che era incinta. Rimasto vedovo con un
ragazzino, perdette di lì a poco anche questo, ond'egli ereditò tutti gli averi
della moglie; ma li ereditò per buttarli all'aria come avea fatto con tutto il
resto. Allora, tornando i dissesti economici, e le angustie, e l'assedio dei
creditori, lo zio dovette ricomparire ancora a sanar le piaghe. Siccome poi
quello zio era ciambellano, e avrebbe fatta moneta falsa per l'arciduca
Ferdinando, così, quella volta, in pagamento del beneficio, pretese che il
signor conte nipote entrasse tra le guardie d'onore di Sua Altezza serenissima.
Quelle guardie, per l'eccesso del lusso, e perchè nelle solennità, quando in
chiesa sfilavano a lato dell'arciduca, dagli spallini, dalla spada, dai ricami
d'argento riverberavan le fiamme delle torcie, venivano chiamati i candellieri
d'argento; appellativo che rimase poi alle guardie d'onore fin sotto al Regno
italico. Ora fu nella sua qualità di candelliere d'argento che, a una festa da
ballo, data dall'arciduca, danzò per la prima volta colla giovane contessa Ada.
Vederla e andarne preso, e con quel suo sistema di portar tutto
all'esagerazione e al delirio, dichiarare che si sarebbe ammazzato se ella non
corrispondeva all'amor suo; e recarsi dallo zio, e far mille proteste, e
supplicarlo perchè si interessasse a rendere possibile quel matrimonio, fu una
cosa sola. Lo zio non desiderava altro. La prima volta avea durato fatica a
indurre il nipote ad accasarsi; ora veniva lo stesso nipote a chiedere e
pregare. Era un fatto superiore ad ogni speranza, era una vera conversione. La
contessina Ada, si sa, non aveva più nè 16, nè 18, nè 20, e nemmeno 25 anni;
ma, correndo il 1780, era prossima a' suoi 28. Ben è vero ch'ell'era ancora
bellissima, e le giovinette sedicenni potevano ancora invidiarla; ma a
quell'età le donne ancor nubili, cominciando a capire che dopo il mezzodì viene
il tramonto, sentono nelle ossa la minaccia d'una diminuzione di prezzo, e
diventano impazienti tanto, che se hanno passato la miglior parte della vita a
dir di no, sospirano qualunque occasione per poter dire di sì. La contessina
Ada, poi, di sopraggiunta, si era veramente invaghita del conte Achille S....
nè più dovea temersi la competenza del Suardi, il quale aveva toccato i suoi
quarantanove anni. Ben egli continuava ad essere un bellissimo uomo,
prosperoso, vegeto, vivace. Ma il colore del volto aveva perduta la
trasparenza; ma l'occhio aveva smarrito il fosforo; ma la pancia aveva varcata
la linea accademica. È sempre la pancia quella
che chiude il protocollo degli amori. Dunque la contessina Ada era guarita di
quell'affezione infelice.
"Nel tempo che avvenivano queste cose, io non mi
trovavo a Milano. Da un anno e più stavo a Venezia per assistere la povera mia
madre, che morì poi in ancor fresca età, compianta e desiderata da quanti la
conobbero. Stavo dunque a Venezia, quando mi giunse come un colpo di fulmine la
notizia che lord Crall, il quale da qualche tempo erasi ritirato in una sua
villetta presso Milano, fu trovato morto in camera, immerso nel proprio sangue.
Colla notizia corsero anche manoscritte le copie di alcune lettere ch'esso avea
scritto per donna Ada: lettere che si faceva a gara a rubarsele di mano, perchè
a Venezia destavano un grande interesse, non tanto per sè stesse, quanto perchè
n'era eroina la figliuola di quella contessa Clelia che molti anni addietro
aveva lasciata tanta impressione in quella città. Fu allora che, intanto che
mio padre recavasi a Genova per certe somme lasciate da mia madre su quel
Banco, io tornai a Milano coll'intento di conoscere appieno e dappresso i
particolari di tanta sventura; e fu allora ch'io sentii per la prima volta la
storia dei nuovi amori del conte Achille S... e delle prossime nozze di lui
colla contessina, e appurai essere stata questa la vera cagione del suicidio di
lord Crall. Le ultime lettere di questo infelice, pubblicate oggi, farebbero
ancor senso, ad onta delle famosissime di Werther e Ortis; ma io, dopo averne
con religiosità conservata copia per molti anni, non so come, le ho smarrite;
nè mi venne mai fatto di rinvenirle altrove, per quanta cura ci abbia posto;
specialmente allorchè, discorrendo un dì con Ugo Foscolo di quel fatto e di
quelle lettere, egli mi mostrò un gran desiderio di vederle.
"Saputo tutto quello che si poteva sapere, io, sebbene
sentissi l'obbligo d'andare a trovare e a confortare in qualche modo la madre
infelice del povero estinto, pure stetti lontano dalla casa Pietra; perchè, se
mi aveva annojato in addietro il trovarmi a contatto col marchese F..., ben più
m'avrebbe pesato il trovarmi allora insieme con quel petulantissimo conte S...;
nè troppo a me importava ch'ei fosse un candelliere d'argento dell'arciduca, e
molto meno che fosse bello come un dio, e meno ancora che avesse in sulla
coscienza una mezza dozzina di cavalieri ammazzati da lui in duello;
circostanza che, invece di far ribrezzo, accresceva, tanto il mondo è curioso,
il prestigio che lo circondava; bensì lo abborrivo di tutto cuore, perchè,
pieno com'ero io delle idee di mio padre, non potevo soffrire che colui, dopo
essere stato in America a battersi per la libertà, fosse poscia tornato più
gonfio che mai di vento aristocratico, e si comportasse con tutti di maniera,
come se il mondo fosse suo vassallo. Tornando ai fatti, per essere colui
impastato di contraddizioni e delle cose non amando che gli estremi, io seppi
da chi lo avvicinava in quel tempo, che il suo amore per donna Ada portò tutti
i caratteri di una procella, procella che continuò nel medesimo orgasmo per
molto tempo; anche perchè, quando tutto era disposto per il matrimonio, e lo
zio gli aveva assegnato una rendita degna di lui e della sposa, la morte di
donna Paola Pietra che tenne dietro, dopo un anno di languore e d'abbattimento,
alla misera fine di suo figlio, venne a sospendere ogni cosa, perchè donna
Clelia volle che il lutto per quella santa donna fosse intero e solenne. Nei
giorni estremi di quella vita preziosa e veramente eccezionale, io ritornai
finalmente in quella casa e fui testimonio di scene sublimi d'amore e di
dolore. Allorchè la veneranda donna mandò l'ultimo respiro, sembrò
davvero che alla contessa Clelia fosse strappata l'anima. In mia vita non ho
mai assistito a più profondo cordoglio; e la prova ne fu, come già ho detto,
che, per quanto ella conoscesse e compassionasse la condizione d'animo della
propria figliuola, e per quanto potesse temere le violenze del conte S..., pure
volle che per un anno intero non si parlasse di nozze, e si onorasse la defunta
anche co' sagrificj del cuore.
"Quel matrimonio non ebbe dunque luogo che nel giugno
dell'anno 1780, con tutta la solennità e le pompe d'uso. Ma trascorsa la luna
d'obbligo, la procellosa passione del conte, nel soddisfarsi, si spense; e la
tetra noja, assediando ancora quell'incontentabile natura d'uomo, lo spinse a
cercare nuovi stordimenti nel giuoco, nelle donne; a portare la desolazione nel
proprio talamo maritale, a funestar la pace dei talami altrui, provocando ire,
vendette, tafferugli, duelli, e giungendo a mettere sossopra persino la Corte
dell'arciduca.
"A tante pazzie presto tennero dietro i dissesti
domestici e i dissapori col vecchio zio, il quale riuscì a fargli decretare
l'interdizione. Dopo questo fatto esso diventò così acre e turbolento, che
tutti facevano a gara per iscansarlo. Fu allora che nacque un accidente per cui
dovette abbandonar Milano, e lasciar la casa e la famiglia. Quell'accidente
però, bisogna dirlo ad onor del vero, gli recò molto onore, e fu tale che gli
acquistò la simpatia anche di quelli che l'odiavano e lo scansavano. Ecco di
che si tratta. È un fatto di non poca importanza, e che si connette coi grandi
interessi del paese.
"Giuseppe II, quando
salì al trono, vi recò l'orgoglio del sovrano assoluto e la presunzione di
saperne più di tutti. Una tempesta doppia. La seconda fu assai peggiore della
prima giacchè per essa egli applicò le riforme con tale violenza e impazienza,
da mandar disperso il bene a cui mirarono coloro che le avevano inventate. Per
fermarci al ducato di Milano, Giuseppe II fu
il primo sovrano austriaco che abbia manomesso dispoticamente questo
inesauribile salvadenaro dell'Impero. Fu per lui che la Lombardia ha cessato,
allora per la prima volta, di vivere della vita propria. Per lasciar da parte
tutto il resto, e per venire al caso nostro, l'abolizione del Senato di Milano,
che stava in piedi da tre secoli, fu un avvenimento che mise il malumore in
tutta la popolazione. Ben è vero che, di quel Senato, noi stessi da moltissimo
tempo avevamo vedute le piaghe; ma, come avviene, il nostro legittimo orgoglio
nazionale fu punto e si risentì quando venne offesa da altri quella nostra
unica rappresentanza. Non si abolisce, ma si riforma, se c'è da riformare; ma
si rispettano le più antiche e le più care tradizioni di una città, di una
patria. In famiglia si può rimproverar la sorella, la madre, ma non si sopporta
che altri le schiaffeggino. È codesta una legge di natura. È dunque una mia
opinione che l'odio dei Lombardi, voglio dire dei Lombardi italiani, per il
dominio austriaco, se non cominciò affatto con Giuseppe
II, s'inviperì allora per la prima volta, e si manifestò per mille indizi. Il
mezzo più sicuro con cui un governo può inimicarsi i governati è quello di
attestar per essi in pubblico il proprio disprezzo, col rifiutare e respingere
tutto ciò che fu il portato delle loro consuetudini e della loro sapienza
tradizionale. I sudditi ragionevoli possono acconciarsi a pagar tasse
esorbitanti; possono chiamarsi gloriosi di mettere ai piedi del trono i loro
averi, perchè un tal sagrificio è giustificato dalla necessità o dalle sue
apparenze, e perchè la dignità di una nazione o di una parte di essa non ne
rimane offesa. Ma guai se si pretende di sconquassare ciò che costituisce la
fisionomia caratteristica d'un paese.
"I veri sapienti onde allora era cospicua la città di
Milano ben potevano essere incaricati non della distruzione, ma della riforma
ragionevole del Senato, ed essi medesimi dovevano poi venir chiamati a farne
parte e ad esserne il decoro e la gloria. Ma Giuseppe
II si credeva al disopra di tutti, anche per l'intelligenza; e quanto alla
Lombardia, senza conoscerla mostrò di disprezzarla in più d'un'occasione. Mi
ricordo che, allorquando venne a Milano per la prima volta e s'incontrò,
nell'aula massima del Senato, nel presidente Motone, guardando all'altissimo
topè che colui portava, ebbe, non dubito di così chiamarla, la vile
sfrontatezza di rivolgergli queste precise parole: Davvero che voi mi sembrate
un buffone. Questa frase di quel presuntuoso monarca, riferita dai testimonj, e
messa in giro per tutta la città, non è a dire quanta indignazione e rancore e
dispetto abbia recato in tutti gli animi dei buoni Milanesi; quei Milanesi che
pure in molte circostanze avean giudicato con molta severità quel presidente.
Ma, torno a ripeterlo, i Milanesi non potevano biasimare quel loro magistrato;
ma dovevano indignarsi, come fecero, quando lo sentirono insultato così
vituperosamente da un sovrano straniero.
"Or tornando al Senato, o meglio tornando al conte
S..., candelliere dell'arciduca, in uno di que' giorni in cui tutta Milano
parlava della soppressione del Senato, a una festa di Corte, accostatosi a un
crocchio di ciambellani che lodavano a cielo quell'atto dell'imperatore, egli
investì tutti quanti con parole così acerbe e veementi, da far credere ch'ei
non avesse altro desiderio che di esser tradotto in carcere; e tanto più quando
prese pel collare inargentato il conte Mellerio, e lo scrollò allegramente
allorchè quel ladro in carta bollata ebbe il coraggio di rispondergli con
altrettanta veemenza. Tutti dissero allora che il conte S... era alterato dal
vino, che era fuor de' gangheri per aver perduto al giuoco, che cercava mille
modi di far nascere degli scandali, quasi a vendicarsi di essere stato
interdetto dal nuovo Tribunale succeduto al Senato; ma, sia pure come vuol
essere, io provo sempre una grande
soddisfazione quando penso a quella scena violenta, e mi lodo della fortuna
quando considero che, per parlar alto a quel modo, non ci voleva che un uomo di
quella tempra. Le prime sassate nei vetri, anche allora che si vuol fare una
dimostrazione legittima, son pur sempre
gettate dalla canaglia inferocita. E il conte, ad onta di tutte le sue pessime
qualità, pur serbava in fondo in fondo all'animo qualche cosa di generoso;
soltanto ce ne voleva a farlo balzar fuori. E qui metto codesta osservazione, a
mitigare in parte il giudizio severissimo che ho dato più addietro di
quest'uomo; ma dico il vero, che quella furiosa scrollata data da lui al bavero
inargentato del conte Mellerio m'ha disposto all'indulgenza.
"Il giorno dopo, il barigello della Pretura con una
mano di guardie urbane fu alla casa S... per condurre seco il padrone. Ma
questo, in fretta e in furia, messo in sull'avviso non si sa da chi, era
partito la notte; nè d'allora in poi non fu mai più veduto a Milano; nè, dopo
una sola lettera che da Parigi scrisse alla contessa sua moglie, nella quale,
com'ella più e più volte mi raccontò piangendo dirottamente, le raccomandava di
dare un bacio alla piccola Paolina, non scrisse mai più alla famiglia; nè mai
più per sua parte giunsero notizie di lui in patria."
Qui finisce la seconda parte della relazione lasciataci dal
signor Giocondo Bruni.
Ed ora dovremmo tornare indietro, ovverosia andare avanti, e
risalire in casa S..., e collocarci, come il vecchio Simeone, tra il capitano
Baroggi e donna Paolina per metter l'anello in dito alla sposina e congiungere
le due mani. Ma il genio della storia e della rivoluzione ci sollecita e
c'invita ad un teatro più grande che non è Milano; in mezzo a scene più
solenni; e tanto più che su quel teatro e tra quelle scene ritroveremo ancora i
nostri personaggi, e per la prima volta finalmente ci si presenterà la strana
figura del conte Achille.
|