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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DUODECIMO
    • I
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I

Di tutte le città cospicue del vecchio e del nuovo mondo, due sole tengono i caratteri e le virtù e il diritto di essere, come in un'orbita ellittica, i due fochi dell'umanità, Roma e Parigi. Queste città esercitano sugli uomini che vengono da altre patrie un'attrazione così prepotente e irresistibile, che quasi li seduce a non tornar più a casa loro.

Tutti quelli che sono affetti di municipalismo cronico, non è che a Roma o a Parigi dove possono sperar di guarire. Tutto sta a non errare nella scelta.

I gaudenti che antepongono il Bordeaux al vino d'Orvieto, e che paurosi dell'avvenire e smemorati del passato vogliono, per tutto quel che può succedere, godersi tutti i beni che loro può dare il presente, vadano a Parigi; coloro che sono ascritti all'ordine della cambiale e interrogano, quotidiano oroscopo, il listino della Borsa, vadano a Parigi; coloro che, per fermarci alla città di Milano, odiano l'autore di questo libro, perchè difese la conservazione dei portoni di Porta Nuova, vadano a Parigi; a Roma potrebbero morir d'indigestione archeologica. Ma coloro che, volendo far la cura del municipalismo, non vogliono, essendo italiani, mettere a repentaglio il nazionalismo, vadano a Roma.

Vadano a Roma coloro i quali credono che si possa assicurare il futuro coll'amore tenace delle grandi tradizioni, e hanno fede nei ritornelli storici. Vadano a Roma i prosciugatori di paludi, i bonificatori di terreni, i cercatori d'una città capitale per l'Italia quando sarà rifatta.

È pur sempre dal monte Pincio e dall'umile quarto piano dove abitava l'indefesso Winkelmann che si può ancora appuntare il telescopio, per scoprire quella stella che sgombrerà del tutto le nubi d'Italia.

Ma giacchè il nome di Winkelmann ci venne sulla penna, esso che, passato a Roma, non seppe più dipartirsene se non per morire; che cosa significa codesta irresistibile attrazione che l'eterna città, dal centro d'Italia, precisamente come al tempo che era l'Urbe dell'Orbe, esercita ancora sugli animi più nobili e sugli intelletti più privilegiati di tutte le nazioni?...

Gibbon, trovandosi a Roma, seduto sulle rovine del Campidoglio, mentre i frati cantano vespro nel tempio di Giove, quella strana antitesi lo percuote, e per vent'anni non vive che sprofondato nelle memorie della città eterna.

Byron, indarno trattenuto da colei che per la prima volta riuscì a far parer legittima l'infedeltà conjugale, viaggia appositamente a Roma per dedicare alla regina delle città l'ultimo canto del suo Childe Harold immortale, e al cospetto delle sue rovine, la saluta Niobe delle Nazioni, e sente per essa quell'entusiasmo di amante che non ebbe mai per la fredda sua patria. Perfino i figliuoli di Venezia, per consueto innamorati della cara madre al punto da far piegar in passione il naturale affetto del luogo nativo, a Roma dimenticano e San Marco e Canalazzo e Giudecca, e vi conducono in gloriosa e feconda prosperità la parte migliore della loro vita.

Il veneziano Piranesi è così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà, e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha per anco visitata.

Canova vive di Roma e per Roma, e qui vince nella gara l'invidioso danese, che in essa dimorò tutta la vita per tentare di rapire la palma al veneziano.

Ma giacchè il rivale di Canova ci fa pensare agli artisti del settentrione, Bruloff e Bruni dalla gelida Neva venuti a Roma, crescono pittori grandissimi nel fecondo tepore del suo cielo, tanto che se l'artista è cittadino di quella patria da cui tiene l'inspirazione e l'esempio, non sono essi che legittimi romani; e Bruloff lo confessava e lo voleva, e il corpo atletico, affranto dal soverchio peso del suo ingegno sterminato, sperò di ritornarlo a salute ricoverandosi, dopo lunga assenza, a Roma, nella fiducia che soltanto gli soffiasse quell'aere nativo, estremo rifugio delle vite per cui l'arte medica non ha più consigli.

Tutto Cornelius, che alcuni esteti nostrali proclamarono antistite dell'arte contemporanea, quand'era di moda non vedere e non sognar che l'arte e la scienza germanica, e sotto la maschera della scuola e del gusto cercavano onestare la colpevole adulazione e le maledette schiene curvate, tutto Cornelius non è all'ultimo che un rivenditore eclettico dei tesori raccolti a Roma.

Il sommo Delaroche, il più originale forse e il più perfetto dei pittori contemporanei, giunse a vestire della più decorosa forma i nuovi concetti per aver ripensato tutta la vita e Raffaello e Roma.

Che più? Una popolazione di giovani artisti di ogni lingua, d'ogni nazione, sotto l'egida dell'arte, stornatrice dei sospetti clericali, qui rappresentano la parte più eletta dell'umanità, o come espressione sincera delle loro patrie progressive e liberali, o come eccezione gloriosa delle loro patrie corrotte.

E in quella scienza della storia e dell'indagatrice filologia, uomini d'ogni nazione dimenticano le origini e la storia delle loro patrie, per cercare e rifar quella di Roma, e comparire in faccia al mondo gloriosi di una dottrina che qui soltanto hanno trovato. Niebuhr s'innamora di Roma e si sprofonda a perdita d'occhio nelle sue più remote origini, sotto la scorta del romano Vulpio, tanto letto nel mondo quanto derubato, e men celebre de' suoi saccheggiatori astuti.

Se non che tutti costoro stettero al cospetto di Roma, senza speranza e senza fede, come al cospetto di un cadavere imbalsamato, ancor bello e ancora coperto di porpora e di gemme. Alcuni anche vi stettero senza dolore, e solo coll'intento d'involarne i tesori sotto specie d'ammirazione. E i più generosi e sentimentali, come Byron e Chateaubriand, non manifestarono che un dolore sterile e senza conforto.

Byron, chiamando Roma la Niobe delle nazioni, volle conchiudere che non v'era speranza ragionevole di veder risorgere i suoi figli saettati da un Dio nemico.

Chateaubriand, pur nello sfoggio del suo entusiasmo e di poeta e di cristiano, al cospetto di Roma non fa che ripetere l'Inania regna d'Isaia, e conchiudere declamando il Rem plenam miseriæ, spem beatitudinis inanem, di S. Agostino.

Ma, dopo tutto, chi resta ultimo, a perder la speranza vicino al letto del moribondo parente non è che il devoto consanguineo. Però ad aver fede nella risurrezione di Roma è necessità essere uomini d'Italia. È già molto che lo straniero rammenti con ammirazione il suo passato, e s'assida con poetica commozione presso le sue rovine.

La teoria storica dell'impossibile risurrezione delle nazioni tramontate può essere ammessa da chi trionfa nella massima piena della fortuna; ma la respinge con sapiente orgoglio chi, caduto da alto, geme in non meritata sventura.

Pure, tanti anni sono, gli stessi Italiani che deploravano la patria infelice e divisa, allorchè visitavano Roma, se il pensiero della giustizia e la forza del dolore generavano un qualche barlume di speranza, la ragione calcolatrice degli ostacoli faceva sbollire ogni entusiasmo destato dagli avanzi del passato e dall'idea che non indarno fosse pur rimasto ancor tanto di tanta grandezza.

Quando i congressi scientifici non avevano ancor maturato il frutto politico; quando, dopo la fatale dispersione dell'esercito del regno d'Italia, la coccarda italiana stava ancora celata nel confidente scrigno di qualche superstite veterano del Raab, e il tricolore italico non veniva ancora trapuntato dalle generose lettrici dei canti patriottici del milanese Berchet; e le cinque proverbiali giornate che lo dovevano per la prima volta far sventolare in Italia, erano ancora in mente Dei; un giovane milanese, e a chi scrive era ben noto, trovavasi precisamente a Trinità di Monti per godere lo spettacolo di un tramonto romano; e mentre un artista andava additando l'antico foro e il Campidoglio, e coi ruderi infranti ricostruiva a mano a mano la Roma reale, la Roma repubblicana, la Roma imperiale, il giovane milanese, guardando ora al cupolone di S. Pietro, che pareva nuotare in un oceano d'oro, ora al Colosseo, che sorgeva gigante ma tristo e infranto e nella condizione di un'architettonica cava di marmo: Ecco, disse, le due costruzioni più gigantesche di mole e più sontuose d'ornato che mai siano sorte al mondo. In nessuna parte della terra non v'è nulla che possa paragonarsi a questi due edifizj, che sembrano rappresentare l'evo antico e l'evo moderno. Peccato che il Colosseo rimanga smantellato a mezzo. La grandezza romana, se ciò non fosse, rivivrebbe tutta in lui.

Così fosse affatto scomparso, esclamò allora con veemenza un abate in mantelletta che per caso era presente, che almeno non rimarrebbe più traccia della feroce èra pagana e dei tanti martiri qui immolati agli dèi bugiardi.

Ma perchè allora non v'è chi smantella il Vaticano? esclamò il giovane milanese.

L'abate guardò stupito quel che così parlava; poi soggiunse quasi gridando: Chi bestemmia così?

Nessuno bestemmia. Ma se volete distrutto il Colosseo, io vi domando perchè si lasciano sussistere tante testimonianze dei delitti dei pontefici? L'altro giorno mi fu mostrato un luogo dove Paolo II stava ascoltando i gemiti delle migliaja di prigionieri stipati in castel Sant'Angelo, onde il popolo atterrito dal notturno ululato ebbe a chiamar questa mole per antonomasia il toro di Falaride ingigantito.

Queste parole provocarono una discussione tra quel giovane e l'abate.

Da quanto avete detto, continuava il primo, mi accorgo che hanno ragione que' dotti scrittori che della colpa d'aver smantellata Roma assolvono e le invasioni, e i saccheggi, e i Barbari, perfino i cataclismi naturali, i terremoti, e gl'incendj spontanei.

Chi dunque può aver fatto questo?

Il cristianesimo corrotto, la malvagità pretina, l'ignoranza del popolo credenzone.

Mi piacerebbe sentire come si può far ora ad assolvere i Barbari.

Col dirvi che i Barbari nel furore dell'avidità ben ponno essersi attaccati all'oro, all'argento, alle gemme, al ferro, al rame, al piombo, alle belle donne, a tutto ciò che volete, ma non alle colonne di granito, non ai massi di travertino, non ai frontoni, agli attici, ai capitelli. Già, tutta la storia delle rovine romane non a caso fu riassunta nel Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini. Ma lasciando i Barbari, l'ultimo sacco, che fu il più terribile di tutti e che durò tanto tempo e dischiuse una tal voragine di miseria che ci vollero anni ed anni a porvi riparo, chi lo ha voluto, chi lo tirò in casa? Rispondete a me adesso.

Vi rispondo col farvi una domanda. Di chi fu la colpa se in quell'altro sacco?...

Qual è quest'altro sacco?

Quello del 1798. Quello che, sotto specie di protezione, di beneficio, operarono i rivoluzionari di Francia e d'Italia. Di chi dunque fu la colpa se le più stupende opere degli ultimi secoli adunate in Roma per la magnificenza pontificia; se le più famose statue dell'antichità raccolte ne' musei furono depredate e trasportate in Francia?

Il giovane milanese, che in tutte le storie contemporanee aveva trovato intorno a quel fatto e relazioni e giudizj sempre concordi, ed egli stesso non sapeva dar ragione a quanti storici e a quanti uomini vituperarono le estorsioni, le rapine, le concussioni, i disordini d'ogni maniera che avvennero di quel tempo in Roma, prima sotto Berthier, poi sotto Massena, si trovò sconcertato a quella domanda improvvisa dell'abate; e andava, tanto per non parer vinto, biascicando una risposta che però si rifiutava ad uscir dalla bocca. Ma allora venne in suo soccorso l'artista che in quel crocchio faceva da Cicerone per tutti.

Troppo spesso, prese dunque a dire colui, nelle storie molto lodate e molto divulgate la verità si cerca e non si trova. Certo che quei disordini sono avvenuti, certo che le concussioni furono fatte, certo che i capolavori furono rubati; ma bisogna portarsi a quei tempi, ma bisogna conoscere le nefandità che prepararono quelle vendette. Oggi non v'è, per esempio, chi non chiami Pio VI e santo e martire. Ma dove si legge quel ch'egli fece prima di toccare gli ottant'anni? Caro signor abate, ella è ancora giovane, e poi non è alla segreteria, alla curia dove si legge la vita ai papi. Non è alla curia dove si conoscono gl'insidiosi intrighi dei cardinali e dei vescovi e degli altri prelati di tutti i colori... Ma cangiamo discorso, che se alcuno riportasse le mie parole, anche nella mia condizione di cittadino francese, potrebbero assassinarmi colla mordacchia; chè i sacerdoti di Cristo hanno trovato il modo di superare la feroce antichità nel tormentare i galantuomini quando manifestano opinioni contrarie a quel ch'essi vogliono. Discendiamo dunque, che è disceso anche il sole, ed è scomparso dietro la palla di rame.

L'abate tacque. Discesero tutti. Strada facendo, l'artista, che si diede a conoscere per un tal Baldani, emigrato lombardo fin dal 1814, diventato suddito francese, e allora dimorante a Roma per collaborare a un'opera sulle antichità romane che doveva uscire a Parigi, rivoltosi al giovine milanese, gli disse che se voleva conoscere i segreti del tempo in cui si piantò a Roma l'albero della libertà gli avrebbe fatto conoscere un popolano, figliuolo di un tal Camillone di Trastevere, per mezzo del quale avrebbe saputo quello che non c'è in tutte le storie.

E così fu fatto. L'architetto Baldani condusse il Milanese in Trastevere e lo presentò al figlio già maturo dell'una volta famoso Camillone; diciamo una volta famoso, perchè ora non v'è più chi lo nomini si ricordi di lui; sebbene negli ultimi dieci anni del secolo passato abbia rappresentato a Roma quella parte che Ciceruacchio rappresentò nei primordj del fatale pontificato di Pio IX; ed abbia dettato in dialetto romano un curioso diario dell'ingresso dei Francesi in Roma nel 1798, e di tutto quello che avvenne colà in quel periodo famoso. Del qual diario il giovine milanese ottenne di poter trascrivere gran parte.

Se non che di questo Camillone noi abbiamo cercato il nome con insistenza in tutte le storie più o meno celebri che parlano delle cose generali d'Italia a quel tempo e delle speciali di Roma, compresa la postuma di Alessandro Verri, il quale, per aver dimorato tanti anni in quella città e per essersi, per ciò che aspetta ai Francesi ed alla repubblica colà improvvisata, diffuso in insoliti particolari, avrebbe potuto parlarne con più ragioni e con più mezzi degli altri. Ma non ne abbiam trovato neppur un cenno fuggitivo, il che ci sembrò tanto strano, che siamo venuti perfin nel sospetto che fosse un'invenzione e l'uomo di Trastevere, almeno per l'importanza che gli si volle dare, e il manoscritto, almeno per la sua autenticità; chè a Roma è frequente la professione di vendere vesciche ai forastieri che vanno a caccia di notizie e di scoperte. Ma, un mese fa, rovistando in Biblioteca, abbiamo trovato un opuscolo stampato a Bologna nel 1800, relativo ai fatti di Roma, dove il Camillone di Trastevere è nominato in lungo e in largo, e vi è rappresentato come l'uomo a cui l'autorità stessa doveva ricorrere quando si voleva metter pace nella moltitudine, la quale in lui solo avea fiducia. Questa scoperta distrusse tutti i nostri dubbj, e ci animò a ricostruir questa parte dell'edificio, che quasi lasciavamo andar in ruina. Ed ora il racconto quasi assume importanza di epopea; feconda epopea, perchè fu nel 98 e in Roma, dove per la prima volta deliberatamente venne vibrato il colpo che avrebbe potuto ferire a morte il nemico più formidabile dell'Italia, che da tanti secoli si tormenta per ritrovare stessa e per riavere quel posto che le si compete fra le nazioni; e perchè l'Italia presente dee guardare quell'anno memorabile, non per ripeterlo, ma per emendarlo e compirlo; ma per convincerci, che, finchè rimarrà il poter temporale al pontefice, la questione italiana non sarà mai risoluta davvero; e anche nel caso che l'aspetto della nostra nazione potesse presentare i segni della salute, in quel potere starà chiuso il germe del morbo antico, pronto sempre a pigliar forza dalle possibili occasioni, per prorompere più minaccioso e funesto.




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