I
Di tutte le città cospicue del vecchio e del nuovo mondo,
due sole tengono i caratteri e le virtù e il diritto di essere, come in
un'orbita ellittica, i due fochi dell'umanità, Roma e Parigi. Queste città
esercitano sugli uomini che vengono da altre patrie un'attrazione così
prepotente e irresistibile, che quasi li seduce a non tornar più a casa loro.
Tutti quelli che sono affetti di municipalismo cronico, non
è che a Roma o a Parigi dove possono sperar di guarire. Tutto sta a non errare
nella scelta.
I gaudenti che antepongono il Bordeaux al vino d'Orvieto, e
che paurosi dell'avvenire e smemorati del passato vogliono, per tutto quel che
può succedere, godersi tutti i beni che loro può dare il presente, vadano a
Parigi; coloro che sono ascritti all'ordine della cambiale e interrogano,
quotidiano oroscopo, il listino della Borsa, vadano a Parigi; coloro che, per
fermarci alla città di Milano, odiano l'autore di questo libro, perchè difese la
conservazione dei portoni di Porta Nuova, vadano a Parigi; a Roma potrebbero
morir d'indigestione archeologica. Ma coloro che, volendo far la cura del
municipalismo, non vogliono, essendo italiani, mettere a repentaglio il
nazionalismo, vadano a Roma.
Vadano a Roma coloro i quali credono che si possa assicurare
il futuro coll'amore tenace delle grandi tradizioni, e hanno fede nei
ritornelli storici. Vadano a Roma i prosciugatori di paludi, i bonificatori di
terreni, i cercatori d'una città capitale per l'Italia quando sarà rifatta.
È pur sempre dal monte
Pincio e dall'umile quarto piano dove abitava l'indefesso Winkelmann che si può
ancora appuntare il telescopio, per scoprire quella stella che sgombrerà del
tutto le nubi d'Italia.
Ma giacchè il nome di Winkelmann ci venne sulla penna, esso
che, passato a Roma, non seppe più dipartirsene se non per morire; che cosa
significa codesta irresistibile attrazione che l'eterna città, dal centro
d'Italia, precisamente come al tempo che era l'Urbe dell'Orbe, esercita ancora
sugli animi più nobili e sugli intelletti più privilegiati di tutte le
nazioni?...
Gibbon, trovandosi a Roma, seduto sulle rovine del
Campidoglio, mentre i frati cantano vespro nel tempio di Giove, quella strana
antitesi lo percuote, e per vent'anni non vive che sprofondato nelle memorie
della città eterna.
Byron, indarno trattenuto da colei che per la prima volta
riuscì a far parer legittima l'infedeltà conjugale, viaggia appositamente a
Roma per dedicare alla regina delle città l'ultimo canto del suo Childe Harold
immortale, e al cospetto delle sue rovine, la saluta Niobe delle Nazioni, e
sente per essa quell'entusiasmo di amante che non ebbe mai per la fredda sua
patria. Perfino i figliuoli di Venezia, per consueto innamorati della cara
madre al punto da far piegar in passione il naturale affetto del luogo nativo,
a Roma dimenticano e San Marco e Canalazzo e Giudecca, e vi conducono in
gloriosa e feconda prosperità la parte migliore della loro vita.
Il veneziano Piranesi è così pieno dell'aria, del cielo, del
suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà, e da farla comparire come
per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha per anco visitata.
Canova vive di Roma e per Roma, e qui vince nella gara
l'invidioso danese, che in essa dimorò tutta la vita per tentare di rapire la
palma al veneziano.
Ma giacchè il rivale di Canova ci fa pensare agli artisti
del settentrione, Bruloff e Bruni dalla gelida Neva venuti a Roma, crescono
pittori grandissimi nel fecondo tepore del suo cielo, tanto che se l'artista è
cittadino di quella patria da cui tiene l'inspirazione e l'esempio,
non sono essi che legittimi romani; e Bruloff lo confessava e lo voleva, e il
corpo atletico, affranto dal soverchio peso del suo ingegno sterminato, sperò
di ritornarlo a salute ricoverandosi, dopo lunga assenza, a Roma, nella fiducia
che là soltanto gli soffiasse quell'aere nativo, estremo rifugio delle vite per
cui l'arte medica non ha più consigli.
Tutto Cornelius, che alcuni esteti nostrali proclamarono
antistite dell'arte contemporanea, quand'era di moda non vedere e non sognar
che l'arte e la scienza germanica, e sotto la maschera della scuola e del gusto
cercavano onestare la colpevole adulazione e le maledette schiene curvate,
tutto Cornelius non è all'ultimo che un rivenditore eclettico dei tesori
raccolti a Roma.
Il sommo Delaroche, il più originale forse e il più perfetto
dei pittori contemporanei, giunse a vestire della più decorosa forma i nuovi
concetti per aver ripensato tutta la vita e Raffaello e Roma.
Che più? Una popolazione di giovani artisti di ogni lingua,
d'ogni nazione, sotto l'egida dell'arte, stornatrice dei sospetti clericali,
qui rappresentano la parte più eletta dell'umanità, o come espressione sincera
delle loro patrie progressive e liberali, o come eccezione gloriosa delle loro
patrie corrotte.
E in quella scienza della storia e dell'indagatrice
filologia, uomini d'ogni nazione dimenticano le origini e la storia delle loro
patrie, per cercare e rifar quella di Roma, e comparire in faccia al mondo
gloriosi di una dottrina che qui soltanto hanno trovato. Niebuhr s'innamora di
Roma e si sprofonda a perdita d'occhio nelle sue più remote origini, sotto la
scorta del romano Vulpio, tanto letto nel mondo quanto derubato, e men celebre
de' suoi saccheggiatori astuti.
Se non che tutti costoro stettero al cospetto di Roma, senza
speranza e senza fede, come al cospetto di un cadavere imbalsamato, ancor bello
e ancora coperto di porpora e di gemme. Alcuni anche vi stettero senza dolore,
e solo coll'intento d'involarne i tesori sotto specie d'ammirazione. E i più
generosi e sentimentali, come Byron e Chateaubriand, non manifestarono che un
dolore sterile e senza conforto.
Byron, chiamando Roma la Niobe delle nazioni, volle
conchiudere che non v'era speranza ragionevole di veder risorgere i suoi figli
saettati da un Dio nemico.
Chateaubriand, pur nello sfoggio del suo entusiasmo e di
poeta e di cristiano, al cospetto di Roma non fa che ripetere l'Inania regna
d'Isaia, e conchiudere declamando il Rem plenam miseriæ, spem beatitudinis
inanem, di S. Agostino.
Ma, dopo tutto, chi resta ultimo, a perder la speranza
vicino al letto del moribondo parente non è che il devoto consanguineo. Però ad
aver fede nella risurrezione di Roma è necessità essere uomini d'Italia. È già
molto che lo straniero rammenti con ammirazione il suo passato, e s'assida con
poetica commozione presso le sue rovine.
La teoria storica dell'impossibile risurrezione delle
nazioni tramontate può essere ammessa da chi trionfa nella massima piena della
fortuna; ma la respinge con sapiente orgoglio chi, caduto da alto, geme in non
meritata sventura.
Pure, tanti anni sono, gli stessi Italiani che deploravano
la patria infelice e divisa, allorchè visitavano Roma, se il pensiero della
giustizia e la forza del dolore generavano un qualche barlume di speranza, la
ragione calcolatrice degli ostacoli faceva sbollire ogni entusiasmo destato
dagli avanzi del passato e dall'idea che non indarno fosse pur rimasto ancor
tanto di tanta grandezza.
Quando i congressi scientifici non avevano ancor maturato il
frutto politico; quando, dopo la fatale dispersione dell'esercito del regno
d'Italia, la coccarda italiana stava ancora celata nel confidente scrigno di
qualche superstite veterano del Raab, e il tricolore italico non veniva ancora
trapuntato dalle generose lettrici dei canti patriottici del milanese Berchet;
e le cinque proverbiali giornate che lo dovevano per la prima volta far
sventolare in Italia, erano ancora in mente Dei; un giovane milanese, e a chi
scrive era ben noto, trovavasi precisamente a Trinità di Monti per godere lo
spettacolo di un tramonto romano; e mentre un artista andava additando l'antico
foro e il Campidoglio, e coi ruderi infranti ricostruiva a mano a mano la Roma
reale, la Roma repubblicana, la Roma imperiale, il giovane milanese, guardando
ora al cupolone di S. Pietro, che pareva nuotare in un oceano d'oro, ora al
Colosseo, che sorgeva gigante ma tristo e infranto e nella condizione di
un'architettonica cava di marmo: Ecco, disse, le due costruzioni più
gigantesche di mole e più sontuose d'ornato che mai siano sorte al mondo. In
nessuna parte della terra non v'è nulla che possa paragonarsi a questi due
edifizj, che sembrano rappresentare l'evo
antico e l'evo moderno. Peccato che il Colosseo rimanga smantellato a mezzo. La
grandezza romana, se ciò non fosse, rivivrebbe tutta in lui.
Così fosse affatto scomparso, esclamò allora con veemenza un
abate in mantelletta che per caso era là presente, che almeno non rimarrebbe
più traccia della feroce èra pagana e dei tanti martiri qui immolati agli dèi
bugiardi.
Ma perchè allora non v'è chi smantella il Vaticano? esclamò
il giovane milanese.
L'abate guardò stupito quel che così parlava; poi soggiunse
quasi gridando: Chi bestemmia così?
Nessuno bestemmia. Ma se volete distrutto il Colosseo, io vi
domando perchè si lasciano sussistere tante testimonianze dei delitti dei
pontefici? L'altro giorno mi fu mostrato un luogo dove Paolo II stava
ascoltando i gemiti delle migliaja di prigionieri stipati in castel
Sant'Angelo, onde il popolo atterrito dal notturno ululato ebbe a chiamar
questa mole per antonomasia il toro di Falaride ingigantito.
Queste parole provocarono una discussione tra quel giovane e
l'abate.
Da quanto avete detto, continuava il primo, mi accorgo che
hanno ragione que' dotti scrittori che della colpa d'aver smantellata Roma
assolvono e le invasioni, e i saccheggi, e i Barbari, perfino i cataclismi
naturali, i terremoti, e gl'incendj spontanei.
Chi dunque può aver fatto questo?
Il cristianesimo corrotto, la malvagità pretina, l'ignoranza
del popolo credenzone.
Mi piacerebbe sentire come si può far ora ad assolvere i
Barbari.
Col dirvi che i Barbari nel furore dell'avidità ben ponno
essersi attaccati all'oro, all'argento, alle gemme, al ferro, al rame, al
piombo, alle belle donne, a tutto ciò che volete, ma non alle colonne di
granito, non ai massi di travertino, non ai frontoni, agli attici, ai
capitelli. Già, tutta la storia delle rovine romane non a caso fu riassunta nel
Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini. Ma lasciando i Barbari, l'ultimo
sacco, che fu il più terribile di tutti e che durò tanto tempo e dischiuse una
tal voragine di miseria che ci vollero anni ed anni a porvi riparo, chi lo ha
voluto, chi lo tirò in casa? Rispondete a me adesso.
Vi rispondo col farvi una domanda. Di chi fu la colpa se in
quell'altro sacco?...
Qual è quest'altro sacco?
Quello del 1798. Quello che, sotto specie di protezione, di
beneficio, operarono i rivoluzionari di Francia e d'Italia. Di chi dunque fu la
colpa se le più stupende opere degli ultimi secoli adunate in Roma per la
magnificenza pontificia; se le più famose statue dell'antichità raccolte ne'
musei furono depredate e trasportate in Francia?
Il giovane milanese, che in tutte le storie contemporanee
aveva trovato intorno a quel fatto e relazioni e giudizj sempre
concordi, ed egli stesso non sapeva dar ragione a quanti storici e a quanti
uomini vituperarono le estorsioni, le rapine, le concussioni, i disordini
d'ogni maniera che avvennero di quel tempo in Roma, prima sotto Berthier, poi
sotto Massena, si trovò sconcertato a quella domanda improvvisa dell'abate; e
andava, tanto per non parer vinto, biascicando una risposta che però si
rifiutava ad uscir dalla bocca. Ma allora venne in suo soccorso l'artista che
in quel crocchio faceva da Cicerone per tutti.
Troppo spesso, prese dunque a dire colui, nelle storie molto
lodate e molto divulgate la verità si cerca e non si trova. Certo che quei
disordini sono avvenuti, certo che le concussioni furono fatte, certo che i
capolavori furono rubati; ma bisogna portarsi a quei tempi, ma bisogna
conoscere le nefandità che prepararono quelle vendette. Oggi non v'è, per esempio,
chi non chiami Pio VI e santo e martire. Ma dove si legge quel ch'egli fece
prima di toccare gli ottant'anni? Caro signor abate, ella è ancora giovane, e
poi non è alla segreteria, nè alla curia dove si legge la vita ai papi. Non è
alla curia dove si conoscono gl'insidiosi intrighi dei cardinali e dei vescovi
e degli altri prelati di tutti i colori... Ma cangiamo discorso, che se alcuno
riportasse le mie parole, anche nella mia condizione di cittadino francese,
potrebbero assassinarmi colla mordacchia; chè i sacerdoti di Cristo hanno
trovato il modo di superare la feroce antichità nel tormentare i galantuomini
quando manifestano opinioni contrarie a quel ch'essi vogliono. Discendiamo
dunque, che è disceso anche il sole, ed è scomparso dietro la palla di rame.
L'abate tacque. Discesero tutti. Strada facendo, l'artista,
che si diede a conoscere per un tal Baldani, emigrato lombardo fin dal 1814,
diventato suddito francese, e allora dimorante a Roma per collaborare a
un'opera sulle antichità romane che doveva uscire a Parigi, rivoltosi al
giovine milanese, gli disse che se voleva conoscere i segreti del tempo in cui
si piantò a Roma l'albero della libertà gli avrebbe fatto conoscere un
popolano, figliuolo di un tal Camillone di Trastevere, per mezzo del quale
avrebbe saputo quello che non c'è in tutte le storie.
E così fu fatto. L'architetto Baldani condusse il Milanese
in Trastevere e lo presentò al figlio già maturo dell'una volta famoso
Camillone; diciamo una volta famoso, perchè ora non v'è più chi lo nomini nè si
ricordi di lui; sebbene negli ultimi dieci anni del secolo passato abbia
rappresentato a Roma quella parte che Ciceruacchio rappresentò nei primordj del
fatale pontificato di Pio IX; ed abbia dettato in dialetto romano un curioso
diario dell'ingresso dei Francesi in Roma nel 1798, e di tutto quello che
avvenne colà in quel periodo famoso. Del qual diario il giovine milanese
ottenne di poter trascrivere gran parte.
Se non che di questo Camillone noi abbiamo cercato il nome
con insistenza in tutte le storie più o meno celebri che parlano delle cose
generali d'Italia a quel tempo e delle speciali di Roma, compresa la postuma di
Alessandro Verri, il quale, per aver dimorato tanti anni in quella città e per
essersi, per ciò che aspetta ai Francesi ed alla repubblica colà improvvisata,
diffuso in insoliti particolari, avrebbe potuto parlarne con più ragioni e con
più mezzi degli altri. Ma non ne abbiam trovato neppur un cenno fuggitivo, il
che ci sembrò tanto strano, che siamo venuti
perfin nel sospetto che fosse un'invenzione e l'uomo di Trastevere, almeno per
l'importanza che gli si volle dare, e il manoscritto, almeno per la sua
autenticità; chè a Roma è frequente la professione di vendere vesciche ai
forastieri che vanno a caccia di notizie e di scoperte. Ma, un mese fa,
rovistando in Biblioteca, abbiamo trovato un opuscolo stampato a Bologna nel
1800, relativo ai fatti di Roma, dove il Camillone di Trastevere è nominato in
lungo e in largo, e vi è rappresentato come l'uomo a cui l'autorità stessa
doveva ricorrere quando si voleva metter pace nella moltitudine, la quale in lui
solo avea fiducia. Questa scoperta distrusse tutti i nostri dubbj, e ci animò a
ricostruir questa parte dell'edificio, che quasi lasciavamo andar in ruina. Ed
ora il racconto quasi assume importanza di epopea; feconda epopea, perchè fu
nel 98 e in Roma, dove per la prima volta deliberatamente venne vibrato il
colpo che avrebbe potuto ferire a morte il nemico più formidabile dell'Italia,
che da tanti secoli si tormenta per ritrovare sè stessa e per riavere quel
posto che le si compete fra le nazioni; e perchè l'Italia presente dee guardare
quell'anno memorabile, non per ripeterlo, ma per emendarlo e compirlo; ma per
convincerci, che, finchè rimarrà il poter temporale al pontefice, la questione
italiana non sarà mai risoluta davvero; e anche nel caso che l'aspetto della
nostra nazione potesse presentare i segni della salute, in quel potere starà
chiuso il germe del morbo antico, pronto sempre
a pigliar forza dalle possibili occasioni, per prorompere più minaccioso e
funesto.
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