II
Pio VI e Pio VII, avendo usurpata una fama mille volte
superiore al merito, e comparendo al cospetto della storia in sembiante
di oppressi, di martiri, di eroi del cattolicesimo, riuscirono funestissimi
all'Italia, e furon cagione che si prolungassero nel mondo i falsi concetti
sulla natura e sui diritti del papato. Ma più ancora di Pio VI e Pio VII,
Napoleone fu quegli che imbrogliò il pubblico giudizio relativamente alle
quistioni della Chiesa, e consacrò nella maggior parte del mondo cristiano una
specie di mistica paura, che rese formidabile il re-pontefice; e nella
moltitudine, la quale si lascia sopraffare dalle catastrofi, depose la
persuasione che le basi del poter temporale fossero inconcusse. La luce della
ragione indipendente che, in sul finire del secolo passato, dai pensatori
solitarj era passata alle assemblee nazionali,
da queste agli eserciti, dagli eserciti alle popolazioni, si spense tutt'a un
tratto, per concentrarsi ancora nella chiusa lanterna d'alti pensatori
aspettanti con fiducia i tempi migliori. Bonaparte fu il gran colpevole. La
risoluzione ch'ei prese contro a Pio VI, ossia contro al poter temporale del
papa, quando nel 98 da Roma lo fece portare a Siena, invece di sembrare
al mondo, siccome era, il colpo deliberato della sapienza che, confederata alla
forza, voleva richiamare una istituzione degenerata alle sue origini primitive,
parve un'ingiustissima violenza, allorchè col concordato conchiuso nel primo
anno del secolo corrente egli mostrò, o di non aver saputo quel che si facesse,
o di pentirsi di quanto aveva fatto. Il mondo in quella fatale transazione
imparò a rispettare il poter temporale, al quale s'inchinò sempre
più quando vide Napoleone inchinarsi egli stesso al Chiaramonte, per poi
ritornare agli atti della prima violenza. Questa ineguaglianza di condotta fu
quella, lo ripetiamo, che imbrogliò il pubblico giudizio; perchè i disastri
sorvenuti e il grande eroe fulminato, nell'opinione del vulgo, parvero vendette
del cielo; e come ai tempi di Samuele e di Saulle, si riputò che Iddio avesse
colpito il re della terra che avea osato offendere il suo luogotenente.
Ma qual fu la causa di quella strana condotta di Bonaparte?
Quella causa stava intera nel pubblico europeo, che non tutto si era lasciato
persuadere dalla parola dei savj, perchè dieci anni non bastarono a mettere in
fuga i pregiudizj di dieci secoli, e perchè la rivoluzione delle idee non si
era attuata che alla superficie, senza penetrare nella carne, nelle ossa e
midollo delle moltitudini. Bonaparte ebbe dunque paura della gran massa del
pubblico, per conseguenza di quella sagacia che non gli permetteva d'illudersi
sulle apparenze. Ma la sagacia del tornaconto non è il genio magnanimo del
sacrificio; però i calcoli dell'ambizione gli consigliarono le transazioni,
sebbene gli sdegni naturali dell'uomo salito al massimo potere gli
consigliassero poi le violenze. Se non fosse stato ambizioso, non avrebbe avuto
paura della moltitudine, la quale, alla sua volta, nella imperterrita
continuità degli atti di lui, avrebbe trovata la riprova dei principj
annunziati dai pensatori, e avrebbe finito a liberarsi dai pregiudizj. Così il
pubblico corruppe l'uomo di genio, e questi, di rimando, rituffò il pubblico
negli errori secolari; così rimase interrotta la più radicale riforma che,
quando sarà adempiuta, sarà la più gran pagina della storia moderna.
Ma ritorniamo a Pio VI. Questo pontefice, essendo morto
ottantenne e in esiglio e inflessibile, trovò gli storici indulgenti fino ad
essere dissimulatori, fino ad essere bugiardi; trovò il pubblico europeo
disposto a non vedere in lui che un'altra vittima della prepotenza, un altro
martire glorioso del cattolicismo. E anche in ciò gli storici imitarono
Napoleone I; vogliam dire che anch'essi ebbero paura del pubblico e tacquero la
verità, la quale, se avessero adempito all'obbligo dell'indagine scrupolosa,
certissimamente lor si sarebbe data a conoscere. Or chi era Pio VI? ovvero sia:
chi era l'uomo che, sotto tal nome, doveva rappresentare una delle parti più
vistose del suo tempo? È subito risposto: Colui, se non fosse salito al potere,
sarebbe stato gettato alla rinfusa nel carnajo degli uomini più spregevoli.
La natura che fu avara seco delle doti della mente e del
cuore, volle invece essergli liberalissima di doni fisici. L'avvenenza fu la
sola qualità che in lui poteva valere, se fosse stato e rimasto un uomo
privato, a distinguerlo dagli altri. Ma di essa egli s'invaghì al punto, che
mal non si appose chi nel tempo ch'egli era semplice
vescovo, lo chiamò il Narciso mitrato. Adunque, persin la forma decorosa, che è
sempre un pregio, come è un beneficio della
cortese natura, trovò il modo di tramutarsi in lui, se non in un vizio, certo
in una debolezza vituperosa, e per l'eccessiva importanza ch'ei le diede, e più
di tutto perchè, accarezzata a quel modo, faceva uno scandaloso contrasto col
carattere ch'egli vestiva. Ma se questa tuttavia rimaneva una debolezza
facilmente condonabile, ben v'erano nello spirito di quell'uomo altre abitudini
assolutamente perverse. Egli era vano, invidioso, orgoglioso; e fin da quando
salì al vescovado, ossia fin da quando potè esercitare qualche autorità sui
soggetti, si mostrò bisbetico, oppressore, ingiusto. Per mancanze leggerissime
maltrattava coloro che avevano la dura sorte di servirlo o come prelati di camera
o come semplici domestici. Ma se un uomo
collerico è facile a dar corso agli impeti primi, egli non aveva poi quella
qualità che per consueto è il compenso degli uomini irascibili, la generosità
prontissima a riparar le ingiurie; bensì una volta che avesse punito qualcuno,
quand'anche se la verità fosse venuta a galla a mostrare l'innocenza del povero
malcapitato, egli faceva il sordo alla voce della giustizia, e lasciava che i
suoi atti di violenza avessero intero corso. Avvenne un giorno (ed egli era già
salito alla sedia pontificia) che uno de' suoi camerieri venisse accusato di
grave colpa. Pio VI precipitosamente, senza esame, senza processo, non solo lo
discacciò da sè, ma lo fece sottoporre ad una gravissima pena corporale. Ora
l'accusatore fu trovato bugiardo; che risultò evidentissima l'innocenza del
povero sventurato, e che, per necessità legale, lo si dovette rimetter libero.
Tuttavia Pio VI non pensò mai a ritornarlo alla sua prima condizione, e per
quanto colui avesse pregato e fatto pregare la Santità Sua, e messo Roma
sottosopra per ottenere una grazia, che infine non era che nuda giustizia, Pio
VI non ne volle sapere, ed avendogli detto taluno che quell'uomo per
l'insopportabile angoscia avrebbe potuto tentare qualche partito disperato, il padre
santissimo non si mosse punto a pietà; e quando gli venne riferito che colui si
era affogato nel Tevere, ascoltò quella notizia senza riscuotersi nè poco, nè
assai, e tosto si volse ad altro.
Di questi atti di vilissima crudeltà, il santissimo Pio VI ne
commise più d'uno.
Se non che, dopo quanto abbiam detto, sentiamo la necessità
di convalidare le accuse con delle testimonianze; le quali accuse sono di tale
enormità che, se, non avessimo avuto per testo che il Diario del citato
Camillone, gli avremmo quasi negato fede; o, per dir meglio, non l'avremmo
spinta al punto da farne un uso pubblico.
Ma la testimonianza del Camillone si trasmuta in valida
autorità, e perchè è appoggiata dalla testimonianza d'un altro, e perchè è
aiutata dalle qualità insigni di quest'altro appunto.
Esso è Alessandro Verri; la sede dove depose quella
testimonianza è la sua Storia delle vicende memorabili dal 1789 al 1801.
Nessuno speri però di trovarla nei due volumi usciti in luce
due anni sono; chè coloro i quali tennero il manoscritto dall'egregio nipote di
Alessandro, stettero intorno ad esso colla preoccupazione gelosa di chi
compilava i libri ad usum Delphini, e però non ebber cura che di amputare
crudelmente dal corpo del libro quella dozzina di pagine le quali si riferivano
appunto alla vita privata di Pio VI, pagine che per la novità inaspettata delle
notizie e per l'amore coraggiosissimo del vero onde venivan pôrte, risolvevansi
in quella che si chiama una rivelazione. Per caso però, anzi per cortesia
dell'editore-tipografo, noi abbiamo veduto quel manoscritto e lette quelle
pagine, e ne abbiam tenuto conto pel nostro libro. Ad ogni modo, preghiamo
coloro che operarono la barbara amputazione, a porvi riparo, col pubblicare in
seguito la parte espunta o nelle copie rimaste, o in una nuova edizione di
quella storia.
E questo nostro desiderio è tanto più caldo in quanto, non
avendo potuto serbare a memoria quelle pagine preziose, oggi siamo stati
costretti a limitarci all'unico fatto dianzi citato, il quale sta nel Diario di
Camillone; e ad omettere, per timore di alterarli in qualche parte, altri fatti
simili e peggiori che il Verri racconta distesamente.
Ora non v'è considerazione di sorta che valga a scemar fede
alle parole del Verri, chè anzi tutto concorre a comunicar loro una autorità
incontrovertibile, e perchè Alessandro Verri dimorò costantemente a Roma
durante il pontificato di Pio VI, e ha potuto conoscere di presenza tutti quei
fatti intimi che, sebbene importantissimi e di gran peso nelle valutazioni
storiche, pure sono di tal natura che non varcano sempre
il recinto della città, nè talora quello del palazzo; e sono poi gelosamente
mantenuti all'ombra da uomini interessati; e perchè il Verri era uomo
tutt'altro che avverso al potere pontificale; e del nuovo ordine di cose, che
procellosamente si annunziarono alla fine del secolo passato, era estimatore
severo e sospettoso e timoroso, e spesso anche denigratore; non per difetto
della sua mente, nè per mal animo, ma per il punto di vista a cui si trovò o si
pose per osservare la prospettiva che gli si svolgeva d'intorno; punto di vista
disadatto a comprenderla tutta e a giudicarla spassionatamente.
Però tanto più fa senso che un tal uomo, il quale si atterriva
ai pericoli di Roma e della santa Sede, abbia riferite tante cose
pregiudicievoli alla fama di Pio VI; ma tanto più anche bisogna convincersi
della verità di esse, quando si considerano le parole onde conchiuse la sua
relazione; parole che noi non possiamo ripetere testualmente, ma delle quali il
senso è precisamente questo: "Tale è la virtù della grazia divina, che di
un uomo (Pio VI) per sè stesso tanto spregievole ha saputo farne un eroe e un
martire del cattolicismo."
Ora, lasciando da un lato la grazia divina, alcuni
potrebbero dire che non sempre le debolezze,
le tristi abitudini, le colpe della vita privata possono impedire che un uomo
si faccia glorioso nel mondo; e a prova di ciò si potrebbero addurre esempj
cospicui della storia. Ma concedendo pure che questo sia possibile in cento
condizioni speciali della vita pubblica, come nella milizia, nella politica,
nelle scienze, nelle arti; non può assolutamente esser fattibile nella vita di
chi assume il nome di padre santo. In tutti i modi però siamo d'avviso che in
nessuna condizione chi è tristo nella vita privata, possa farsi veramente
grande in pubblico ed essere benemerito dell'umanità; chè ad onta degli esempj
della storia, mal citati perchè male interpretati, esplorando con profonda
sagacia nella vita degli uomini grandi, eziandio di coloro che, o per
prepotente invito delle circostanze, o per momentaneo errore di giudizio, o per
impeto di natura, poterono commettere qualche atto colpevole; nella vita furono
esperimentati continuamente buoni e miti e generosi; per la ragione, che è ben
più facile che le intime virtù si corrompano nell'attrito esterno degli uomini
e degli eventi, di quello che un'indole viziata si trasformi in virtù
quand'ella esce all'aperto.
E la vita pubblica di Pio VI viene appunto a prova di
questo; e negli anni in cui il pontificato stette sotto alla sua
amministrazione, il cristianesimo fu in Roma sempre
ingiuriato, al cattolicismo non si ebbe riguardo nè punto, nè poco; e soltanto
si sollecitarono i bassi interessi terreni, al segno che indirettamente la
santa Sede tentò di portar soccorso anche ai Turchi allorchè minacciarono di
rovina gli uomini che volevano le riforme invocate dalla civiltà.
Queste notizie e le altre che daremo ci serviranno di norma
quando si dovrà entrare in Roma cogli uomini della Francia e dell'Italia
rivoluzionaria. In quell'occasione, se avremo reso sempre
più evidente il fatto che Pio VI, ad onta de' suoi ottant'anni, non fu degno di
quella pietà onde si fece tanto scialacquo nelle storie; rispetteremo
rigorosamente il vero, pur narrando le enormità e di quei generali e di quei
soldati, per vedere come una perversa esecuzione di un disegno sapientissimo
rovinò le cose talmente che, spostandosi i termini e scambiandosi le sorti, chi
doveva essere condannato dal pubblico giudizio, fu al contrario chiamato
martire ed eroe.
Sul qual fondo procelloso e grande nel tempo stesso
compariranno alla lor volta i personaggi che per poco abbiamo abbandonati, a
proseguirvi un'azione, che loro malgrado dovrà respirare ed inspirarsi di
quella pubblica tempesta, e pigliare senza volerlo delle proporzioni non
indegne di quel suolo romano e delle sue memorie.
|