VI
Il terzo giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, nel
quale ricorreva l'anniversario dell'incoronazione di Pio VI, fu, a
significazione d'antitesi, dedicato invece alla solenne instaurazione della
repubblica romana.
I grandi ritorni della storia, esaltando l'immaginazione,
commuovono gli uomini ad insolito entusiasmo, anche allora che non arrecano
vantaggio. Se poi la grandezza si marita all'utile o alla speranza di
raggiungerlo, l'entusiasmo non ha più limiti. Un sublime delirio investe le
moltitudini, senza che occorra a ciò nè potenza di fantasia, nè straordinaria
squisitezza di sentimento. Quelli che insieme con noi nell'anno 1848 a Venezia
hanno visto balzar fuori di repente l'alato leone di sotto alle aquile
austriache, e l'antico stendardone risventolare davanti a San Marco, e i gondolieri
e i pescatori e i vecchioni di Canareggio e di San Pier di Castello comparire
in piazza colle vecchie stampe, tenute in serbo, effigiate di dogi, possono far
testimonianza più sicura di codesto fenomeno.
Per analogia dunque ognuno potrebbe immaginarsi, anche senza
che ci fosse attestato da testimonj di veduta, quale sia stata l'esaltazione
dei Romani il giorno in cui risalendo il corso di mille ottocento anni, si
trovarono a faccia a faccia col loro grande passato.
Quando diciamo i Ronani, ognuno lo pensa già, non vogliamo
dire tutti i Romani. Anzi bisogna fare l'esclusione quasi totale dei due
estremi della scala sociale; ossia della più alta gerarchia ecclesiastica e
civile, e dell'ultima feccia del popolaccio al di qua del Tevere, a cui quella
gerarchia medesima avea spesso ricorso per tentar di stornare con opere
scellerate i nuovi giorni.
A coloro poi bisogna aggiungere un'altra classe di Romani:
ed era quella costituita, in prima, da alcuni letterati ed eruditi di
professione, quali il Guattani, l'Orlandi, il Cicognini, ecc., ecc., uomini
innamorati del quieto vivere, del silenzio e del pranzo settimanale in casa
Braschi, in casa Albani, in casa Massimi: tutta gente che idolatrava Roma
antica nei libri, nelle lapidi, nelle monete, in tutto ciò che era morto; ma
non avrebbe mai fatto sacrificio di un solo pranzo per rivederla viva e
risorta; in secondo luogo, da altri letterati, chiari d'ingegno, e
galantuomini, e anche indipendenti da cardinali e da principi e da duchi, ma
non indipendenti da sè stessi e dai caparbj pregiudizj; tra costoro certamente
primeggiava il nostro Verri Alessandro, in molte cose tanto simile al fratello
Pietro, e in troppe altre così diverso; il quale Alessandro, ad onta delle sue
Notti Romane, avrebbe voluto veder ruinare tutta Roma, piuttosto che essere
spettatore dell'invasione ognora crescente delle idee rivoluzionarie.
Finalmente venivano alcuni artisti, architetti, scultori, pittori già saliti in
gran fama, e già adagiati nella ricchezza, e che dell'una e dell'altra eran
debitori alla protezione e del papa e dei cardinali e dei ricchi patrizj, tra'
quali si distingueva il celebre Mariano Rossi e il Tofanelli e il Nocchi
scolare del Battoni, e il Pacetti Vincenzo che, quantunque fosse un ottimo
uomo, avea sempre crollato la testa alle
notizie di Francia, e avea consigliato Canova, che non si fece molto pregare, a
cavarsela da Roma prima che arrivassero i tempi bruschi. Queste categorie
d'uomini non sentivano dunque l'esaltazione generale. Gli uni, o stavan celati,
o passeggiavano nelle vie remote, o tutt'al più, se erano sollecitati dalla
curiosità, traevano, sempre però a una
rispettosa distanza, dove traeva il pubblico schiamazzante, e guardavano e
notavano ogni cosa senza aprir bocca; o se l'aprivano a qualche evviva forzato,
era perchè s'accorgevano che qualcuno li guardava in cagnesco.
Pur, a dispetto di tutti costoro, rimanevano quanti
bastavano per affollar piazze e contrade, e per empir l'aria romana di
acclamazioni, di evviva, di grida. V'erano intanto tutti gli uomini di
Trastevere, nei quali il vecchio sangue latino è trapassato senza alterazioni
d'innesti spurj; uomini ignorantissimi di tutto quello che sta oltre la cerchia
romana, e che credon che il Tevere vada in Francia e in Inghilterra e in
America e in tutto il mondo conosciuto; ma perciò appunto orgogliosissimi di
esser romani. La storia della loro patria è per essi passata di bocca in bocca
attraverso a venti secoli, per raccogliersi e far sosta nel loro rione; onde
parlano ancora di Giulio Cesare, e Cicerone, e Catilina, e Bruto, e Catone, e
Pompeo come se fossero loro fratelli e li avessero visti a crescere, e avessero
bevuto con loro il falerno nell'anfora stessa; uomini che, per questa
parentela, sentono il privilegio di un'aristocrazia speciale e guardano d'alto
in basso quanti stranieri, comunque grandi e illustri, vanno per curiosità a
visitarli; e lor parlano col tu di Roma antica, e ad un bisogno, senza tanti
rispetti, anzi in atto di protezione, mettono loro sulle spalle le mani
poderose. "Come stai, re Michele?" diceva ai nostri giorni un beccajo
di Trastevere a don Miguel; e mentre con una mano gli batteva una spalla,
coll'altra gli porgeva l'ampia caraffa rasa d'orvieto; e accompagnava
quest'atto con tale posa e tale espressione di volto, che pareva dicesse: Io mi
degno di abbassarmi fino a te. Quest'ignoranza e questo costume non impedisce
però che essi abbiano acutissimo l'intelletto; e giova poi a conservar loro un
carattere intero, il quale, nella sua medesima fierezza, è spesso custode di nobili
affetti, della santità dell'amicizia, dello scrupolo della fede. I giovani
artisti, che anche allora, come adesso e come sempre,
mescolandosi a quella gente per gl'intenti dell'arte, erano i loro più intimi
amici, e però li avevan messi a parte di tutte le belle e grandi cose che
l'onda rivoluzionaria avrebbe portate in Roma, li trassero adunque entusiasti e
plaudenti sulle piazze. Quegli artisti, ad onta dei tempi burrascosi,
soverchiavano sempre le due e le tre migliaja,
e quantunque di tutte le città d'Italia: di Napoli, di Bologna, di Firenze, di
Venezia, di Milano, di Genova; e di tutte le nazioni d'Europa: di Russia, di
Spagna, d'Inghilterra, di Germania; pur dall'arte e dalla gioventù bollente e
dalle aspirazioni messe in comune eran ridotti come se fossero figli di una
patria sola, e seguaci di una sola bandiera. Essi bastavano a mettere
sottosopra tutta Roma, e con tanto più di esaltazione e quasi di furore, in
quanto che i pensionati delle accademie di Francia e tutti gli artisti di colà,
poco tempo prima, erano stati violentemente espulsi dal governo pontificio,
siccome fu già riferito. Duce degli uomini di Trastevere era il Camillone, il
Ciceruacchio d'allora; quello di cui teniamo parte del Diario, ch'egli dettò
per non saper scrivere; uomo tanto amato da quelli del suo rione, e perciò di
tanta autorità, che il governo stesso dovette più volte far capo a lui per
riuscire a sedare dei tumulti.
Fra gli artisti v'era il famoso Pinelli, giovanissimo
allora, ma già di fantasia così potente, così feconda e veloce
nell'improvvisazione di disegni istoriati, che quando voleva, lavorando in
piazza Navona sotto gli occhi del pubblico e dei tanti forastieri che
accorrevano a quello spettacolo per loro insolito, raccoglieva tante monete
d'oro e d'argento da empire il proprio cappello; oro e argento ch'egli
convertiva poi tosto in tante misure di vino; perchè la sua compiacenza e la
sua gloria era di poter dar da bere a tutto il popolo romano con luculliana
munificenza. Amico del Pinelli e amico del Camillone, i quali erano come i re
confederati di due schiatte diverse, era quel Corona giureconsulto, al quale
spontaneamente si trovarono uniti tutti i giovani avvocati e tutti gli
studenti, e tutti coloro che eran nati per andare avanti e per affrettarsi a
qualunque costo, anche con pericolo di stramazzare e fiaccarsi il collo.
Tutti costoro uniti insieme costituivano buonamente una
truppa di cinque o seimila persone, sufficienti, in qualunque città anche
popolatissima, a rappresentarla, a comunicarle la propria volontà e il proprio
impeto; e a condannare all'inazione e al silenzio tutti quelli che per
combinazione non dividessero cogli agitatori le opinioni correnti.
Fin dall'alba dunque del terzo giorno quella folla capitanata
dal Camillone, dal Pinelli e dal Corona, mosse festosa a piantare l'albero
della libertà nelle piazze principali di Roma.
Era da quasi due anni che sentivano a parlare con invidia
della nuova condizione delle città dell'alta Italia, e di Milano segnatamente;
della libera vita che vi si godeva, dell'utile delle nuove istituzioni, della
pubblica felicità, dei clubs, dei teatri, della libera stampa, dei discorsi in
piazza, dei nuovi costumi introdotti; e la fama, magnificando ed esagerando il
bene senza toccar punto del suo contrario, e dissimulando gli abusi, gli
eccessi, i disordini, aveva talmente esaltati i desiderj e le speranze di que'
cittadini, che quando finalmente le videro appagate, la loro gioja non ebbe più
ritegno e proruppe con un impeto che la stessa Milano non avea mai sorpassato.
Ma seguiamo l'onda del popolo, e fermiamoci con essa nel
foro romano per sentirvi il discorso che l'avvocato Corona improvvisò
nell'istante che si piantò colà, per la prima volta, la simbolica pianta coi
motti: libertà, eguaglianza, virtù, patria.
Colui, salito sopra un capitello corinzio rovesciato che
giaceva da tempo immemorabile tra la colonna di Foca e le tre della Curia, così
prese a dire:
"Romani, siete liberi. L'albero della libertà è
piantato. Libertà, eguaglianza, virtù, patria; ecco le quattro pietre su cui
s'appoggia a perpetua durata il sacro vessillo della comune nostra
rigenerazione.
"Libertà è questa, la quale non iscuote il ferreo giogo
della tirannia con altro fine che con quello di garantire a ciascun uomo i suoi
diritti naturali inalienabili.
"Eguaglianza è questa, la quale, santamente sprezzando
e privilegi e titoli, colla bilancia del diritto e della legge, eguaglia l'uomo
all'uomo; e non sa, non può, non vuole conoscere altra distinzione che quella
che passa tra il vizio e la virtù.
"Virtù è questa, la quale, divinizzando l'uomo, fa che
egli non trovi la felicità se non se nel far felice altrui; ond'è che l'uomo
veramente virtuoso si crede fatto più per la patria e pe' suoi simili che per
sè stesso.
"Patria è questa risorta a nuova vita.
"Virtù premiata, vizio disonorato, merito riconosciuto,
vanità cadente, verità svelata, ipocrisia vilipesa, innocenza sicura,
oppressione bandita, emblemi tirannici distrutti, umanità vendicata, giustizia
imparziale, santuario restituito all'antica purezza, genio marziale ridestato.
Ecco i frutti che oggi ne promette questa patria risorta.
"Falsi sacerdoti, superbi patrizj, tirannucci iniqui,
ipocriti maliziosi, impostori ignoranti, intendete qual libertà, quale eguaglianza,
quale virtù, qual patria servano di base al grande edificio della nostra
rigenerazione? E voi, anime timide e deboli, sentite quali sono le radici che
prodigiosamente alimenteranno la simbolica pianta?"
Queste parole, dette con enfasi e con quell'accento speciale
che significa la sincerità e la convinzione profonda di chi le pronuncia,
furono coperte da una salva di applausi e di viva la libertà, viva
l'eguaglianza, viva la repubblica, viva Roma.
"E viva Roma," continuò allora l'avvocato Corona,
approfittando di quel grido per dare una piega al discorso, e dalle generalità,
che parevan quasi divenute di convenzione, veniva a cose particolari e di
utilità più pratica ed evidente. "Viva Roma. Se, infatti, v'è città nel
mondo alla quale la rivoluzione attuale torna vantaggiosa di preferenza, è
questa appunto; è questa Roma, a cui davvero oggi comprendo perchè si competa
il predicato di eterna. Dopo l'avvilimento in cui la gettarono gli ultimi
pontefici; dopo la fuga ignominiosa di Annibale Albani, che fece parere i
Romani vilissime pecore; dopo l'ultima rotta del Senio, dove si raddoppiò
quella prima ignominia, qual posto potea vedere per sè nell'avvenire
quest'infelice città?
"O dirò meglio: che cosa sarebbe stato di lei, se gli
avvenimenti si fossero troncati di colpo; e se la fortuna, obbedendo alla
Provvidenza, non avesse fatto in modo che l'errore e il disordine e
l'ingiustizia nel proprio eccesso medesimo trovassero la morte? Pio VI
ricorrendo alle ambagi, alle subdole scaltrezze, al tradimento, nella speranza
di poter riuscire ad arrestare il corso fatale degli avvenimenti, e non potendo
ottener ciò colla forza del proprio potere, ossia colle proprie armi, ha messo
in evidenza che codesta larva di potere a cui i papi, dal giorno che tennero il
dono funesto dai re della terra e non dal cielo, stanno attaccati coll'avida e
gelosa cura onde gli avari guardano l'illegittimo tesoro, non è che
un'occasione perpetua di disordini, di ingiustizie, di viltà, di delitti, non è
che un potere che svela l'impotenza, e intacca la pura santità del Vangelo e
della Chiesa primitiva e dei primi pastori, i quali tengono il santissimo
mandato di guardare e provvedere alle anime e alle coscienze; ma non già ai
corpi, non agli interessi terreni, non all'uso della forza per respingere la
forza. Se fosse vero che la divinità avesse decretato che il suo rappresentante
in terra avesse a farsi temere coll'uso della forza materiale, avrebbe permesso
che i più degli altri monarchi fossero materialmente più forti di lui? Avrebbe permesso
che la maestà e la santità del re pontefice potesse rimaner vinta e avvilita
dall' altrui preponderanza?
"Ma lasciamo una tal questione a chi non parla in
piazza, ma scrive pei libri. Piuttosto dirò, che il vantaggio maggiore che
produsse la pessima condotta di Pio VI, fu di aver stancata la pazienza di chi
appunto era materialmente più forte di lui; e nel tempo stesso che era più
forte, era anche più pietoso dell'umanità conculcata, più vergognoso della
vergogna d'Italia, più innamorato della grandezza e della gloria di questa
Roma; e Italiano di avi e di nascita e d'intelletto e d'anima, ha sentito la
necessità di ajutare la sua vera patria sollevando il cuore di essa dall'incubo
assiduo, che, alterando la completa e libera e normale circolazione del sangue,
viziava e rendeva inette tutte le altre sue membra; perchè Roma, questa Roma
che fu l'urbe dell'orbe; questa Roma che, per antonomasia, fu chiamata la città
eterna; questa Roma che, ad onta della sua degradazione, è ancora la prima
città del mondo, o per dir più giusto, serba ancora intero il germe e le
condizioni del suo primato; questa Roma è veramente il cuore dell'Italia; onde
per far la cura dell'Italia non si dee far altro che ristorarne il cuore.
"O Romani, e voi uomini di Trastevere, nelle cui faccie
e nelle cui membra vedo rivivere l'antica saldezza, guardate ai miseri avanzi
di questo fòro romano; e se siete capaci, ricostruitevi in pensiero la solenne
maestà dei tanti edifizj che, sulle varie e graduate eminenze nei colli,
d'ogn'intorno un tempo gli facean corona; edifizj di marmo e d'oro, ciascuno
dei quali era la dimora di un nume, di un semidio,
di un eroe.
"Là in alto stavan gli edifizj dell'Arce Capitolina:
più sotto, in gradazioni succedevoli, il tempio di Giove Tonante e quel di Saturno;
qui nel mezzo era il cavallo gigantesco di Domiziano, e dietro, gli antichi
rostri; più in alto era il portico del Tabulario, sotto del quale stavano i due
templi di Vespasiano e della Concordia; e dietro all'arco di Settimio, nella
parte più eminente, il tempio di Giove Capitolino, che soprastava alla basilica
Emilia; e v'eran gli edifizj del Palatino e la Curia Giulia e la basilica
Giulia e il Miliario Aureo e la basilica di Costantino; e statue equestri, e
colonne commemoratrici, e bighe e quadrighe e sestighe trionfali... Ma se,
guardando le presenti rovine di questo fòro, dieci anni fa, due anni fa, un
anno fa, ripensavate con rammarico alla folla dei vostri gloriosi avi irruenti
a quei rostri famosi che ora non sono più; oggi è cessata la cagione del
rimpianto; un anno fa pareva impossibile in perpetuo il ritorno dell'antica
gloria di Roma; ma ora possiamo vedere in un futuro non remoto la prospettiva
rinnovata e accresciuta e migliorata della grandezza antica. Tutte le città
d'Italia, soli minori giranti in astronomica armonia intorno a questo massimo
sole di Roma, qui manderanno i loro figli più preclari di virtù, di operosità,
d'intelletto, di genio; qui si faranno le leggi; qui si tratterà della guerra e
della pace; qui si decreteranno le leve; qui si distribuiranno gli onori ai
generosi che saranno stati prodighi del loro sangue per l'indipendenza della
gloriosa nazione; e il pontefice intanto, ritirato a pregare nel suo Vaticano,
colle porte aperte, senza satelliti e senz'armati, benedirà e ringrazierà quel
Dio di cui ora è rappresentante indegno; lo benedirà e lo ringrazierà di aver
decretati gli avvenimenti che gli tolsero il potere e la forza materiale, per
fargli il dono più prezioso della venerazione dei popoli, i quali non
sentiranno più le coscienze contristate da colui che tiene il mandato di
consolarle.".
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