VIII
La confutazione più trionfante che si possa fare
all'asserzione di Botta, il quale, prestando volontieri la più cieca fede non
sappiamo a che falsi testimonj, non ebbe vergogna di stampare, che in tutta
Roma non v'era chi amasse veramente il nuovo ordine di cose, e che in essa non
si trovò che un solo democrata, il quale propose a Berthier di mettere in
libertà duemila condannati dell'ergastolo, per trovar gente che sapesse e, ben
pagata, volesse far festa all'ingresso delle armi repubblicane; la confutazione,
diciam dunque, più trionfante che si possa dare a codeste stolide menzogne sta
nella insolita esultanza che, instaurata la repubblica e partito il papa,
s'impadronì di tutta la popolazione di Roma, salvo le eccezioni che abbiamo già
fatto; salvo quei ricchi patrizj venuti in uggia al popolo, nelle cui case i
soldati si adagiarono come in caserma; salvo i pingui agenti dei prelati
fuggiti, nelle cui cantine la plebe di Trastevere penetrò a conquista e a
strage di botti.
Che la popolazione stesse queta fin tanto che il presidio
pontificio trovavasi sugli spaldi di castel Sant'Angelo e gli sgherri assassini
gironzavano per la città e le spie lavoravano d'olfatto come cani codianti la
lepre, è cosa naturalissima. Pretendeva forse il Botta che la popolazione di
Roma offrisse pronta il collo ai carnefici, per esibirgli i documenti del suo
odio al governo pretino, e delle sue ispirazioni all'aere libero che da più
mesi le ventava dal di fuori?
La prova che quell'esultanza, una volta che cessarono i
sospetti e le paure, diede fuori con tutti gli attributi della natura che non
può più nascondere un sentimento antico e tenuto per troppo tempo compresso, si
è che toccò tutti i suoi eccessi. Se non fosse stata sincera sarebbe stata
guardinga. Tutti i cittadini trovandosi dunque in piena balìa di dare sfogo
alla propria contentezza, questa nelle proprie manifestazioni si atteggiava e
si alterava e si modificava a seconda del carattere, del sentimento,
dell'ingegno, dell'immaginazione di ciascuno. Trattandosi d'instauramento di
repubblica, e di repubblica romana, i moltissimi a cui non è concessa
un'intelligenza privilegiata, attesero di preferenza a mettere in trionfo
piuttosto le forme repubblicane che la sostanza; attesero più ad evocare un
passato impossibile che a preparare con sapienza le nuove vie dell'avvenire. Si
trascurarono le grandi idee del sincero progresso, per rimettere in voga
teatralmente i nomi degli uomini e delle cose passate, e i costumi e le foggie
e i vestiti e le armi e le abitudini, senza accorgersi dell'improvvido e
assurdo anacronismo. Il primo a dare lo strano esempio
fu l'architetto Barbera, che comparve togato in pubblico, accompagnato dalle
sue tre figlie avvolte nel peplo, dichiarando di rinunciare da quell'ora alla
propria parentela, e di voler essere chiamato Ctesifonte.
Bastò quell'esempio perchè,
con una rapidità impossibile a qualunque impresario o coreografo o vestiarista
di teatro, si producesse per le vie e per le piazze la storia romana antica.
Coloro che credevano di assimigliare piuttosto a questo che a quel personaggio
dell'antichità, si mostravano in piazza ad arieggiarne il gesto, l'incesso, la
dignità. Chi aveva i capelli neri e crespi e la barba spessa, invadente le
guancie fin sotto gli occhi e vantava l'ampia persona, era Muzio Scevola, senza
tante titubanze; chi aveva la chioma fulva e foltissima oltre il consueto, e la
barba intera e inanellata, si nominava Lucio Vero, senza farsi pregare; si
videro Collatini e Lucrezie in buon dato; e Gracchi non pochi e Cornelie di
convenzione, e Clelie e Tullie e Tulliole con pepli indulgenti e coscie e
popliti in voluttuosa trasparenza, e braccia nude fin sopra la spalla. Di Bruti
poi, così della prima che della seconda qualità, ovverosia così di Giunii che
di Marchi, l'assortimento era così vario e numeroso, da poterne fare un emporio
per tutti i casi futuri. Ma, nemmeno a pagarli a peso d'oro, si sarebbe potuto
trovare nè un Giulio Cesare, nè un Augusto; erano merce proibita, e guai a cui
si fosse attentato di passeggiare in piazza tramutato in que' personaggi. Che
più? Allo stesso fondatore di Roma, che è tutto dire, non fu fatto buon viso; e
il primo Romolo che si lasciò vedere in piazza Navona, per la gran ragione di
essere stato il primo dei re, fu colto a fischi e preso a torsi di cavolo,
peggio di un tenore stonato; tanto che di tutta fretta rifugiatosi in una
bottega, e per di là passato a casa sua, ricomparve il giorno dopo in costume
di Mario. Nè codesta fantasmagoria rappresentata in piazza con intento serio e
colla ferma fiducia di onorare e puntellare e difendere la patria, deve parere
una cosa inverosimile ai lettori che vivessero nel 48, e furono a Milano e a
Venezia; e videro giustacuori e batticuli e maglie del Quattrocento; e tôcchi e
robe del Cinquecento; e gorgiere e mantellette e brache e stivali del
Settecento; e spadoni e manopole ed elmi tolti a polverose armerie.
Che se a Roma Marforio e Pasquino eccitavano la pubblica
ilarità, rivelando che il tale passeggiava in piazza portando l'elmo involato
alla guardaroba del teatro Valle o Tordinona, e che già avea posato sulla testa
del castrato Crescentini negli Orazj e Curiazj di Cimarosa, o nell'Attilio
Regolo di Jomelli; che il tal altro cingeva la spada cinta già dalla mima
Pitrot nelle Amazzoni del coreografo Ferlotti, ecc., ecc.: questi scandali si
rinnovarono precisamente ai giorni nostri, con qualche cosa di più saporito
ancora; perchè lo scrivente si ricorda benissimo di aver veduto un impresario,
nominatosi da sè stesso colonnello, passeggiare in piazza San Marco con spallini
dorati e galloni doppj e tripli, facendo battere sul lastrico la sciabola
stessa che pochi giorni prima al San Samuele aveva adoperato il conte
d'Almaviva per spaventare don Bartolo; e abbiamo visto un duce improvvisato di
trenta improvvisati eroi sedere al caffè coll'elmo crestato di un
Nabuccodonosor che già avea tuonato in teatro col Treman gl'insani di Verdi; ma
purtroppo codesti scandali che offendono la maestà dei grandi avvenimenti sono
malattie inevitabili dei popoli che, tenuti in lunghissima schiavitù, vengono
assaliti da una specie di capogiro nel respirare le prime aure della libertà;
come chi rimasto a lungo nell'oscurità della prigione, ha offesa la vista dalla
repentina luce, o avendo lo stomaco estenuato dall'imposto digiuno, sente sconvolgersi
dal primo vino a morbosa ubbriachezza. Ma il tempo e l'esperienza e i ripetuti
disinganni insegnano sapienza ai popoli, e gli errori del 96 e del 98 e del 48
saran forse per essere lezioni salutari, se il destino vorrà concederlo. Ma
tornando a Roma, e rifacendo settant'anni indietro il volo della mente, pur
troppo quella grande pagina, che la Provvidenza sembrò
voler preparare alla storia, fu deturpata ben da peggiori cose che da quelle
teatrali stranezze.
Abbiamo detto di voler dire intera la verità, e mettere in
palese le colpe di tutti, senza intenzioni partigiane. Perciò, se da noi fu
alzato il panno misterioso onde si vollero tener celate ai profani le vere sembianze
di Pio VI; se riputammo giusta e necessaria la condotta di Cervoni; se trovammo
indispensabile l'avere allontanato il papa da Roma; se riputiamo essere stato
una misura di giustizia, la quale se è assoluta dev'essere anche inesorabile,
l'avere arrestati tutti i cardinali, arcivescovi, vescovi e prelati che
componevano la romana corte, perchè complici tutti e cospiratori a danno della
nazione e dell'umanità; perchè interessati tutti a mantenere nell'ignoranza e
nella schiavitù le moltitudini, e a volerle piuttosto colpevoli e scellerate
che istrutte e felici; non è poi possibile comprimer l'indignazione pensando
che da questi atti giustissimi, quantunque severi, non si seppe cavar l'utile
che si doveva; nel tempo stesso però che la massima parte di questa
indignazione deve ancora andar a cadere sul papa e la sua corte e sull'assurda
istituzione del governo clericale. In fatti, da quel governo pauroso d'ogni
libero pensiero e della scienza multilatere e feconda, essendosi interdetto in
Roma ogni altro studio che non fosse la sterile erudizione, o alcuna di quelle
discipline che non hanno irradiazione sulla vita pratica nel momento di
assestare il nuovo ordine di cose, i migliori, chiamati al potere legislativo e
consultivo, tra' quali primeggiava l'archeologo Visconti, conoscendo poco il
presente e non curandosi affatto dell'avvenire, per disperazione si rifuggirono
nel passato, che era il solo loro dominio, e nel riprodurlo non seppero
atteggiarlo e piegarlo ai nuovi bisogni dell'umanità; ned ebbero riguardo alla
sostanza, la quale avea fatto la grandezza e la potenza degli antichi; ma
soltanto ai nomi, alle forme, alle apparenze; perciò nei quattordici titoli
della costituzione ricomparvero, come se fossero scavi archeologici e colonne e
statue infrante, il senato e il tribunato, e pretori consolari e questori e
edili: nomi che si guastarono con certe strane definizioni che derivavano da
una scienza impregnata di rettorica e d'Arcadia; onde il tribunato fu chiamato
l'immaginazione della Repubblica, e il senato la ragione della Repubblica. Il
primo dovea farsi un onore e un dovere di mandare le sue proposizioni al
secondo, acciò maturamente le ponderasse; onde tutti i giorni vedeansi i
messaggi che conducevano l'immaginazione a umiliare i suoi complimenti alla
ragione.
Ma ci voleva ben altro che forme e pompe e cerimonie
arcadiche; il mal governo papale aveva lasciato vuoto l'erario, e un abisso di
povertà e di miseria pubblica. Però i consoli che sapevano il greco e il latino
e tutte le vesciche della scolastica, non essendo mai stati assunti in addietro
ai pubblici impieghi, perchè questi stettero sempre
nelle mani dei preti, non seppero o, meglio, non poterono provvedere alla
mancanza delle derrate, del pane, delle cose più invocate dalla plebe affamata;
nè potendo far scaturire la moneta tanto necessaria alle pubbliche
contrattazioni, in prima pensarono di far fondere il vasellame d'oro e
d'argento che si trovava nei palazzi pontificj e in quelli dei cardinali,
poscia tutti gli utensili domestici di rame e le campane delle chiese degli
otto dipartimenti del nuovo Stato.
Questa deplorabile misura, che però era ingiunta da una
terribile necessità, e di cui, percorrendo la catena delle cause, si trova pur sempre
la prima cagione effettiva nel mal governo pontificale, sedusse al furto i
popolani chiamati ad operare quelle fusioni; sedusse al furto e al saccheggio i
soldati chiamati a far loro la guardia; sedusse e persuase i capi stessi
dell'esercito a prevenire quei furti con furti più colossali e vistosi per
conto proprio; e siccome quei capi seppero che di ciò si mandavano querele al
Direttorio, furono solleciti di spedire a Parigi i tesori dell'arte italica,
perchè lo splendore di quella sterminata preda abbagliasse gli occhi e
respingesse i rimproveri e trattenesse le punizioni.
Si tolsero a Roma, come ognuno sa, più di cinquanta fra le più
celebri statue dell'antichità;. tutti i busti famosi degli dèi e degli eroi
greci e romani; i più riputati capolavori di Raffaello e di Domenichino. La
qual preda rappresentava un valore medio valutato dagli esperti in cento
milioni di franchi; ma di cui il prezzo d'affezione era incalcolabile dalla
stessa immaginazione.
Se tanti disordini e malversazioni e depredazioni furono in
gran parte conseguenze inevitabili di cause antiche e funestissime, certo che
vennero accresciute dalla presenza di due uomini, di cui l'istinto rapace
pareva aver raggiunto i gradi della ferocia e della demenza. Codesti uomini
furono il commissario Haller, che essendo stato il primo a rubare
sfacciatamente, incoraggiò all'imitazione tutto l'esercito; poi il generale
Massena, che non aveva bisogno di essere incoraggiato, e che quando, partito
Berthier, rimase solo al comando e fu padrone delle casse pubbliche, da quella
piena balìa di sè stesso fu sedotto a scaricarle tutte in casa propria senza
tanti rispetti, tanto quella sua furibonda passione dell'oro non gli lasciava
pensare alle conseguenze. Queste infatti scoppiarono terribili; perchè i
soldati non ritraendo denaro, e gli ufficiali, avidi al par di Massena, non
sopportando di dover rimanere colle tasche vuote, condotti dal colonnello S...
(il conte Achille, che finalmente potremo conoscere di presenza, il quale,
rotto al giuoco e a cento altri disordini, era diventato furioso per la
mancanza di denaro), si radunarono nella rotonda del Panteon, e là, riscaldati
ed arringati da esso, invasero le stanze di Massena, che opponendo a quella
furia una furia ancor più tremenda e una ostinazione incrollabile e un coraggio
incredibile, corse pericolo che la sua piccola figura venisse tagliata in due
dalla sciabola del nostro S..., se non fosse stato strappato di là per forza
dal generale Marat.
Ma, dopo tutto, non creda il lettore che l'aspetto di Roma
fosse diventato squallido per queste cose; certo che furono frequenti i tumulti
del popolo; frequenti le vendette e le uccisioni; che la miseria c'era; e la
fame c'era. Ma la veste che copriva queste piaghe e queste ferite e questi
cenci continuava pur sempre ad essere di
porpora e d'oro. E per chiamar gente in Roma e mettere in circolazione qualche
denaro, e abbagliar quei di dentro e quei di fuori, si davano spettacoli d'ogni
sorta, spettacoli pomposi che rammentavano la grandezza antica. Per citar
quello che fece più senso, la notizia che, per la prima volta dopo tanti
secoli, si sarebbe aperto al pubblico l'Anfiteatro Flavio, per rappresentarvi
la morte di Giulio Cesare a piedi di quella medesima statua di Pompeo, che
aveva veduto estinto il vero Cesare, fece affluire gran gente in Roma da luoghi
anche lontani. Di codesto fatto noi non abbiamo trovato parole nè in Botta, nè
in Verri, nè in altri; ma il Camillone nel suo Diario si diffonde a parlarne
per molte pagine; e tra i celebri scrittori lord Byron è il solo che, in una
delle note eruditissime intorno a Roma, apposte al canto quarto del Child
Harold, parla di questo spettacolo, e della statua di Pompeo stata in
quell'occasione trasportata dal palazzo Spada nel Colosseo.
Anche noi dunque ce ne occuperemo, ma non tanto per
l'interesse che può destare in sè, quanto perchè, invitati da quella
circostanza straordinaria, il capitano Baroggi e donna Paolina S..., che
trovavansi a Bologna, si recarono a Roma, e furono, senza volerlo, gli
sventurati attori di una scena reale, la quale staccò l'attenzione di
trentamila spettatori dalla tragedia di Voltaire, per rivolgerla tutta su loro
e sul colonnello S...
Il fatal Dio pur degli Dei sgomento.
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