I
Siamo ancora in Roma, la città eterna; che consolazione! il
solo dolore è che non ci siamo che colla fantasia. O Roma, al pari e più di
Venezia, com'è naturale, tu fosti descritta e illustrata, e ben trattata e
maltrattata, e contraffatta e svisata da migliaja di scrittori. Degli eruditi
non parliamo; dal più al meno s'attennero al positivo e ai documenti; ma gli
scrittori-poeti! che scempio ne han fatto... ovvero sia, come si mostrarono
amanti infidi e bugiardi, forse per eccesso d'entusiasmo! L'ultimo dei
celeberrimi e dei più immaginosi fu Chateaubriand, il quale, di certo, col suo
largo pennello e co' suoi colori smaglianti ne ritrasse la prospettiva, lasciandone
sulla tela la macchia generale forse con più verità di tutti; ma nei
particolari, ma nelle considerazioni poetico-istoriche, quante falsità, quante
alterazioni, quante allucinazioni, crediamo, involontarie!
Allo scopo di esagerare, per l'amore delle antitesi, che
sono il delirio dei poeti, la decadenza materiale di Roma, incaricò persino il
Tevere di essere afflitto e di aver voluto ritirarsi, per la gran vergogna, in
un angolo della città, non d'altro occupato che di somministrare le sue acque,
che, sole, rimasero bionde come in antico, a lavare i lini sudici dei neonati
Quiriti. Ma noi ci siam recati a bella posta sul luogo, come un ingegnere di
campagna, per verificare co' nostri occhi se davvero il Tevere avesse assunto
le passioni e i dolori di un poeta sentimentale; ma possiamo assicurare che il
Tevere, nei diciotto secoli che sono decorsi, non ha fatto altro che rimanere
un fiume, e non sentì nessuna vergogna, forse presago del possibile
risorgimento della sua città; e non si ritirò in nessun angolo e non diventò
più piccolo. Visto dal ponte Elio e dal ponte Senatorio, è ancora il più
maestoso fiume d'Italia che attraversi una città. A ripa Grande, la selva delle
antenne e il biancheggiar delle vele e i fumi densi delle vaporiere lo fanno
parer davvero un porto di mare; il che è ben altra cosa dall'esser ridotto un
rigagnolo avvilito, non visitato che dalle lavandaje!
Diciam questo perchè quei che si impennarono alla idea di
dover portare la capitale a Roma, e la chiamarono un'idea stracca di rettorica
ammuffita, e una specie di regresso al paganesimo e al classicismo spento; e
credettero opporsi e vincer l'onda impetuosa di tutta Italia concorde nel
tendere le braccia affannate alla sua capitale, potrebbero inorgoglire e
fidarsi d'aver un confederato onnipotente in Chateaubriand, che vedeva anche il
Tevere impicciolito.
Ma Roma dissanguata dal malgoverno, nella sua terza parte
abitata ha ancora più di 200.000
persone; e in pochi anni, sotto il nuovo sole della libertà e
dell'indipendenza, espandendosi a riconquistare, per dir così, le parti
desolate, potrebbe toccare facilmente la popolazione di 600.000 anime. Ci pare che per una capitale
possa ben bastare. La popolazione di Londra, eguale a quella di tutta
Lombardia, è un'esagerazione inutile, e provocatrice di disordini non possibili
che in quella incondita vastità. Ma lasciando la popolazione, e trascurando
anche le maestose antichità che pur fecondano intelletto e cuore, quantunque a
molti, segnatamente a qualche ingegnere della città di Milano, sembrino
incomodi ingombri di utili spazj; in quante e quante cose Roma è superiore a
tutte le altre città d'Italia! Equidistante dai punti estremi d'Italia, essa,
per Civitavecchia, è in comunicazione diretta col Mediterraneo, che ritornerà,
per l'istmo di Suez, il gran lago storico romano, datore di ricchezze infinite.
È dunque vicina allo scalo marino per tutti i vantaggi che le possono derivare;
e ne è abbastanza lontana perchè, in una guerra o in un assalto fortuito, i
primi colpi non debbano toccare a lei.
Tutte queste cose, se possono andar bene anche adesso; se
andavano tanto bene ai tempi degli antichi Romani, che piantarono in quel sito
fatale le loro tende, perchè l'istinto felice e la sapienza spontanea loro fecero
comprendere che non v'era punto migliore per dominare da tutte le parti la
penisola della media e della bassa Italia; come ai Galli fece comprendere che
non v'era punto migliore del sito di Milano, benchè dalla natura paresse in
ispecial modo maledetto; perchè, diciamo, non dovranno andar meglio in un
prossimo avvenire, quando, per le ferrovie, dal Po al Tevere si volerà in un
giorno? Ma la questione è così chiara, è così nettamente veduta da tutti, è
così risoluta, che non sappiamo perchè noi l'abbiamo ritentata ancora; se non
fosse che, trovandoci in Roma, il discorso doveva cadere spontaneamente su
Roma, prima di recarsi al Colosseo dove uno spettacolo insolito, dopo quasi sei
secoli che non se ne davan più in quell'anfiteatro, chiamò da tutte le vicinanze
dell'eterna città, e da altre città d'Italia, una folla infinita di popolo
italiano, invitata, anzi attratta per quell'occasione, anche allora, come
adesso, a respirare in quella luce, in illa luce, per ripetere il motto di
Cicerone, un'aura più libera, più forte e più feconda.
Il lettore conosce per qual ragione entriamo nel Colosseo e
ci occupiamo di descrivere l'ultimo spettacolo che là siasi dato.
Il giorno 17 ottobre dell'anno 1798, intorno alle ore
ventuna, tutta la città pareva che si fosse versata nelle adjacenze del
Colosseo. Una compagnia drammatica francese, diretta dal capocomico Rosier, di
quelle compagnie che fiutano da tutte le parti la pubblica passione, per
atteggiarsi a quella, e saziarla, e cavar denari e applausi anche senza il prestigio
di una grande abilità, aveva ottenuto dal generale Massena il permesso di
rappresentare nel recinto dell'anfiteatro Flavio La morte di Cesare, di
Voltaire. Tutto fremeva di repubblica allora; chi avesse osato manifestare
delle simpatie monarchiche, sarebbe stato pugnalato in piazza. Lo stesso
Bonaparte, che, fremente, chiudeva in sè l'esagerazione del dispotismo, pur
s'inchinava al simbolico berretto, e gridava repubblica anch'esso; che, chi
vuol dominare la moltitudine, comincia dall'accarezzarla e accontentarla in
tutto, col sistema onde i seduttori blandiscono le amanti, per ottenerle, e
disprezzarle dopo, se mai dà il caso. Se dunque fra le tragedie di Voltaire,
allora tanto in voga, fu scelta La morte di Cesare, la cosa è naturale. Non ci
poteva essere argomento più di quello adatto all'onda dei tempi e alla pubblica
aspirazione.
Peccato che Voltaire, dopo aver usufruttato Shakespeare e
spogliatolo di tutto, abbia avuta tanta malizia di gettare a piene mani il
disprezzo su quel barbaro che non mancava d'ingegno, onde la tragedia
originale, mal nota al pubblico, fu riposta negli scaffali, e l'imitazione
scaltra ma servile, ma guasta dal convenzionalismo, non permise che il pubblico
assistesse alla rappresentazione del capolavoro del sommo Inglese. Che
spettacolo grande e compiuto sarebbe stato! Come Roma antica, per quel miracolo
di poetica divinazione, sarebbe riapparsa viva e vera e moventesi, agli occhi
degli spettatori!
Nell'anno 1798 il Colosseo era nella più deplorabile
condizione di un monumento rovinato nella massima parte, e che minaccia di
rovinare anche nelle parti superstiti. La prima scarpa che fermò la grande
muraglia rimasta intatta, non fu eseguita che nel 1805 per volontà di Pio VII;
l'altra venne ordinata da Leone nel 1813. Tutta la parte esterna adunque, che
anche oggi permette di misurare l'altezza di quell'edificio unico al mondo,
abbandonata a sè stessa, faceva paura a' riguardanti, perchè visto da lontano e
dal basso in profilo, non parea vero che quell'enorme paravento di trentatrè
archi a tre piani, a non contare l'attico gigantesco, non dovesse crollare da
un momento all'altro. La descrizione del Colosseo, così in istato di rovina,
come negli studj architettonici che ne porgono il ristauro completo, venne
fatta da tanti scrittori, tante volte e in tanti modi, che ci par tempo gettato
il rifarla oggi per quei pochi lettori che in proposito non sapessero nulla.
Soltanto ripeteremo quello che fu detto da coloro che si recarono a visitare
quel prodigio architettonico dell'antichità; che cioè, per quanto uno ne abbia
un'aspettazione immensa, essa è sempre di gran
lunga superata dallo stupore che colpisce anche l'uomo il più freddo e più
preparato.
Per darne un'idea a chi non l'avesse mai veduto, basti il
dire, che osservando la parte superstite, dall'esterno e dal basso, l'occhio
difficilmente arriva al fastigio; che ciascuno dei grandi archi (e degli
ottantasette non ne son rimasti che trentatrè) è d'un terzo più alto della
porta maggiore dell'Arena milanese; che con questi archi s'innalzano tre piani
a diversi ordini, dorico, jonico, corinzio; e che l'attico coi clipei è alto
quanto ciascuno degli altri piani; tanto che si può asserire, che l'Arena
milanese ripetuta in altezza sei volte, appena darebbe l'altezza del Colosseo.
Quando, in fantasia, si arriva a immaginare il ristauro
completo di questa mole, e si ricostruiscon in mente gli ottantasette archi
completi, e le colonne dorate del secondo e del terzo piano, e le statue d'oro
che posavano in mezzo a ciascuna di quelle arcate; e nell'interno la fuga delle
gradinate dal basso in alto delle tre precinzioni; colle pareti del podio tutte
rivestite di marmo, e i baltei, che dividevano le precinzioni stesse, tutti
coperti di smalto e d'oro e di gemme,
Balteus en
gemmis, en illita porticus auro, etc.
e al sommo della cavea un portico tutto a colonne, e statue
di marmo bianco, e di porfido, e di verde antico, e di bronzo dorato, disposte
sparsamente lungo i baltei; e vasi e tripodi diffondenti odori di essenze
bruciate;... davvero che la mente calma si rifiuterebbe a dar fede al volo
della fantasia, se i poderosi avanzi non fossero un documento fedele per le
indagini dell'arte e della scienza.
Ma lasciando la fantasia e gli splendori antichi per venire
agli avanzi presenti, è certo che torna assai più difficile descriver questi
che quelli; perchè l'arte completa ha misure e contorni e linee e forme
determinate; mentre i disastri del tempo, e della barbarie, e degli
smantellamenti, e dei cataclismi lasciano un tal disordine caotico, che s'invola
ad ogni descrizione precisa.
Al tempo in cui nel Colosseo si rappresentò La morte di
Cesare di Voltaire, il disordine era ancora maggiore. In molti spazj interni,
dove le cavee e le gradinate eran cadute nella massima rovina, i monaci,
custodi dell'edificio, avevano coltivato e broli e giardini, e innalzate
capannuccie e pagliaj. Se non che tutti questi ingombri, che parevan voler
nascondere l'origine e la destinazione dell'anfiteatro, vennero fatti
scomparire dall'appaltatore dello spettacolo. Così furon poste gradinate di
legno dove quelle di sasso non eran più servibili in verun modo; così con
drappi e sostegni e pulvinari si resero ancora praticabili le gradinate più
basse del lato dell'edificio men rovinato.
Allorchè il pubblico penetrò nell'anfiteatro, e venne quel
momento vicinissimo alla rappresentazione, in cui tutte le parti occupabili si
videro gremite di gente; certo che, se la architettura non aveva a lodarsi di
quelle rovine, la pittura non poteva trovare spettacolo più fantastico, più grandioso,
più vario, più strano di quello. Nelle prime gradinate più vicine al circo,
dove Bruto doveva congiurare contro Giulio Cesare, v'erano le gerarchie
militari del presidio comandato da Massena. Generali, colonnelli,
capi-squadroni; dragoni, usseri, artiglieri, granatieri; già s'intende la sola
ufficialità; perchè la repubblica democratica, è aristocratica al par di
chicchessia. Presso gli ufficiali, e insieme con essi, le matrone e le donne
romane della classe più elevata; ma di quelle che, o per amore di sè stesse, o
per inclinazione agli alunni di Marte, che, guerrescamente gentili, avevano
invaso tutte le case, o per una tendenza spontanea alla libertà pubblica e
privata, avevano applaudito all'ingresso delle armi repubblicane in Roma; e
tutte in costume press'a poco come le tre dive che abbiam ammirato nei
palchetti del Teatro alla Scala, in occasione del ballo del papa. Mescolati ai
soldati ed insieme colle donne, i buoni mariti borghesi, coi capelli alla
Brutus sulla fronte e sul ciglio; coi cravattoni nascondenti mento e orecchio,
e colla gran coccarda sul cappellone tondo. In altra parte, per far contrasto,
uomini e donne di Frascati e d'Albano e di Tivoli, coi loro costumi
invariabili; e altrove le Trasteverine coi loro uomini in giacchetta di velluto
e le faccie in cagnesco; una folla poi di ragazzi seminudi,
a dispetto dei custodi, in quel parapiglia, s'erano introdotti ed erano iti ad
arrampicarsi sulle parti più alte dell'edifizio. In mezzo a tutta questa
moltitudine variopinta, un venti o trenta di que' cari originali, che
comprendendo meno di tutti, sembrano i più
caldi e fanatici di tutti, vestivano, come dicemmo, in costume di antichi
Romani, e facendo da Collatino e da Muzio Scevola e da Curzio, parevano aver la
speciale incombenza di ravvicinare in quel recinto le distanze di venti secoli.
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