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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOTERZO
    • I
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I

Siamo ancora in Roma, la città eterna; che consolazione! il solo dolore è che non ci siamo che colla fantasia. O Roma, al pari e più di Venezia, com'è naturale, tu fosti descritta e illustrata, e ben trattata e maltrattata, e contraffatta e svisata da migliaja di scrittori. Degli eruditi non parliamo; dal più al meno s'attennero al positivo e ai documenti; ma gli scrittori-poeti! che scempio ne han fatto... ovvero sia, come si mostrarono amanti infidi e bugiardi, forse per eccesso d'entusiasmo! L'ultimo dei celeberrimi e dei più immaginosi fu Chateaubriand, il quale, di certo, col suo largo pennello e co' suoi colori smaglianti ne ritrasse la prospettiva, lasciandone sulla tela la macchia generale forse con più verità di tutti; ma nei particolari, ma nelle considerazioni poetico-istoriche, quante falsità, quante alterazioni, quante allucinazioni, crediamo, involontarie!

Allo scopo di esagerare, per l'amore delle antitesi, che sono il delirio dei poeti, la decadenza materiale di Roma, incaricò persino il Tevere di essere afflitto e di aver voluto ritirarsi, per la gran vergogna, in un angolo della città, non d'altro occupato che di somministrare le sue acque, che, sole, rimasero bionde come in antico, a lavare i lini sudici dei neonati Quiriti. Ma noi ci siam recati a bella posta sul luogo, come un ingegnere di campagna, per verificare co' nostri occhi se davvero il Tevere avesse assunto le passioni e i dolori di un poeta sentimentale; ma possiamo assicurare che il Tevere, nei diciotto secoli che sono decorsi, non ha fatto altro che rimanere un fiume, e non sentì nessuna vergogna, forse presago del possibile risorgimento della sua città; e non si ritirò in nessun angolo e non diventò più piccolo. Visto dal ponte Elio e dal ponte Senatorio, è ancora il più maestoso fiume d'Italia che attraversi una città. A ripa Grande, la selva delle antenne e il biancheggiar delle vele e i fumi densi delle vaporiere lo fanno parer davvero un porto di mare; il che è ben altra cosa dall'esser ridotto un rigagnolo avvilito, non visitato che dalle lavandaje!

Diciam questo perchè quei che si impennarono alla idea di dover portare la capitale a Roma, e la chiamarono un'idea stracca di rettorica ammuffita, e una specie di regresso al paganesimo e al classicismo spento; e credettero opporsi e vincer l'onda impetuosa di tutta Italia concorde nel tendere le braccia affannate alla sua capitale, potrebbero inorgoglire e fidarsi d'aver un confederato onnipotente in Chateaubriand, che vedeva anche il Tevere impicciolito.

Ma Roma dissanguata dal malgoverno, nella sua terza parte abitata ha ancora più di 200.000 persone; e in pochi anni, sotto il nuovo sole della libertà e dell'indipendenza, espandendosi a riconquistare, per dir così, le parti desolate, potrebbe toccare facilmente la popolazione di 600.000 anime. Ci pare che per una capitale possa ben bastare. La popolazione di Londra, eguale a quella di tutta Lombardia, è un'esagerazione inutile, e provocatrice di disordini non possibili che in quella incondita vastità. Ma lasciando la popolazione, e trascurando anche le maestose antichità che pur fecondano intelletto e cuore, quantunque a molti, segnatamente a qualche ingegnere della città di Milano, sembrino incomodi ingombri di utili spazj; in quante e quante cose Roma è superiore a tutte le altre città d'Italia! Equidistante dai punti estremi d'Italia, essa, per Civitavecchia, è in comunicazione diretta col Mediterraneo, che ritornerà, per l'istmo di Suez, il gran lago storico romano, datore di ricchezze infinite. È dunque vicina allo scalo marino per tutti i vantaggi che le possono derivare; e ne è abbastanza lontana perchè, in una guerra o in un assalto fortuito, i primi colpi non debbano toccare a lei.

Tutte queste cose, se possono andar bene anche adesso; se andavano tanto bene ai tempi degli antichi Romani, che piantarono in quel sito fatale le loro tende, perchè l'istinto felice e la sapienza spontanea loro fecero comprendere che non v'era punto migliore per dominare da tutte le parti la penisola della media e della bassa Italia; come ai Galli fece comprendere che non v'era punto migliore del sito di Milano, benchè dalla natura paresse in ispecial modo maledetto; perchè, diciamo, non dovranno andar meglio in un prossimo avvenire, quando, per le ferrovie, dal Po al Tevere si volerà in un giorno? Ma la questione è così chiara, è così nettamente veduta da tutti, è così risoluta, che non sappiamo perchè noi l'abbiamo ritentata ancora; se non fosse che, trovandoci in Roma, il discorso doveva cadere spontaneamente su Roma, prima di recarsi al Colosseo dove uno spettacolo insolito, dopo quasi sei secoli che non se ne davan più in quell'anfiteatro, chiamò da tutte le vicinanze dell'eterna città, e da altre città d'Italia, una folla infinita di popolo italiano, invitata, anzi attratta per quell'occasione, anche allora, come adesso, a respirare in quella luce, in illa luce, per ripetere il motto di Cicerone, un'aura più libera, più forte e più feconda.

Il lettore conosce per qual ragione entriamo nel Colosseo e ci occupiamo di descrivere l'ultimo spettacolo che siasi dato.

Il giorno 17 ottobre dell'anno 1798, intorno alle ore ventuna, tutta la città pareva che si fosse versata nelle adjacenze del Colosseo. Una compagnia drammatica francese, diretta dal capocomico Rosier, di quelle compagnie che fiutano da tutte le parti la pubblica passione, per atteggiarsi a quella, e saziarla, e cavar denari e applausi anche senza il prestigio di una grande abilità, aveva ottenuto dal generale Massena il permesso di rappresentare nel recinto dell'anfiteatro Flavio La morte di Cesare, di Voltaire. Tutto fremeva di repubblica allora; chi avesse osato manifestare delle simpatie monarchiche, sarebbe stato pugnalato in piazza. Lo stesso Bonaparte, che, fremente, chiudeva in l'esagerazione del dispotismo, pur s'inchinava al simbolico berretto, e gridava repubblica anch'esso; che, chi vuol dominare la moltitudine, comincia dall'accarezzarla e accontentarla in tutto, col sistema onde i seduttori blandiscono le amanti, per ottenerle, e disprezzarle dopo, se mai il caso. Se dunque fra le tragedie di Voltaire, allora tanto in voga, fu scelta La morte di Cesare, la cosa è naturale. Non ci poteva essere argomento più di quello adatto all'onda dei tempi e alla pubblica aspirazione.

Peccato che Voltaire, dopo aver usufruttato Shakespeare e spogliatolo di tutto, abbia avuta tanta malizia di gettare a piene mani il disprezzo su quel barbaro che non mancava d'ingegno, onde la tragedia originale, mal nota al pubblico, fu riposta negli scaffali, e l'imitazione scaltra ma servile, ma guasta dal convenzionalismo, non permise che il pubblico assistesse alla rappresentazione del capolavoro del sommo Inglese. Che spettacolo grande e compiuto sarebbe stato! Come Roma antica, per quel miracolo di poetica divinazione, sarebbe riapparsa viva e vera e moventesi, agli occhi degli spettatori!

Nell'anno 1798 il Colosseo era nella più deplorabile condizione di un monumento rovinato nella massima parte, e che minaccia di rovinare anche nelle parti superstiti. La prima scarpa che fermò la grande muraglia rimasta intatta, non fu eseguita che nel 1805 per volontà di Pio VII; l'altra venne ordinata da Leone nel 1813. Tutta la parte esterna adunque, che anche oggi permette di misurare l'altezza di quell'edificio unico al mondo, abbandonata a stessa, faceva paura a' riguardanti, perchè visto da lontano e dal basso in profilo, non parea vero che quell'enorme paravento di trentatrè archi a tre piani, a non contare l'attico gigantesco, non dovesse crollare da un momento all'altro. La descrizione del Colosseo, così in istato di rovina, come negli studj architettonici che ne porgono il ristauro completo, venne fatta da tanti scrittori, tante volte e in tanti modi, che ci par tempo gettato il rifarla oggi per quei pochi lettori che in proposito non sapessero nulla. Soltanto ripeteremo quello che fu detto da coloro che si recarono a visitare quel prodigio architettonico dell'antichità; che cioè, per quanto uno ne abbia un'aspettazione immensa, essa è sempre di gran lunga superata dallo stupore che colpisce anche l'uomo il più freddo e più preparato.

Per darne un'idea a chi non l'avesse mai veduto, basti il dire, che osservando la parte superstite, dall'esterno e dal basso, l'occhio difficilmente arriva al fastigio; che ciascuno dei grandi archi (e degli ottantasette non ne son rimasti che trentatrè) è d'un terzo più alto della porta maggiore dell'Arena milanese; che con questi archi s'innalzano tre piani a diversi ordini, dorico, jonico, corinzio; e che l'attico coi clipei è alto quanto ciascuno degli altri piani; tanto che si può asserire, che l'Arena milanese ripetuta in altezza sei volte, appena darebbe l'altezza del Colosseo.

Quando, in fantasia, si arriva a immaginare il ristauro completo di questa mole, e si ricostruiscon in mente gli ottantasette archi completi, e le colonne dorate del secondo e del terzo piano, e le statue d'oro che posavano in mezzo a ciascuna di quelle arcate; e nell'interno la fuga delle gradinate dal basso in alto delle tre precinzioni; colle pareti del podio tutte rivestite di marmo, e i baltei, che dividevano le precinzioni stesse, tutti coperti di smalto e d'oro e di gemme,

Balteus en gemmis, en illita porticus auro, etc.

e al sommo della cavea un portico tutto a colonne, e statue di marmo bianco, e di porfido, e di verde antico, e di bronzo dorato, disposte sparsamente lungo i baltei; e vasi e tripodi diffondenti odori di essenze bruciate;... davvero che la mente calma si rifiuterebbe a dar fede al volo della fantasia, se i poderosi avanzi non fossero un documento fedele per le indagini dell'arte e della scienza.

Ma lasciando la fantasia e gli splendori antichi per venire agli avanzi presenti, è certo che torna assai più difficile descriver questi che quelli; perchè l'arte completa ha misure e contorni e linee e forme determinate; mentre i disastri del tempo, e della barbarie, e degli smantellamenti, e dei cataclismi lasciano un tal disordine caotico, che s'invola ad ogni descrizione precisa.

Al tempo in cui nel Colosseo si rappresentò La morte di Cesare di Voltaire, il disordine era ancora maggiore. In molti spazj interni, dove le cavee e le gradinate eran cadute nella massima rovina, i monaci, custodi dell'edificio, avevano coltivato e broli e giardini, e innalzate capannuccie e pagliaj. Se non che tutti questi ingombri, che parevan voler nascondere l'origine e la destinazione dell'anfiteatro, vennero fatti scomparire dall'appaltatore dello spettacolo. Così furon poste gradinate di legno dove quelle di sasso non eran più servibili in verun modo; così con drappi e sostegni e pulvinari si resero ancora praticabili le gradinate più basse del lato dell'edificio men rovinato.

Allorchè il pubblico penetrò nell'anfiteatro, e venne quel momento vicinissimo alla rappresentazione, in cui tutte le parti occupabili si videro gremite di gente; certo che, se la architettura non aveva a lodarsi di quelle rovine, la pittura non poteva trovare spettacolo più fantastico, più grandioso, più vario, più strano di quello. Nelle prime gradinate più vicine al circo, dove Bruto doveva congiurare contro Giulio Cesare, v'erano le gerarchie militari del presidio comandato da Massena. Generali, colonnelli, capi-squadroni; dragoni, usseri, artiglieri, granatieri; già s'intende la sola ufficialità; perchè la repubblica democratica, è aristocratica al par di chicchessia. Presso gli ufficiali, e insieme con essi, le matrone e le donne romane della classe più elevata; ma di quelle che, o per amore di stesse, o per inclinazione agli alunni di Marte, che, guerrescamente gentili, avevano invaso tutte le case, o per una tendenza spontanea alla libertà pubblica e privata, avevano applaudito all'ingresso delle armi repubblicane in Roma; e tutte in costume press'a poco come le tre dive che abbiam ammirato nei palchetti del Teatro alla Scala, in occasione del ballo del papa. Mescolati ai soldati ed insieme colle donne, i buoni mariti borghesi, coi capelli alla Brutus sulla fronte e sul ciglio; coi cravattoni nascondenti mento e orecchio, e colla gran coccarda sul cappellone tondo. In altra parte, per far contrasto, uomini e donne di Frascati e d'Albano e di Tivoli, coi loro costumi invariabili; e altrove le Trasteverine coi loro uomini in giacchetta di velluto e le faccie in cagnesco; una folla poi di ragazzi seminudi, a dispetto dei custodi, in quel parapiglia, s'erano introdotti ed erano iti ad arrampicarsi sulle parti più alte dell'edifizio. In mezzo a tutta questa moltitudine variopinta, un venti o trenta di que' cari originali, che comprendendo meno di tutti, sembrano i più caldi e fanatici di tutti, vestivano, come dicemmo, in costume di antichi Romani, e facendo da Collatino e da Muzio Scevola e da Curzio, parevano aver la speciale incombenza di ravvicinare in quel recinto le distanze di venti secoli.




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