II
Il palco scenico, dove gli attori della compagnia Rosier
dovevano declamare stentoreamente i versi di Voltaire, per farsi sentire da chi
stava sulle più alte gradinate, non era che un impalcato di forma ellittica,
inscritto nella proporzione di due terzi nell'ellissi dell'anfiteatro. Era
dunque un palco che si vedeva da tutti i lati, senza siparj, senza scenarj,
senza nulla di tutto ciò che, comunemente, costituisce un palco scenico. Bensì
quell'impalcato, dovendo rappresentare il Campidoglio, aveva delle gradinate di
legno, e dei portici rivestiti di tela imitante il marmo, e sotto agli archi,
delle statue con pallj di canovaccio spalmati di gesso e di creta. Gli attori
dovevano aggirarsi tra quei portici, intorno a quelle statue, discendere da
quelle gradinate. Per verità che c'era qualche cosa di nuovo, e, se vogliamo,
anche di più naturale del solito. La cosa poi che più di tutto giovava a
crescere quel che si chiama l'illusione teatrale, e a ravvicinare più che mai
il finto al vero, era la statua colossale di Pompeo, quella veramente, ai piedi
della quale, come voleva e vuol la fama, venne ucciso Giulio Cesare, e che è la
stessa che oggi ammirasi ancora in una delle sale del palazzo Spada. Essa era
stata collocata presso al portico costrutto appositamente; e l'importanza che
le si volle dare, e le lettere cubitali con cui nell'avviso al pubblico venne
accennata, quasi ci trarrebbe a credere che siasi voluto rappresentar la tragedia
per usufruttare la statua.
Ma, domanderà taluno, i signori comici che dovevano per un
pajo d'ore trasmutarsi in Giulio Cesare e Marcantonio e Bruto e Cassio e
Dolabella, da qual parte, in mancanza di quinte, dovevano uscire per fare i
colpi di scena con qualche illusione degli spettatori? A questo bisogno si
adempì con più naturalezza e spontaneità che non si crederebbe; sotto
all'impalcatura delle gradinate e dei portici avevano il loro dietro le scene,
e là aspettavano il momento opportuno di uscire sul palco e far la loro parte.
Lo spettacolo finalmente incominciò in mezzo al silenzio
generale, che durò pochissimo; perchè dei trentamila spettatori accorsi,
ventimila, ad essere cortesi, non comprendevan nulla; altri perchè non capivano
il francese, altri per l'inevitabile rumore che vi si faceva. I ragazzi del
popolo, che s'eran arrampicati fin sulle ultime gradinate, dopo essere stati
attenti un momento, per l'istinto della novità, al comparire di Antonio, che
aveva il manto turchino filettato in bianco, e di Giulio Cesare che lo aveva
color porpora, si diedero a schiamazzare senza tanti rispetti, e a correr
innanzi e indietro, a sfoggio di agilità e di coraggio, sui cornicioni
praticabili. Ad ogni modo. Antonio potè declamare la prima parlata:
César, tu vas regner...
sino al verso:
Qui peut à ta
grande âme inspirer la terreur?
e Cesare potè rispondere quasi d'un fiato:
L'Amitié, cher Antoine:
e attraverso a sessanta e più versi conchiudere,
abbracciando Antonio:
Ta promesse
suffit, et je la crois plus pure
Que les autels
des dieux entourés du parjure.
Quelli tra gli spettatori che avevano un posto, abbastanza
vicino per sentire le voci, e intelligenza sufficiente per afferrare il
concetto delle parole, e, quel che più importa, la conoscenza della lingua
francese, ascoltarono tutta la prima scena senza annojarsi e senza divertirsi,
e senza dar segni nè dell'una cosa nè dell'altra. Necessariamente, quand'anche
Giulio Cesare fosse stato rappresentato da Garrik, da Kean, da Talma, da
Modena, un buon repubblicano non poteva applaudirlo in coscienza, e meno ancora
quello scellerato adulatore di Marcantonio. L'indifferenza continuò fino alla
scena terza, quando Cassio, Cimbro, Cinna, Casca e Bruto entrarono in iscena, e
schieraronsi innanzi a Giulio Cesare assiso sotto ad uno degli archi.
Bruto avrebbe dovuto uscire insieme cogli altri colleghi ed
amici, chè non v'era nessuna necessità drammatica di far diversamente; ma Bruto
era il primo attore della compagnia; doveva produrre un grande effetto soltanto
col farsi vedere; uscì dunque ultimo, dopo qualche momento d'aspettazione ad
arte prolungata. I battimani scoppiarono strepitosi, lunghi, susseguiti da
migliaja di grida: Vive la république, vive la liberté, vive l'égalité. Perfino
i seminudi birichini correnti e ricorrenti
sulle cornici dell'anfiteatro, si arrestarono anch'essi schiamazzando, evviva!
E Bruto, che non s'inchinò mai nemmeno a Giulio Cesare, fece un inchino a tutti
costoro, e li ringraziò.
Cessato lo strepito e gli evviva, ricominciò la recita. Anche
il Camillone, che pur non sapeva il francese, ma che aveva per interprete uno
scultore di Parigi che da più anni dimorava a Roma, ci racconta che si sentì
trasportato a tutto ciò che Bruto nella scena terza disse a Giulio. Aggiunge
poi che l'entusiasmo di tutto il pubblico, anzi la frenesia, andò al colmo a
quei versi onde si chiude, la scena:
Tout mon sang est
à toi, si tu tiens ta promesse;
Si tu n'es qu'un
tyran, j'abhorre ta tendresse:
Et je ne peux
rester avec Antoine et toi.
Puisqu'il n'est plus
Romain, et qu'il demande un roi.
Dopo una tal scena, non ci fu più interesse di sorta; e il
primo atto si chiuse tra una specie di bisbiglio sedizioso, soverchiato dalla
voce sonora di un uomo del Trastevere il quale, allorchè Cesare e Antonio
uscirono dalla scena:
E che ve pigli un accidente, gridò tra le risate universali
e le interrogazioni dei soldati francesi, che domandavano che cosa significasse
quel motto.
Tra il primo e il secondo atto ci fu un intermezzo
abbastanza lungo, il quale, pur troppo, per la nostra storia, ha un interesse
assai più grave che la recita del Giulio Cesare e l'esposizione della statua di
Pompeo Magno.
In mezzo all'ufficialità, presso a Massena e al generale
Cervoni, sedeva colui che il lettore forse desidera di conoscere da un pezzo:
il colonnello Achille S...
Vestiva la divisa d'ussaro, tutta coperta di argento; stava
seduto militarmente, senza tanti rispetti forse per essere seduto a mal agio,
teneva con un braccio il ginocchio della gamba destra, che era piegata sin quasi
a toccargli il mento; la gamba sinistra, stretta nei calzoni rossi e negli
stivali succinti, si stendeva quant'era lunga a toccare il gradino sottoposto.
Un raggio importuno di sole, attraverso una tenda stata innalzata per far
ombra, annaspandogli la vista, lo aveva costretto a piegare innanzi il
caschetto piumato e a tirar l'ala fin quasi sul naso. Della faccia si
scorgevano perciò soltanto i baffi enormi congiunti a delle enormi fedine, che
finivano precisamente alla regione della bocca, lasciando rasa la parte
inferiore delle mascelle e il mento. Chi lo guardava dal basso in alto vedeva a
girare di sotto all'ala del caschetto un pajo di pupille piene di lampo
provocatore e protervo, al quale aggiungevano una tinta sinistra tutte le parti
alterate della cassa dell'occhio, come di chi, non ostante una tempra
robustissima, deve adattarsi a portare in qualche parte le impronte degli
stravizj, delle veglie abusate, degli abusati liquori. Quell'uomo aveva allora
quarantotto anni, ma non ne dimostrava quaranta, perchè la barba foltissima e
perfettamente nera faceva le spese delle parti alterate del viso, e la
corporatura lunga, elegante, forte, asciutta, come quella di un tigre reale
maschio, con delle coscie atletiche di cui i muscoli si pronunciavano di sotto
alla pelle di daino tinta in rosso, faceva le spese di tutto il resto. Egli,
durante l'intermezzo dal primo al secondo atto, senza cambiare posizione,
teneva fisso lo sguardo, dove lo tenevano fisso quasi tutti gli spettatori che
si trovavano presso a lui o in quel raggio di veduta. Ciò che attirava quegli
sguardi e provocava le domande, i discorsi e i commenti di tante persone, erano
due persone. È quasi inutile il dire chi fossero. Il Baroggi, in completa
divisa di capitano dei dragoni, a non molta distanza del colonnello S..., stava
seduto vicino ad un milite, che a tutta prima sembrava
un giovinetto, ma che ciascuno, dopo un'occhiata, riconosceva benissimo per una
fanciulla; ed era infatti donna Paolina in assisa di dragone. Il veder
fanciulle travestite militarmente, seguaci di mariti ed amanti, era un fatto
così comune allora, che per sè solo non avrebbe fermato l'attenzione di
nessuno. Ma se un vestito portato da una persona non fa nè freddo nè caldo,
portato da un'altra può mettere l'entusiasmo, le vertigini e il capogiro anche
negli uomini più calmi. Un effetto di questo genere produceva appunto su tutti
la giovinetta compagna del capitano Baroggi. Donna Paolina, noi l'abbiamo già
delineata in addietro; ma il ritratto si risolse piuttosto in quattro segni
generali, tirati giù colla matita tanto per fermar la macchia e il contorno,
che in un quadro disegnato e colorito coll'intenzione che debba essere messo in
una cornice. Chi ci fece a voce la descrizione della figura di donna Paolina
S..., ci mostrò anche la copia a lapis rosso di un ritratto che il giovine
Pinelli fece di lei dal vero in Roma stessa. Quello che dunque noi stiamo per
delineare colla penna, non è altrimenti una creazione di fantasia; ma una
riproduzione esatta del vero, sebbene sia una copia di un'altra copia.
Il lettore si ricorderà, che, essendo essa della statura di
un uomo comune, paresse eccessivamente alta come donna, anche per la piccolezza
della testa, la quale, a misurar la figura intera, sarebbe stata un'eccezione a
quella regola che decretò dover essere la settima parte del corpo umano. Ma
tutta la persona s'illeggiadriva dominata da quella testina elegante, aerea;
sebbene le forme del corpo, al primo, sembrassero
sottili e quasi gracili, osservata poi parte a parte apparivano consistenti e
ampie più di quello che comunemente suol presentare una fanciulla di
diciott'anni. Vestita da dragone coi calzoni di daino stretti alle coscie, e
gli stivaloni pei quali riusciva ancor più attraente il contrasto del piccolo
piede muliebre, vi assicuro, i miei cari amici, i quali ponete ancora qualche
interesse in questo genere di studj, che c'era da perdere la testa. Seduta
sugli scaglioni del Colosseo, teneva così a bardosso su d'una spalla il
mantello verde; aveva l'elmo in testa piantato assai indietro colla criniera
che le cadeva sullo spallino sinistro. Colla gamba destra sormontata dall'altra
stava movendo macchinamente il piccol piede. Quello però che più di tutto
fermava gli sguardi altrui, era il volto dilicato e fino incorniciato dall'elmo;
volto pallido con linee squisite, sebbene accentatissime, segnatamente alla
linea del mento; con un giro di bocca di eleganza ineffabile e con un naso (il
naso ha un gran posto nelle quistioni della simpatia), con un naso che, sebbene
piccolo ed elegante, aveva però una forma speciale, perchè le nari si
disegnavano più alte del setto divisore, il quale mostravasi troppo più di
quello che avrebbe voluto la regola perfetta.
Ma che mestizia meditabonda e accorata era su quel volto; ma
quante e quante cose pareva volesse dir l'occhio eloquentissimo ogni qual volta
lo girava a guardare il suo Baroggi!
O perchè tanta mestizia? e non eran forse marito e moglie?
Oh no... non lo erano; non si volle che lo fossero... Avevan
dovuto fuggire, e viaggiavano incalzati da timori e da sinistri presagi. Da
Bologna eran giunti a Roma in quel dì che il Baroggi aveva ottenuto dal suo
colonnello alquanti giorni di permesso.
E qui è necessario che col racconto noi ritorniamo
indietro... Oh come la commozione ci assale pensando a quanto era avvenuto, a
quello che avverrà di loro! Davvero che la fortuna scellerata par che provi una
compiacenza crudele nel perseguitare quelle esistenze squisitamente infelici,
che la natura, la sola natura, non la legge umana inesorabile, ha mostrato per
mille indizj d'avere voluto espressamente avvicinare e legare in nodo non
dissolubile.
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