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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOQUARTO
    • I
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I

Siamo nel carnevale dell'anno 1810. Anche la storia, in carnevale, assume qualche cosa di giocondo e di rumoroso, per cui, smesso l'eccessivo suo rigore e le sue cautele che non si tranquillizzano se non sugli atti notarili e sui documenti degli archivj aspersi di molta goccia, si fa più sincera, più alla mano, più ciarliera. È un momento prezioso questo di starle ben presso, d'interrogarla e di farla cantare.

Son corsi dodici anni dagli ultimi avvenimenti a cui abbiamo assistito. Grandi cose sono avvenute in questo intervallo. Prima la repubblica cisalpina si trasmutò attraverso al diaframma degli Austro-Russi e della battaglia di Marengo, in repubblica italiana; poi il 18 brumajo portò di punto in bianco Bonaparte ad essere il padrone del mondo; ed è strano come la fortuna, quasi a vendicarsi della prepotenza onde il genio di lui la ebbe costretta ad impegnarsi al suo servizio, si dilettò di farlo parer minore di stesso in quel giorno appunto, quasi volesse mostrare che senza l'ajuto di lei sarebbe forse caduto per sempre; e infatti, allor fu chiaro come il sole che quando essa si fa l'alleata del destino, il male partorisce il bene; gli errori sembrano ardimenti di intelletto; l'ignoranza e l'imprevidenza risolvono problemi non possibili alla ragione calcolatrice. Quell'oca di Berthier scongiurò Bonaparte a tacere, per non provocare l'ilarità ed il disprezzo dei Cinquecento. Quel gallo borioso di Murat, non comprendendo nulla e però facendo entrare i granatieri a bajonetta in canna a far saltar giù dalle finestre i membri rappresentanti la maestà della repubblica, tagliò il nodo inestricabile, e liberò il volo all'aquila di Bonaparte.

Al 18 brumajo avea tenuto dietro il consolato, e l'imperatore di fatto erasi già rivelato nella unità di Bonaparte collocato fra gli zeri di Cambacerès e Lebrun; e in seguito venne l'impero e il regno, e l'annuncio di una monarchia universale, e il Giove Ottimo Massimo, cogli stivali alla dragona, e la non olimpica ventraja, ed il capolavoro della battaglia d'Austerlitz, che, al par di tutti i capolavori dell'arte, infranse le regole della grammatica campale, fin quella che ingiunse agli eserciti di non prendere le mosse che in primavera. Al capolavoro d'Austerlitz e alle altre battaglie prodigiose avea seguito quella pace di Tilsit, che segnò il punto più eccelso dell'ascensione di Napoleone; e , se egli si fosse fermato, ben altri avvenimenti la storia avrebbe avuto da raccontare ai posteri, ed il cammino dell'umanità avrebbe forse dovuto piegare per sentieri non sospettati da noi. Ma l'eccessiva altezza mise il massimo degli uomini troppo presso alla fonte della luce, ed ei ne rimase così abbagliato da non vedere più le proporzioni degli uomini e delle cose.

Siamo in Milano, la capitale del regno italico, la regina di settantanove città, la sede del governo, la gran fiera dei pubblici impieghi, il convegno di tutti gli ambiziosi d'Insubria, il palco scenico di tutti quelli che devono o vogliono rappresentare qualche parte nella grande epopea drammatica di quel tempo; la Babylo Minima, in una parola, di Ugo Foscolo, la quale faceva da succursale alla Babylo Maxima di Parigi. Ci troviamo confusi nella folla davanti al palazzo di corte, in una notte di febbrajo. I dragoni reali rasentano la punta dei piedi dei curiosi, che si accalcano per vedere gli dèi e gli eroi, le dee e le semidee a discendere dai cocchi. L'aere nebbioso risuona dei boati plebei di cocchieri impacciati a stare in fila, periglianti nelle voltate, attraversati dai gendarmi a cavallo, urlanti e minaccianti come Argivi e Trojani nel fitto della mischia.

Ed or s'è fatto un po' di largo; procedono le carrozze. Ecco quella del duca Melzi, il guardasigilli della Corona. Le due livree gallonate e passamantate balzano a terra. Si spalanca la portiera, la gradinata si snoda, e si riversa sino a terra. Sua Eccellenza lentissimamente discende a mostrare una testa veneranda, che nasconde la santa calvizie sotto una crosta fatta di cipria a ricordare i tempi lieti del topé; S.E. è coperta da una assisa ampia, larga, lunga, tesa, non suscettibile di piegatura, come se fosse foderata di legno; tutta quanta aspra di ricami d'oro a rilievo, a somiglianza d'un piviale del Corpus Domini. Egli ascende lo scalone; parte la sua carrozza; altre subentrano. I generali Pino e Solaroli smontano e ascendono a lievi salti. Arriva Fontanelli, il ministro della guerra; arriva il marchese Cagnola nella duplice sua qualità di signore e di artista. Arrivano in un fiacre di gala il medico Monteggia e lo speziale Porati. Arriva il gran giudice Luosi, tutto sprofondato nel suo immenso cravattone bianco. Vaccari e Bovara e Birago e Marescalchi sono già saliti da mezz'ora, dicono gli spettatori irremovibili, indarno ammaccati dal calcio del fucile del granatiere.

Arriva la carrozza del conte Aquila con sua moglie (diciamo Aquila per non dire il vero nome di questo conte), il quale dell'aquila aveva l'occhio, il naso e la tendenza a volare in altissimo. Sua moglie (che chiameremo la contessa Amalia) è una leggiadra giovinetta di vent'anni. Essa porta un berrettoncino alla greca, di seta ponsò, con una stella nel mezzo, di raso bianco, dove un grosso diamante rifrange la luce in iridi fuggitive. Ha un soprabito di velluto ponsò ricamato in argento, da cui trapela un sottabito bianco di stoffa alla greca, tutto con righe a lama, pure d'argento. Il conte Aquila ha l'abito nero di seta, con ricamo color verde a foglie di quercia, con bottoni e spada in acciajo; cappello con piume bianche, bottone e cappio in acciajo e fibbie d'argento.

Questa coppia giovane, che ben potea rappresentare la forza e la grazia, la violenza e la sommessione, è trattenuta in sull'ingresso dello scalone da un'altra coppia discesa allora allora. Era l'avvocato Falchi con sua moglie detta: l'Avvocatessa. Codesto Falchi è un pseudonimo; se il lettore ci sa pescare, ci peschi, e si diverta. Del rimanente questa donna noi l'abbiamo già vista al teatro della Scala la sera del ballo del papa, ed era una delle tre dive seminude. Essa in poco tempo, insieme col suo marito, era ascesa

Dal nulla avito al milionario onore.

L'avvocatessa Falchi, dette alcune parole alla contessina Aquila, e chiesto a una guardia se S.E. il ministro Prina era già venuto, ed avutane la risposta affermativa, ascese con ostentata lentezza le scale, guardando con invidia la giovane contessina. La Falchi aveva passati quei trentacinque anni, che per l'uomo sono il mezzo della vita, secondo il computo dantesco, ma per la donna ne son quasi i due terzi. Bella veramente non era mai stata; ma le forme del corpo ebbe maestose e dense e appetitose; e nel volto, dal naso adunco e dagli occhi grifagni, scorreva una certa protervia salace, che non dispiaceva agli uomini poco esteti e frolli, i quali antepongono lo strutto all'olio di Nizza! E altre dame dell'antica e della recente aristocrazia vennero in seguito; e per più di mezz'ora la processione delle carrozze sostava ogniqualvolta c'era da deporre o qualche principe, o qualche marchese, o conte, o generale, o colonnello, o capo squadrone, o tenente, o sottotenente che appena avesse avuto da pagare il fiacre.

Ma è tempo di uscir dalla folla esclusa dalle aule regali; e d'involarci alle morbose influenze dell'aere nebbioso e rigido, e di approfittare del nostro invito e del nostro frack per salire al piano superiore, a diguazzarci nel mare luminoso, dove la storia può fare i suoi riassunti ballando la contraddanza o bevendo un bicchiere del napoleonico Chambertin.

Entrando nelle sale del palazzo reale di Milano nel 1810, la recente magnificenza era tale, che per alcuni momenti lo sguardo si fermava alle vôlte, alle pareti, agli arazzi, agli specchi, alle statue, ai dipinti prima di guardare alle persone che l'affollavano. Fra tutte poi, la sala del trono era quella per entrar nella quale bisognava attender qualche ora, perchè da non molto tempo erano stati scoperti i dipinti a fresco dell'Appiani, rappresentanti l'Apoteosi di Napoleone colle figure simboliche che le fanno corredo. Il cav. Lamberti ne aveva stesa l'illustrazione, che, stampata in una splendida edizione italo-francese e filettata in oro e rilegata in raso e velluto, passava a migliaja di esemplari per le mani degli intervenuti. Allora quell'illustrazione del letterato, professore, bibliotecario, cavaliere e cortigiano parve degna dell'opera pittorica; oggi fa compassione a leggerla, tanto dal linguaggio convenzionale e dalle frasi adulatorie e dalle generalità estetiche trapela l'ignoranza di chi parla d'arte senza averne la cognizione. Ugo Foscolo in abito nero civile, col cappello piumato sotto il braccio, e spada coll'elsa d'acciajo, confuso tra i moltissimi, guardava i dipinti e leggeva l'illustrazione e parlava sommesso al cavaliere Brunetti e all'avvocato Marliani. Ma la sua voce era di quella tempra leonina, sonora e profonda, che le sue parole non si fermavano all'orecchio degli amici a cui le volgeva in confidenza; tanto che i Creonti ne approfittarono per riferirne il sunto al medesimo cavaliere Lamberti, che insieme col cavaliere Vincenzo Monti stava in un angolo di quella sala stessa.

Lascia gracchiare Nicoletto, disse allora Monti a Lamberti, il quale si scontorceva per le parole sprezzanti di Foscolo che gli erano state riportate. Ben io scuoterò la polvere de' suoi Sepolcri a suo tempo, e vedrete che quella fama ch'egli s'ebbe per me, per me dileguerà.

Anche senza che voi scuotiate quella polvere, il vento la porterà seco. Or finalmente venite tutti nel mio parere, non essere costui che un gran ciarlatano, e non essere poeta chi ha potuto dettare quell'intralciato e indigesto e fumoso carme dei Sepolcri. Lascia dunque, Lamberti, ch'egli disapprovi la tua prosa. Egli non avrà mai la tua lingua, la tua correzione, la proporzione del tuo disegno.

Così parlava l'arcigno e livido ed esagerato Giordani, che nella critica non aveva misura, giustizia rigorosa, ma si lasciava prendere dai consigli che gli venivano dal fegato morboso. E questo fegato stillava un fiele tutto speciale ai danni di Foscolo, perchè questi nella sua prolusione sull'ufficio della letteratura, professando il proprio disprezzo ai panegirici, implicitamente aveva condannato anche quello con cui Giordani, il libero Giordani, prosternandosi innanzi a Napoleone, aveva sfoggiato un'adulazione che avrebbe fatto ribrezzo anche ai tempi di Roma imperiale.

Al crocchio di Monti e di Lamberti e di Giordani si unirono il frate-prete spretato Lampredi, e Mario Pieri, il quale era indignato con Foscolo perchè non gli aveva mai accordato l'ingegno ch'ei pretendeva di avere; e vi si aggiunse Brunacci ancora sbuffante degli schiaffi che Ugo, sotto gli atrj dell'Università pavese, gli aveva promessi; e fecero circolo don Marzio Anelli e una mezza dozzina di membri dell'Istituto nazionale.

Ugo Foscolo in quell'anno aveva perduta la cattedra, era in ira al vicerè, era lautamente indebitato, disperatamente innamorato: avverso era al mondo e avversi a lui gli eventi. Irritato dalle recenti offese, sparlava del governo; onde tutti coloro che speravano e temevano tutto dall'alto, ed erano protetti e ricompensati ed onorati, lo scansavano come pericolosissimo. E ad accrescergli tanta indignazione s'aggiunse precisamente a quei la sua rottura con Vincenzo Monti. La causa era stata Omero. Chi mai lo avrebbe detto al cieco d'Ascra? I più allora accusarono Foscolo d'invidia. Ma oggi possiamo noi dir questo? oggi che, confrontando i sei canti dell'Iliade da lui tradotti con quelli del Monti, si vede quanta differenza interceda tra i due lavori, e come sia stato un vero danno che la eccessiva facilità di Monti abbia scoraggiato il suo rivale di perdurare lunghi anni in quell'impresa, che davvero pareva fatta per lui solo; per lui che era poeta per lo meno quanto Monti, ed aveva più passione e più viscere, e possedeva il privilegio di essere davvero italo-greco.

Ma lasciamo la sala del trono e dell'apoteosi, e rechiamoci a vedere altre sale ed altre faccie.

 




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