II
Nella sala delle Cariatidi, non al tutto allora compiuta, ma
così ornata di velluti e veli e frange auree e festoni e fiori, che a nessuno
appariva qual parte di essa avessero lasciato in sospeso l'architettura e le
arti sorelle, fervevano le danze, ma fervevano più nei cuori caldissimi degli
ufficiali e delle dame sospiranti in segreto agli spallini ed ai petti onorati
di aquile ferree, che nel muover dei passi misurati a convenzionale lentezza.
La musica era diretta da Alessandro Rolla e dal Pontelibero.
I vecchi, che erano vivissimi nel 1810, e vivono ancora
oggi, e tennero dalla natura una tempra così robusta, e il tubere della
giovialità così pronunciato, e pilori a macina di costruzione così prodigiosa
che ancora s'arrischiano a vegliare ad ora tardissima; e se c'è una festa che
esca dalla sfera comune, son là pronti in cravatta bianca prima dei giovani ad
assaporarla, ci assicurano colle mani sul petto, che se le beltà femminili, per
qualità e quantità, sono oggi in una condizione ancor molto prospera, mezzo
secolo fa fiorivano con insuperabile rigoglio; ma sopratutto ci assicurano che
oggidì la razza grande è quasi spenta affatto la razza delle donne, vogliamo
dire, dai colli e dalle braccia di Giunone; o che, volendo lasciare in pace le
olimpiche deità, potrebbero servire allo statuario per modellare qualcuna delle
virtù teologali.
Di quel tempo splendeva una Falchignoni, che poi fece da
Semiramide in teatro per usufruttare i grandi occhi e il naso d'antica
perfezione e le ineffabili spalle; splendeva una Doria alta trentasei oncie,
come una cavalla normanna; splendeva o, per dir meglio, nereggiava una R...,
che al pari di Cleopatra avea fermata l'attenzione di Cesare. Splendeva una
donna che vive ancora, e serba nella faccia settantenne, più che l'arco di Tito
e di Costantino, le prove irrefragabili d'una sontuosità senza esempio.
Ella partorì a tutto vantaggio delle arti belle un'inclita figlia, che proseguì
poi alla sua volta il lavoro e le benemerenze materne.
Splendevano due contesse, il cognome delle quali cominciava
dalla lettera A..., sacerdotesse assidue alle are di Cipro, e velate di devota
incontinenza nei riti notturni della pallida Diana.
In quella parte della sala delle Cariatidi, che veramente
poteva chiamarsi il dipartimento olimpico della reggia, circondata dalle dame
di palazzo, che erano la marchesa Parravicini, la contessa Carcano, la contessa
Montecuccoli, la contessa Gallo d'Otimo, la contessa Aquila, sedeva la
viceregina principessa Amalia, leggiadra e soavissima d'aspetto:
Novella speme
Di nostra patria, e di tre nuove Grazie
Madre e del popol suo; bella fra tutte
Figlie di regi e agli immortali amica;
come allora, ad onta dei rancori col vicerè e
dell'opposizione che esercitava contro il governo imperiale, aveva dettato
Foscolo inspirato e placato dalla bellezza e dalla virtù.
Affollatissimi intorno a quel gruppo di stelle si vedevano i
senatori, i conti, i baroni, i commendatori di fresca data. Dei senatori si
distinguevano Veneri, Boara, Prina, Borioli arcivescovo d'Urbino, giovane di
bell'aspetto, trasmutato nelle vesti in modo che di vescovile non mostrava più
nulla se non forse il bianco della camicia trinata; Boara e Brême portavano il
gran cordone della corona di ferro. Cavalieri recentissimi erano il marchese
Trivulzi, il cugino del ministro Prina, che era provveditore del liceo di
Novara, il ciambellano Martinengo, i professori Borda e Tamburini brevettati
tutti nella grande sfornata dell'ottobre 1809, insieme con tanti altri che
avevano avuto il merito di essere arrivati in tempo. A costoro e dalla sala e
dalle tribune guardava la curiosità maschile; ma la femminile pareva
concentrasse il fuoco collettivo delle sue pupille sull'alta maestosa figura
del pittore Giuseppe Bossi, che in assisa di
panno color caffè a bottoni d'acciajo volgeva la parola ad un ometto piccolo,
tutto vestito di nero con eletta semplicità.
Il pittor Bossi poteva contare trentadue anni, e quantunque
fosse tanto trasandato nel vestito, che comunemente lo chiamavano il foldone,
era caro alle dame; caro tanto, che i mariti ringhiavano sordamente alla sua
comparsa come cani sospettosi. Ma egli era bello di una bellezza all'antica, in
istile greco-romano. Portava i capelli alla brutus, fitti, lunghi, ricci,
fulvo-cupi, cadenti a ciocche pittoresche sulla fronte fino a toccare la
regione dei sopraccigli, che aveva folti e piegati in così elegante arco, come
se Fidia ci avesse messo lo stecco. E come augusto era l'arco del sopracciglio,
insigni erano la linea del naso e i contorni della bocca e del mento; dalla
qual cosa ognuno può farsi capace guardando uno studio fatto sul vero dal
pittore Appiani. Ad una bellezza così eccezionale dava risalto, e fors'egli lo
sapeva, la negligenza medesima che metteva nell'acconciatura; negligenza
portata a tal segno, che molti sospettavano costasse molto pensiero precisamente
a lui che ostentava di non pensarci; ma anche noi, ai nostri giorni, abbiamo
conosciuto un elegante giovane, che poi uscì dalla folla, il quale faceva tali
studj sulla negligenza del vestito, che tutti i giorni rinnovava sempre
lo stesso sbaglio nell'abbottonarsi il bianco panciotto alla Robespierre.
Con tutto ciò le fisiche qualità del pittor Bossi non
avrebbero bastato a mettere il capogiro nel bel sesso, se non ci fosse stata in
lui quella prodigiosa versatilità di intelletto e di attitudini, che ne costituivano
un'individualità veramente distinta. Dopo Leonardo, sebbene in una sfera meno
eccelsa, egli fu il primo fra gl'illustri italiani, che abbia rappresentato in
sè solo i caratteri di cinque o sei uomini. Pittore, poeta, scrittore, oratore,
musico. Come pittore ci diede il disegno del Parnaso; come scrittore i suoi
studj d'alta critica intorno a Leonardo; come oratore i suoi discorsi
accademici; come poeta, segnatamente nel vernacolo, fu emulo di Porta, e tale
emulo che Porta medesimo ne ingelosì; della musica sapeva quanto potea bastare
per innestare sul piano delle variazioni leggiadre a quelle poesie che, nel
crocchio amico e per puro passatempo, improvvisava declamando.
A ciò si aggiunga una vena inesauribile di epigrammi arguti
e di buon genere, una grande scorrevolezza di spirito, un fare penetrante e
lusinghiero, un'amabilità continua. Ma rare volte è inamabile chi fu il
prediletto della natura e della fortuna. Ci vorrebbe un'indole da cannibale per
essere arcigni e rozzi sotto alla pioggia dei dolci sguardi e dei cari sorrisi
e delle lodi e dell'ammirazione universale. Diciam questo perchè non si creda
che noi facciamo il panegirico al pittor Bossi, il quale aveva poi un gran
difetto, quello di lasciarsi troppo facilmente vincere dalle continue
tentazioni; anzi se ne gloriava e vantava, e ci annetteva tanta importanza, da
tener nota delle sue più minute avventure e speranze amorose, in un diario
ch'egli giorno per giorno scriveva, e che noi abbiam potuto vedere. Eccone un
saggio: Questa sera, al teatro della Scala, nel corridoio dei palchi, ho
baciato la marchesa P..., ed ella mi strinse fortemente la mano: All'erta
adunque e avanti. La moglie del comandante Baraguais d'Hillier è tanto bella e
cara quanto è odioso il marito. Ieri sera mi ha pregato e ripregato di
lasciarmi rivedere. Io dunque la rivedrò, ma non per niente. La principessa
D.... di Roma fu ieri la regina della festa. Che maestà, che orgoglio! Mi si
dice che sia invincibile; ma altre fortezze capitolarono, ed io le ho da fare
il ritratto. Esco adesso dalle stanze della Grassini divina. Chi me lo avesse
detto! Ed ora sono cognato di sua Maestà.
Non oziosamente ci siam diffusi nel parlare del pittor
Bossi; anzi preghiamo il lettore a tener nota di quanto abbiam detto, per tutto
quello che accadrà in avvenire. Ma egli continuava a parlare col suo amico e
collega, il cav. Zanoja, canonico di S. Ambrogio, predicatore, professore
d'architettura in Brera, e poeta satirico. La saetta dell'epigramma mordace e
l'acredine della satira gli si vedevano in volto, segnatamente nel labbro
inferiore più sporgente del superiore.
Sua Altezza pare di buon umore, diceva Bossi.
Tutte le cingallegre son liete.
Egli non ha motivo d'esser triste.
Colla sua testa e col suo cuore no.
Voi alludete al divorzio cui fu costretta sua madre; ma già
era indispensabile.
Lo so, ma non toccava a lui a far in Senato l'elogio
dell'imperatore perchè ripudiava la madre.
Ora, credete voi che il divorzio avrà per tutti un posto
nella legislazione?
Toccherà al ministro Prina a pensarci.
Volete dare al dicastero delle finanze gli attributi del
culto?
Quando occorreranno altri danari, e col sistema corrente non
c'è oro che basti, il ministro Prina consiglierà la sanzione del divorzio; e
valutando la consolazione di tanti mariti liberati una volta per la virtù d'un
paragrafo dai ceppi sacramentali, metterà sulla universale consolazione tali
tasse da empire due erarj. Avete visto come egli ha fatto l'anno scorso colla
caccia? Prima era un privilegio di pochi, che nessuno osava toccare; ma al
ministro occorrendo danari, Il tempo dei privilegi è finito, proclamò; tutti
gli uomini sono eguali, tutti devono dunque andare a caccia, e mise una tassa
enorme sulle licenze. Quando una misura finanziaria può comparire in maschera
di salute pubblica e di umanità, è certo che prospera. Così il divorzio entrerà
nel regno italico sotto il braccio del ministro di finanza e il settimo
sacramento riceverà scacco matto dall'erario esausto. E chi sa che il primo ad
imitare S. M. non debba essere Sua Altezza?
Bisogna bene che il divorzio gli abbia dato alla fantasia,
per dimenticare così indegnamente i riguardi dovuti alla propria madre. Se poi
al fatto del divorzio aggiungete l'aumento di un milione all'anno con cui S. M.
gli pagò la perfida mediazione, è facile a comprendere l'allegria che brilla
sulla faccia del vicerè.
Caro cavaliere professore, non deve esser questa la ragione,
io ci vedo altro. Ma io posso penetrare in luoghi che son vietati a un canonico
di S. Ambrogio. Or fatemi un piacere. Per qualche tempo tenete d'occhio il
vicerè e la contessa Aquila, che oggi ha ricevuto la nomina di dama di palazzo,
e sappiatemi dire il vostro parere. Or va ad avviarsi una monferrina, e il
vicerè sta invitando la contessina a volere ballar seco. Credetemi che l'allegria
di questa notte non gli deriva nè da Giove, nè dal tesoriere Plutone.
Fauni, Satiri, Silvani, Dei cornuti... e che cosa dirà il
conte Aquila.... il Vice-Lucifero?
L'osso da rodere sarà più duro degli. altri. Ma l'orgoglio
del conte lo salverà da qualunque sospetto.
Ma guai se il sospetto romperà nel suo orgoglio!
Io mi meraviglio però come esso abbia concesso alla propria
moglie di accettare la carica di dama di palazzo.
È presto pensato.
Cioè?
Perchè facesse più rumore il suo rifiuto alla carica di ciambellano.
Siccome poi è voce che circola in piazza, che il vicerè è il gallo della
Checca, il conte avrà pensato di stornare la taccia di marito geloso
coll'ostentare noncuranza e disprezzo. Costui è giovane della più strana e
straordinaria natura. È un miscuglio di Catilina e di Giulio Cesare. Ora ei si
tiene in disparte dalla cosa pubblica, rifiuta cariche, respinge onori per il
solo motivo che non è vacante un posto d'imperatore. Per quello presenterebbe
volentieri le sue petizioni. Io lo conosco benissimo.
Lo conosco anch'io assai bene; e tanto che, se sua moglie
fosse mia sorella o mia figlia, io vivrei dì e notte in continuo timore.
Vada per la moglie, ma la cosa più pericolosa è il nascere
suoi figli.... il suo primogenito lo ha provato.
Possono esser calunnie.
Lì c'è il dottor Monteggia. Interrogate lui. La cosa fu
messa a tacere; ma quel che è avvenuto non si può negare. Pare che il conte
abbia voluto imitar Giovanni de' Medici, quando per interrogar l'avvenire ed
esplorare a che cosa era destinato il suo unico figliuolo, ingiunse alla moglie
di gettarglielo giù in braccio dalla finestra. Ma se Cosimo bambino fu accolto
sano e salvo dalle braccia paterne, perchè doveva diventare il Tiberio della
Toscana, al figlio del conte non toccò la stessa fortuna.
Il conte però non fece come il Medici...
No; ma gettando egli stesso in alto il bambino, come se
fosse una palla, e ripetendo, ad onta degli strilli infantili, il giuoco
spietato, venne la volta che gli cadde in terra, e là giacque.
Mentre costoro parlavano, avendo il maggiordomo di corte
fatto segno al direttore d'orchestra Alessandro Rolla che annunciasse una
monferrina, primo il vicerè, dando braccio alla bella contessina Aquila,
s'avanzò nel mezzo della sala per aprire la danza.
Beauharnais, quantunque contasse appena ventinove anni, non
aveva nessuna fisica attrattiva; era già calvo, era atticciato. Ma, per
compenso, aveva modi gentili e insinuanti, e una grand'arte nel darla ad
intendere, specialmente alle donne. Era francese in tutta l'estensione della
parola, con un viso a zigomatici rilevati e a naso rivoltato, di quelli che
tanto abborriva l'italico Alfieri; ma, per sua fortuna, le donne, non essendo sempre
profonde in estetica e lasciandosi lusingare troppo facilmente dalla possanza,
dalla gloria o dalle sue apparenze, dalle vesti pompose, lo giudicavano assai
favorevolmente. Egli poi aveva la prerogativa di essere, sul terreno d'amore,
un cacciatore instancabile; ben potevano le beccaccie e le beccaccine deviare,
nascondersi, tentar voli subdoli, fargli perdere interi giorni; egli non
abbandonava la preda, finchè veniva il punto d'aggiustar bene il tiro, e di
lasciar la fuggitiva con qualche ala infranta.
Queste sale, contessa, posso giurare d'averle aperte
espressamente per voi (così nel suo francese diceva Beauharnais alla contessa
Amalia). In febbraio io vi attesi invano tutta la notte al ballo che mi diede
il Senato: però, quantunque fosse mia intenzione di non dar feste altrimenti in
quest'anno, perchè devo partir subito per il matrimonio di S. M., pure ho
cambiato consiglio, sapendo che la vostra novella carica vi costringeva a
intervenire alle feste di corte.
Se sono venuta, disse gentilmente la contessa, è perchè mio
marito me lo ha permesso.
Se vostro marito ve lo ha permesso, è perchè non poteva
impedirlo.
Poteva impedirmi di accettare la carica di dama di palazzo.
Io dunque non ringrazierò che vostro marito.
Oh.... ma non fate, altezza, ch'io debba lamentarmi della
sua condiscendenza....
Il vicerè si sentì esaltato da queste parole, dando loro la
più ampia interpretazione.
Dallo sguardo che solo aveva insinuante ed espressivo, gli
traspariva l'intima gioja. Nel passare in mezzo alle vive cariatidi dell'impero
e del regno, volgeva parole amabili a tutti e loro comunicava quelle notizie
che potessero dar piacere e soddisfazione.
Eccellentissimo signor duca, diceva, passando dinanzi al
gran ciambellano Litta, da questo momento ho finito di chiamarvi marchese. Il
governo di S.M. ha riconosciuta la dote che voi avete assegnata al ducato cui
foste innalzato fin dall'ottobre passato. Caro marchese Trivulzi, oggi è venuta
per voi la nomina di ciambellano; preparate le chiavi. Il signor conte Annoni
permetterà che lo saluti commendatore; e via su quest'andare.
Ma Rolla diede il segno, e il vicerè aprì la monferrina.
Assai presso al vicerè e alla contessa Aquila, trovavasi madama Falchi,
atteggiata anch'essa per la danza. Il pittor Bossi, amico suo di casa,
staccatosi dal collega Zanoja, s'era messo a sedere al posto di lei, intanto
che ella erasi alzata. Appena la monferrina finì, il pittore fu presto a
levarsi per restituire il posto a madama.
Ma, non ho volontà di sedere, essa gli disse; piuttosto
accompagnatemi a fare un giro per le sale. Se il pittore, ch'era ottimo di
cuore, avesse saputo di che si trattava, certo non avrebbe accompagnata quella
donna. Però non lamentiamoci della sua condiscendenza fatale; la Falchi in ogni
modo avrebbe trovato l'accompagnatore. In quanto a noi, stiamo attenti a ciò
che sarà per fare colei, che fu davvero in quell'occasione:
L'infernal dea ch'alla vedetta stava.
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