II
È dunque la fine del carnevale dell'anno 1750, e ci troviamo
nella platea del Regio Ducal teatro di Milano, detto volgarmente il Teatrino.
Mancano pochi momenti alle due di notte, le otto dell'odierno orario. - Le
sedie della platea sono tutte quante occupate; il semicerchio
che corre dall'ultima fila delle sedie alla porta d'ingresso è affollato. - Al
davanzale dei palchetti s'affacciano dame e cavalieri; e succede, in una
parola, tutto quello che avviene anche oggidì in que' dieci minuti che
precedono l'incominciamento di uno spettacolo ne' nostri teatri. - Ma se in un
teatro e in un pubblico sono perpetue alcune abitudini, non per questo si
confidi un pittore di poter ritrarre lo spettacolo di quella sera, regolandosi
con quello che vediamo oggi. - Il teatro Ducale, meno ampio del teatro Carcano,
con quattro ordini di palchi, era sovraccarico d'ornamenti barocchi. - Volute
in oro e vermicelli e ghirigori e nastri, colle indispensabili maschere della
tragedia e della commedia, l'una trapassata in un occhio dal pugnale di
Melpomene, l'altra colla bocca sghignazzante piegata in arco. - Il velario è un
Febo in quadriga, a cui s'attraversa Diana colle bianche sue cerve, forse a
significare la lotta in cui è impegnata la notte per tener lontano il giorno;
il tutto nello stile di un allievo di Tiepolo, che abbia l'immaginazione e il
colore e la pratica e i vizj del maestro, insieme al manierismo ed agli svolazzi
del cavalier d'Arpino. - Il sipario rappresenta la primavera, trionfante sopra
le altre stagioni, e coronata da Minerva; bel lavoro dei fratelli Galliari, che
oggi farebbe arrossire i nostri contemporanei della tolleranza onde lasciano
che tutti i siparj de' teatri in Milano offrano a' forestieri la più misera
idea delle arti nostre. - Ma se un amante della pittura poteva congratularsi
con quel sipario, un amante della luce doveva protestare contro il nebuloso
crepuscolo che avvolgeva tutto il teatro. - Non v'era lumiera che pendesse dal
velario; qualche luce soltanto usciva dall'interno de' palchetti, tutti messi
sfarzosamente; e, prima che comparissero i ventiquattro becchi di fiamma al
luogo della ribalta, gettavano intorno un poco di albore le candelette che
alcuni, seduti in platea, tenevano fra mano per leggere il libretto dell'opera.
- L'abitudine a quelle mezze tenebre aveva però avvezzate le pupille del
frequentatore del teatro a vedere e ad osservare. Tutta la sala era piena; sui
rossi, i verdi, i gialli, gli azzurri, e tutta la varietà delle gradazioni di
questi colori, il fiordaliso, il pistacchio, il vigogna, il tortorella,
l'isabella, il tané, il testa di pavone, ecc., onde in qualche modo aiutavano
la poca luce le giubbe, le marsine, i gilets dei messeri buongustaj dell'opera,
adagiati in platea, si distendeva uno strato tutto bianco, ed era la polvere di
cipro di quelle seicento parrucche di varia foggia, e, come allora dicevasi,
costrutte alla reggenza, a tre martelli, alla circostanza. - Se da questa
nevicata che copriva tanta varietà di colori, si alzavano gli sguardi ai
palchetti, il quadro si faceva più ancora stranamente pittorico. Era il tempo
in cui le pettinature femminili, che già avevano cominciato a rialzarsi sotto
alla reggenza, si spingevano a tale altezza, che bene spesso una testa cessava
di essere la settima parte del corpo umano. - La contessa Marliani, bellissima
ed elegantissima fra le eleganti di Milano, quando comparve al suo palchetto in
second'ordine vicino al proscenio, mise in mostra una pettinatura che dalle
tempia si alzava quasi un braccio, allargandosi come una piramide capovolta,
sulla piatta superficie della quale erano fiori e frutti, e due tortore
imbalsamate che si beccavano gentilmente. Codesta acconciatura veniva
denominata il puff di sentimento. E se in quella sera il puff della bella
contessa Marliani superava tutti gli altri puff, la gara aveva generata una
tale varietà negli oggetti accumulati su di essi, che sarebbe soverchio tenerci
dietro colla descrizione. - Pappagalli, aironi, uccelli di paradiso, foglie e
fiori e frutti disposti in modo che una testa pareva un capitello corinzio; le
quali mode, se piacevano alla maggior parte, tanto che venivano seguite
ansiosamente, non per questo cessavano di far ridere gli uomini di gusto e
quegli altri che ridono anche delle cose serie.
- Che ve ne pare delle nostre Milanesi, diceva un giovinotto
colla sua bianca parrucca ad ala di piccione, ad un altro che gli rispondeva in
dialetto veneziano.
- Non sono nè più belle nè più pazze delle veneziane.
- Ma chi è quella dama là che porta la passionata?
La passionata era una delle tante denominazioni che si
davano alle mosche e a' nei onde le gentildonne facevano, quel che si direbbe,
la loro professione di fede; la passionata era la mosca che si portava
all'angolo dell'occhio, la sfrontata quella che stava sul naso, la civetta al
labbro, la galante alla pozzetta, l'assassina all'angolo della bocca. E chi o
davvero o per bizzarria voleva o intendeva di avere le qualità morali
rispondenti a quegli aggettivi, portava una di queste mosche, come un tempo i
cavalieri erranti recavano i motti sugli scudi. Il più delle volte però non
erano che simulazioni, onde chi avrebbe dovuto aver l'assassina portava
l'appassionata, e sempre poi quelle
gentildonne cangiavano posto alle mosche, onde tutte quante in una stagione
riuscivano e passionate e galanti e civette e sfrontate e assassine.
Ma que' due, tenendo fissi gli occhi in quella che recava
all'occhio la passionata, e continuando un discorso incominciato: - Colei è una
delle nostre più infocate dilettanti di musica; del resto non v'ha bella
signorina in Italia, la quale, nel ricevere la visita di un giovane cavaliere,
dopo aver fatto pompa delle sue grazie, non passi al cembalo a cantare
un'arietta per rendersi più amabile. - Quella dama là della passionata pigliò
molti alla rete cantando l'arietta, - Se tutti i mali miei - ed è così bizzarra
che, quando di recente gli fu presentato un giovanotto per essere il suo
cavalier servente, così lo interrogò sulle qualità che lo dovevano far degno di
quel posto: Signore, sapete la musica? - No, quegli rispose. - Ebbene, ripigliò
la dama, andate ad impararla e poi venite a ritrovarmi. La musica nel mondo
galante è divenuta indispensabile; senza di essa un amante corre sovente
pericolo di cadere in disperazione per non essere in istato di cantare
un'arietta. - E quel cavalierino che ora siede rimpetto a colei, fu respinto
più volte dalla crudele, ed egli sarebbe morto se non avesse imparato a memoria
quell'aria del Buranello:
Ah che nel dirti addio,
Cara, morir mi sento...
che gli salvò la vita - e così press'a poco fan tutte... E
qui cangiando discorso, il giovane di Milano nominò a quel di Venezia tutte le
principali beltà che in quella sera mostravansi al palchetto: la marchesa
Serbelloni con puff a nastri azzurri, la marchesa Dadda con puff ad airone, la
marchesa Litta con puff a capitello corinzio, la contessa Borromeo del Grillo
senza puff, ma con un sistema di riccioni altissimo e intrecciato con dieci
braccia di nastro, e la contessa Verri e la marchesa Beccaria, ecc., tutte
insomma le arcavole delle nostre più distinte patrizie. - Ma già i suonatori,
incipriati anch'essi, eran tutti al loro posto in numero di trenta, e il primo
violino, signor Belletti, aveva dato un primo colpo d'archetto. Il maestro
Galuppi soprannominato il Buranello, il quale era il compositore della
Semiramide riconosciuta, stava già alla sua spinetta, in tutto quello sfarzo di
vestito che era la caricatura di tutte le caricature che si trovavano in
teatro. Seduto tra il contrabbasso e il violoncello, aveva dietro di sè due
viole da gamba, strumento soavissimo, che scomparve per dar luogo alle catube,
ai bombardoni, ai serpenti, ai pelittoni, e a tutto il parco di artiglieria
della musica di oggidì; e sedevano innanzi a lui due suonatori di flutte, due
di oboè, due di corni. Il resto eran contrabbassi, viole e violini.
Quando il maestro Galuppi comparve alla spinetta:
- Costui è il sopracciò di tutte le case di Milano, disse uno
de' suddetti interlocutori; chi vuol farsi d'accosto a qualche dama non dee che
appigliarsi alle grandi falde quadrate della sua marsina, ed è tosto
introdotto. Come compositore val più del nostro Lampugnani, suo collega
concertatore, il quale è un buon ambrosiano e un forte contrappuntista, ma
quando non assorda fa dormire; codesto Buranello invece compone con molt'arte,
va in traccia dell'espressione, e la trova; tuttavia se la sua musica è la
scuola dei professori, ne guasterà molti, perchè ha troppi passi pericolosi, e
convien essere eccellentissimo nell'arte per collocarli a proposito, com'egli
ha saputo fare.
In questa si alzò il sipario e si mostrò allo spettatore un
- Gran portico del palazzo reale di Babilonia corrispondente alle sponde
dell'Eufrate - lavoro di quei fratelli Fabrizio e Bernardino Galliari, che
furono i primi fondatori della nostra scuola scenica, che recaron poscia
oltremonte. Essi non conoscendo tutti gli stili architettonici e non avendo
erudizione archeologica, applicavano il greco-romano dappertutto, in Babilonia,
a Menfi, alla China; ma avevano una tal pratica nella prospettiva e una così
sterminata immaginazione nel costrutto architettonico e nella combinazione
delle linee, dei contrapposti, degli interrompimenti, delle fughe, che lo
spettatore ne rimaneva abbagliato e anche oggi ne sentirebbe meraviglia. Le
scene poi a quel tempo raggiungevano il più completo effetto, perchè la quasi
oscurità della platea concedeva tutto lo splendore al palco scenico, e la
ribalta non ancora riboccante di fiamme (chè le lucerne ad argand
s'introdussero posteriormente) permetteva che la distribuzione della luce si
facesse nel modo più conveniente e più proporzionato alle leggi prospettiche.
Ma lasciando ora i pittori Galliari e la scenografia, dopo
la comparsa del palazzo reale di Babilonia, comparve Semiramide tra gli
applausi del pubblico, Semiramide in abito virile, sotto nome di Nino, ed era
la virtuosa signora Cassarini, che cantò il recitativo: Olà, sappia Tamiri, con
quel che segue; dopo del quale venne fuori Sibari, o la seconda donna signora
Ghiringhella, e lì s'impegnava un lungo recitativo intercalato di guaiti di
violoncelli e viole, sino al punto che Semiramide, con solenne portamento di
voce, diceva alla seconda donna: T'accheta, ecco Tamiri; e usciva Tamiri, ossia
la signora Giuditta Fabiani-Sciabrà; e quando, dopo alquante parole di
complimento, Semiramide s'assideva in trono in mezzo a Tamiri e a Sibari, e una
guardia recavasi sul ponte a chiamare i principi rivali, tosto, preceduti dal
suono di strumenti barbarici, passavano il ponte Minteo, Scitalce e Ircano.
Allorchè questi si mostrò, successe un movimento nel teatro, come quando il
vento investe una selva, e scoppiò di poi un applauso strepitoso e unisono che
pareva fuoco di plotone fatto da un reggimento di veterani. L'opera nel
complesso annoiava anzichè no, chè il pubblico aveva ancora nell'orecchie
l'Olimpiade di Pergolese, e l'Artaserse di Scarlatti, rappresentate poco tempo
prima; e non era pago gran fatto nè della Casserini, nè della Sciabrà, perchè
esso ricordavasi troppo della voce stupenda della Turcotti, della grazia
dell'Aschieri, del prodigio della Tesi che commoveva irresistibilmente al
pianto, e della soavità dell'Agujari che veniva chiamata il rossignuolo della scena.
- Però, essendo inferiori le prime donne di quella stagione, alle altre che
aveva già sentite, il pubblico si rivolse al nuovo sole che era Ircano, ovvero
il tenore Amorevoli, l'occulta passione delle donne. - Applaudito al suo primo
comparire, fece fremere d'entusiasmo la platea ad ogni emissione di voce; ma il
segreto di mettere in pericolo la mente sana degli spettatori se lo serbò
all'aria:
Maggior follia non v'è
Che, per godere un dì,
Questa soffrir così
Legge tiranna. -
Alle cadenze di questa cabaletta il teatro parve dividersi
in due per lo scoppio d'applausi.
- Vengano ora i musici - gridava un giovinotto - ora che
finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna.
Il tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per
l'ineffabile dolcezza d'una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo
canto, fece sperare che col tempo si potesse far senza de' musici. Ma così non
la pensavano i vecchi, uno de' quali diceva indispettito:
- Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar
quest'aria. Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il
Ciardini tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso come
lui.
- E dove lasciate Cafariello? - diceva un altro che portava
ancora la parrucca a riccioni; - giammai uomo mortale spinse così lungi
l'audacia del canto.
- E Bernacchi il patetico?
- E dove lasciate Egiziello, il grande, l'unico Egiziello,
il re dell'espressione? fu egli che nell'opera Artaserse fece piangere tutta
Roma per questo solo accento:
E pur son innocente.
E dopo lui Guadagni e Salimbeni e Monticelli e Reginelli e
Garducci e l'Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli
non piacerebbe nè poco nè assai...
- Intanto si compiaccia a sentirlo.
- Per forza, non c'è altri...
E l'opera continuò... e Amorevoli dalla voce piena di
fascino e dall'aspetto bellissimo, fu chiamato sei volte al proscenio, dopo
che, con un'espressione e un ardore indicibile, ebbe cantato quell'aria con cui
finisce l'atto primo:
Empio fato se m'opprime,
Seguirà le mie ruine
Chi superbo mi contende
La beltà che mi piagò.
Le ultime due volte che Amorevoli uscì, tenne fisso lo
sguardo ad un palchetto... Nessuno però nè s'accorse, nè prese informazione di
quell'atto...
Solo il gentiluomo veneziano che teneva dietro alle beltà
lombarde, guidato macchinalmente da quello sguardo ad osservare egli pure il
palchetto, chiese all'amico che gli serviva d'interprete:
- Chi è quella bellissima dama là, al numero quattro del
second'ordine?
- Bellissima, se avesse imparato a sorridere, e se ricevesse
la grazia dalla bontà... Quella è la contessa Clelia V..., odiata dalle donne
ed anche dagli uomini.
- Odiata?
- Sì, odiata... Sa il latino, il greco e la matematica... e
dall'alto del suo tripode ci guarda tutti come una divinità sdegnata. - Mentre
il cavalier servente è dovunque un mobile di casa, ed è adottato da chi lo
considera come un'imposizione della moda e nulla più, ella non ha mai patito
d'averne uno. La natura le ha messo il cuore in ghiaccio per preservarlo dalle
infiammazioni.
- Ha marito?
- Altro che marito! Vedetelo là nel palco dirimpetto... È un
ex-colonnello di cavalleria, fatto con sangue di Spagna e con sangue lombardo.
Nobilissimo, del resto, e ricchissimo; ma serio come un cavaliere del tempo del
Cid. - Sposò la sapienza, perchè s'accorse che la grazia lo avrebbe fatto
diventar geloso come il Moro di Venezia...
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