III
Ci siamo diffusi a far la storia dei principj e del processo
della malattia di cuore sofferta dalla contessa Aquila non per altro motivo,
che perchè fu una delle cagioni che prepararono e resero irreparabile uno dei
più funesti avvenimenti che mai abbiano contristata la città di Milano.
Quando di un fatto storico segnalato e celebre s'è
rintracciata una delle prime cause, questa, sebbene possa essere lieve in sè
stessa, assume di tratto un grande interesse per le conseguenze che sono
derivate. Nè crediamo di offendere menomamente la memoria del personaggio
reale, che, per la necessaria delicatezza, abbiamo nascosto sotto il pseudonimo
assunto. La contessa Aquila, come noi l'abbiamo rappresentata, ci pare sia un
modello della donna completa, della donna cioè che, ad onta e della virtù
nativa e della educazione squisita e della vita senza rimproveri, ebbe tale
esuberanza di sentimento, da accogliere in petto la più possente delle umane
passioni.
Gl'ipocriti, che biasimano le anime passionate, pronti a far
sempre da Tartufi ed a nascondersi sotto il
tavolino dei perpetui Orgoni, dovrebbero compiangere ed ammirare invece la
condizione di una donna che, ardente di fantasia, d'affetto, di sangue, pur
riesce, dopo lunghe battaglie, a star salda nella propria virtù.
Queste cose le abbiam dette altre volte; ma pare che non sia
bastato l'avviso, nè basterà mai. I corvi calanti alle carogne, condannano sempre
le donne fatte di carne, di sangue e di cuore.
Quando il duca Litta mandò a invitare per la grande caccia
da darsi presso la villa di Lainate, quanti conoscenti patrizj e non patrizj
aveva in Milano, si dimenticò, o espressamente omise di comprendervi l'avvocato
Falchi con sua moglie, quantunque li conoscesse assai bene.
Siccome gl'inviti furono mandati fuori molti giorni prima, e
l'avvocatessa potè vederne alcuni, ella salì in furore per essere stata
dimenticata; ed a questo punto giova che il lettore abbia una idea dell'indole
di una tal donna.
L'ambizione di lei era di quella natura che non riposa mai,
nè si accontenta di un ordine solo di cose. Ella pretendeva di essere la più
bella, voleva essere la più corteggiata, ambiva d'essere la più ricca; voleva
essere tutto e comandare in tutto. Dava consigli al marito, e guai se non
l'obbediva; e il marito, che era volpe e lupo, faceva qualche volta anche
l'asino, ostentando di adattarsi a fare assai cose per un'eccessiva
condiscendenza alla moglie, ma in fatto, perchè eran atti che gli piacevano,
atti d'avidità e rapacità; ella dava consigli anche non pregata, anche
allorquando era scansata, a quanti le andavano per casa.
Se poi qualcheduno aveva avuto con essa e coll'avvocato
qualche rapporto d'interesse, di clientela, di sudditanza, comandata dalla
necessità degli affari, ella era la padrona di tutti loro, faceva la padrona in
tutte le loro famiglie; negava l'assenso ai matrimonj, imponeva ella le mogli;
teneva la giurisdizione persino sulle vesti e sulle foggie. Conoscere
l'avvocatessa Falchi significava aver rinunziato alla libertà personale.
Siccome però era stata assai bella, bella nel senso
mercantile e carnoso, non già nella sfera dell'accademia e dell'arte, ed era
ancor bella, e veniva molto corteggiata; così quando la sua vanità e i suoi
appetiti venivano lusingati e soddisfatti, aveva dei momenti di lieto umore, ed
anche, ma questo avvenne rarissime volte, qualche lampo di bontà, di
generosità, di cortesia. Appena però la si contrariasse, diventava a un tratto
una tigre reale ferocissima, di quelle del Senegal. Anche il marito aveva un
bel da fare in quei giorni per sopportare quel temporale in casa. Persino il
ministro Prina, che era di Novara, come l'avvocato, ed era suo intrinseco, e
frequentava quotidiano quella casa, e perchè aveva molti affari con lui, e
perchè anche si giovava dell'acutezza pratica di quell'uomo, spesse volte ebbe
a subire le tempeste dell'avvocatessa, che, da uomo di mondo e da uomo
superiore, sopportava e compativa, ed anche derideva.
Questa donna singolare era stata sposata in seconde nozze
dall'avvocato Falchi, auspici l'avvocato Prina appunto e l'avvocato conte
Gambarana. Il Falchi fece passar brevi ma amarissimi giorni alla prima moglie,
che era nativa del Genovesato, e che gli avea recate in dote lire d'Italia
trecentomila, la spina dorsale deviata, e quella bontà che deriva dalla natura
e si fortifica cogli abiti religiosi. Quantunque non si possa ben asserire,
pare però che l'avvocato Falchi abbia avuta l'intenzione, fin dal giorno che
accettò quel partito, di svincolare le lire trecentomila dalla servitù della
rachitide e dalla noja delle giaculatorie. Quando un uomo giovine sposa per la
dote una vecchia o una rachitica, si può giurare che quell'uomo è perverso.
Intanto che all'altare, in abito festivo, mette l'anello in dito alla compagna,
e ode dal curato la figura rettorica del crescite, egli pensa già ai buoni
servigi della morte, e in quel crescite mendace sente invece in embrione il
requiem æternam. Questo sia detto in via di passaggio, come diciamo di passaggio
che la morte fu lesta a servire l'avvocato Falchi, quasi avesse ricevuto una
mancia anticipata.
È un fatto strano, ma pur degno della riflessione dei
legislatori, che dalla casa della maggior parte di coloro che sposano per la
dote una donna o vecchia o deforme, in pochissimo tempo la donna scompare. Noi
abbiamo conosciuta una mezza dozzina di cacciatori di doti, che arrivarono
giovani ancora alla seconda od alla terza moglie. Sarà una combinazione, sarà
un fenomeno puro e semplice; ma, a buoni conti,
se noi avessimo una sorella od una figlia, ci guarderemmo bene di gettarla alle
bramose canne di questi galantuomini, al cui confronto noi sentiamo quasi una
certa simpatia pei famigerati Scorlini.
Vivente ancora la prima moglie, l'avvocato Falchi avea
adocchiato sulle rive del Verbano quella che diventò poi la seconda, la quale,
a soli quindici anni, veniva già chiamata quella bella giovinotta, alta
qual'era e rigogliosa e densa e proterva, e che aveva già tenuta a bada la sua
mezza dozzina di amanti. L'avvocato se ne invaghì, e appena fu libero la sposò.
Era il rovescio della medaglia della sua prima moglie; era una tacchina grassa
e appetitosa e fragrante di rosmarino, in confronto di un osso già gettato a'
cani. Il dì delle nozze, la combinazione volle ch'egli in un affare guadagnasse
trenta mila lire italiane per fortuito intervento della sposa. La freschezza, i
fianchi baldanzosi, la petulanza allettatrice di lei, e quella specie di buon
augurio ch'entrò seco in casa, fecero sì ch'ei si gettasse corpo ed anima, per
allora e per sempre, nelle ampie sue braccia.
Per dare un'idea del genere d'accordo che passò sempre
tra l'avvocato Falchi e la nuova moglie, la quale dalla sua ciarla perpetua e
dal suo ficcar il naso in tutto, venne dai conoscenti cognominata
l'avvocatessa, noi non possiamo che richiamare alla memoria dei lettori i
coniugi Macbeth; con questa differenza, che se lady Macbeth per riuscire nei
suoi intenti ebbe l'ajuto di Ecate e di tre streghe, l'avvocatessa Falchi fece
anche la parte delle streghe di Ecate.
Ora è da ricordare un fatto. Nel primo anno che il principe
Beauharnais fu installato vicerè d'Italia, e cominciò, nel tempo che risiedeva
in Milano, quel sistema di vita discola e donnajola che, grado grado, doveva
poi addensargli contro tanti nemici, ebbe ad adocchiare anche l'avvocatessa
Falchi. Allora ella poteva contare ventinove anni, ed era nel massimo fiore
della sua beltà da baccante, senza linee greche, nè etrusche; linee, come tutti
sanno, caste e severe, e che non possono far nascere che amori seri; ma pomposa
invece di quelle forme portate dall'arte carnale della decadenza; la quale se
sarebbe fuor di posto nei riti di Vesta, potrebbe fare da frontispizio ad una
illustrazione delle feste lupercali. Il vicerè dunque la adocchiò e l'avvicinò,
ed ella, quantunque fosse orgogliosa come una Gezabele, fu benigna e cortese
con quell'Acabbo, gran cordone della Legion d'onore e della Corona ferrea. Che
a lei piacesse il vicerè, come uomo, come giovane, come cavaliere, nessuno lo
voglia credere. Ella sorrise al vicerè perchè era il vicerè, senza considerare
che avesse piuttosto ventiquattr'anni che sessanta. Il vicerè poteva essere
cagione che la ricchezza già considerevole dell'avvocato Falchi crescesse a
dismisura. Per suo mezzo infatti, nella compra e vendita di beni nazionali, nel
giro delle carte pubbliche, negli appalti, l'amicizia del vicerè equivalse ad
una lauta eredità.
Il Falchi era un po' geloso di sua moglie; specialmente se i
giovinotti, per cui ella poteva avere qualche debolezza, non presentavano
alcuna speranza di speculazione, nè assomigliavano a carte di rendita, nè a
beni demaniali. Però, quando si accorse che le maritali corna potevano fruttare
qualche migliajo di pertiche di prati irrigatorj, egli tosto offerse il fenomeno
di un amore eccezionale, di un amore cioè che cresce col cessare della gelosia.
Lasciò pertanto andare, chiuse un occhio, anzi tutti e due, e solo si accinse a
cavare il maggior profitto possibile da quella nuova posizione. Tutto questo in
quanto ai conjugi; in quanto al vicerè è facile comprendere com'egli non desse
nessuna importanza a quella relazione, come per conseguenza, placato il
capriccio e satollato a piena gola, sentisse tedio di quella vivanda più
nutriente che pruriginosa. La Falchi, insieme al pensiero dell'utile che potea
ritrarre dai rapporti col vicerè, si sentiva anche lusingata dalla vanità. Ella
non aveva avuta nessuna educazione squisita, e la sua stoffa morale era
volgarissima; simili nature sentono la vanità più di tutte; a lei pareva di
essere la viceregina. Benchè tanto astuta e perversa, convien confessare che in
ciò era stolida la sua parte. Pavoneggiandosi dunque come se fosse una
viceregina, non pensava a quel che era davvero, a quel che si diceva di lei,
alla trista figura che faceva il suo signor marito. Una donna volgare
amoreggiata da un alto personaggio, da un vicerè, da un imperatore, al giudizio
degli uomini onesti appar più triviale e disonorata che se fosse amoreggiata da
tutt'altra persona.
La grandezza in questo caso e la possanza, invece di dar la
luce, ottenebrano e corrompono. La ragione è che la donna non sembra
attirata che dall'interesse; la ragione è che l'amore pare una cosa imposta
come un tributo, come una tassa. Il sentimento reciproco, che spesso comanda
l'indulgenza anche sui trascorsi e sulle colpe, in questi casi non è nemmeno
sottinteso, pur se fosse vero.
Tornando a Beauharnais, sebbene colle donne fosse ognora
gentile e cortese fin a toccare le linee barocche del Galateo, avvenne che
arrivò il tempo che non potè più nascondere il senso d'uggia e di noia che gli
destava la presenza dell'avvocatessa Falchi. Com'è naturale, ella se ne
accorse, e fremette. Diciamo fremette, perch'ella non era capace di altra
sensazione; non fu abbattimento il suo, nè dolore; non sentì che quell'ira, la
quale è capace di ulcerare e tormentare come la pece greca.
Non sappiamo in che dramma Metastasio abbia detto che:
.......L'offensore oblia
E non l'offeso il ricevuto oltraggio.
Questo è sì vero, che il vicerè, il quale in cinque anni
ebbe tante volte a lasciar Milano, dovette combattere in tante battaglie,
adempire a tanti mandati dell'imperatore, si dimenticò quasi affatto della
signora Falchi, anche perchè la combinazione volle che non si avessero mai a
vedere. Ma se il vicerè che, per certi principj strani di diritto privato, era
l'offensore, si dimenticò di tutto, non se ne dimenticò l'avvocatessa. È certo
che non dimagrò, anzi ingrassò vistosamente; è certo che continuò a godere
giocondamente il bel mondo e il bel tempo e le ricchezze che crescevano in
proporzione geometrica; ma è certo altresì che, se anche in mezzo alla gioja
convivale, se anche nell'ebbra vivacità provocata dal Gattinara, per cui, da
vera laghista, ella aveva una passione dichiarata, un discorso fortuito le
richiamasse in memoria quel fatto, ella sentiva ancora fitto in gola
quell'osso, che non voleva andar giù, per quanto Lieo ci versasse sopra.
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