IV
Uditi gli scalpori della Falchi per quella fortuita omissione
del duca Litta, il ministro Prina, che stava una sera giuocando all'ombretta
spagnuola coll'avvocato:
La si tranquillizzi, signora Teresa, diss'egli, così tra il
buffo e il serio; il signor duca la inviterà. La caccia deve essere dopodomani;
dunque a quest'ora tutti gl'inviti non possono esser fuori. Che, se mai fosse
stata dimenticata, già ella sa che chi manda fuori gl'inviti è il maggiordomo
della casa, il quale è un balordo, e si regola così a vista di naso, e può
benissimo essersene dimenticato. Il maggiordomo ha passato i sessantacinque
anni; ha altro per la testa che le belle donne della città (il ministro calcò
su questa frase, perchè, ridendo fra sè stesso, sapeva che quello era il lato
da solleticare per far cessare il temporale). Ma in ogni modo, signora Teresa,
faccia conto di essere bell'e invitata. Prima di andare a letto devo passare
dal duca, e tutto anderà a suo posto.
Ma che il signor duca non creda poi che io faccia impegni...
Il duca non crederà niente... lasci fare a me, signora
Teresa, e cessi di riscaldarsi.
E non vorrei che quelle smorfiose dei quattro quarti
venissero a sapere...
Ma, e che vuol mai, che si venga a sapere?... Cara la mia
signora, m'accorgo in conclusione che ha ragione Andrea, il cameriere, quando
dice che la signora padrona ha buon tempo...
Come, come, il cameriere ha avuto coraggio?... Ma io lo
scaccerò su due piedi.
La signora Teresa non verrebbe con ciò che a dare ragione a
quel buon diavolo di Andrea, il quale disse per giunta che tutte le belle donne
dal più al meno hanno un poco del matto e che chi le rovina sono i cicisbei che
lor dànno l'incenso.
L'avvocatessa Falchi si placò di colpo; il ministro partì,
passò al duca Litta, il quale, essendo buonissimo e non dando molta importanza
a cosa nessuna, accontentò i desiderj e dell'amico e dell'avvocatessa.
Sorse il giorno della caccia: al mattino di quel giorno, dal
palazzo di corte, da quasi tutti i palazzi della città uscivano le carrozze col
tiro a sei, col tiro a quattro, col tiro a due; uscivano a cavallo i giovinotti
ufficiali e non ufficiali, in costumi strani, cosidetti alla cacciatora, come
allora portava il Corriere delle Dame del Lattanzi; il poeta Monti sorse
anch'egli mattutino, e venne a pigliarlo la carrozza del conte Paradisi; il
Foscolo, che allora corteggiava la contessa A..., galoppò a cavallo in
soprabito di panno verdolino con pantaloni di casimiro color piombo e stivali a
trombini.
La contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto
spirito, molto ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona,
generosa e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo di egregie
qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto all'uragano di un difetto solo.
Ella faceva dell'amore l'unico passatempo; ma un passatempo tumultuoso,
fremebondo, irrequieto; nè occorre il dire che quell'amore era parente di
quello rimasto nudo in Grecia e nudo in Roma, come disse Foscolo; e che,
mancando di un candido velo, non era stato meritevole di riposare in grembo a
Venere celeste. Ma Foscolo, nonostante la sua poetica distinzione, si trovò un
bel giorno avvolto e impigliato nell'ampia rete che la contessa teneva sempre
immersa nella grande peschiera della capitale lombarda.
Il lettore non può immaginarsi quanti belli e cari
giovinetti si trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora
protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto
d'esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care lusinghe di quella
sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi e desolazioni lipemaniache! Ma
non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i paperi innocenti del
ruscelletto; ma frolli don Giovanni, stati più volte immersi nel fiume Lete; ma
grossi topi veterani del Seveso, dovettero sovente parer novizj al contatto
maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma nel suo
intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l'idea della costanza in
amore. Nè è a credere che non amasse; amava assai, amava ardentemente; e nei
primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla incendiaria, ella non
aveva pace, e si struggeva finchè non avesse potuto accostare l'oggetto de'
suoi desiderj. Ma un amante nelle sue mani non era nè più nè meno di un cappone
messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti non rimanevano che le ossa,
e la fame chiedeva tosto altro cibo. Povero Foscolo! indarno ti stettero
intorno le sante muse
Del mortale pensiero animatrici.
A ogni modo quella contessa, sebbene fosse così
eccezionalmente volubile e cangiasse gli amanti come i guanti e le scarpe, aveva
però le sue predilezioni. Nella lunga sfilata dei suoi adoratori, ella si
rammentava di taluno che davvero amò, e che forse avrebbe voluto aver sempre
seco, sotto condizione peraltro che si adattasse ai capricci suoi, e chiudesse
un occhio quando ella sorrideva agli altri. Com'è naturale, non trovò mai
nessuno che si acconciasse a codesto patto. Ella era tanto bella e cara e
seducente, e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi
a chi ne era il passeggiero oggetto, che questi subiva tosto quella passione
acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno voleva essere il
solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene non volendo vincoli di
sorta, e dando accademia d'amore, come la si darebbe di poesia estemporanea, metteva
tosto alla porta i pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano
avversissimi alla monarchia mista.
Ugo Foscolo, che aveva una predilezione particolare pei
grandi occhi lucenti, guardò spesso in teatro colei, che in vero ne possedeva
un pajo di primissima qualità. Egli, sentendo a sparlare di quella divinità
volubile da coloro che erano stati e trionfatori e vittime, ne assunse la
difesa con quella sua eloquenza procellosa e invadente, fatta di sentimento e
d'erudizione classica. Tuonava in favore del genere di vita ch'ella conduceva,
e la raffrontava alla greca Aspasia, che diede lezioni d'amore anche a Socrate.
La contessa seppe di quelle arringhe di Foscolo, e come donna di vivacissimo
ingegno e di molta coltura, essendo innamorata dell'Ortis e dei Sepolcri e
dell'Ode per la Pallavicini, un giorno scrisse un letterino a Foscolo,
pregandolo a passare da lei. Foscolo ci andò; le prime parole che la contessa
gli rivolse, appena esso comparve sulla soglia del gabinetto, furono
precisamente queste: "Ho sentito che voi mi chiamate Aspasia; accetto la
lode e, purtroppo, anche il biasimo; ma voi, che siete greco, dovreste fare
assai bene la parte di Pericle; se ci state, rinnoveremo i bei tempi di Atene;
fra tanti asini che le stanno intorno, se Aspasia è volubile non è poi da
condannarla; si provi adunque Pericle a far miracoli."
Certamente che una dichiarazione così esplicita e più che
audace, fatta da donna ad uomo, era un fatto che doveva peggiorare il concetto
ch'altri potesse avere di lei, e anche a Foscolo avrebbe dovuto non far buona
impressione. Ma se avrebbe dovuto, non lo fu. Con quell'animo ardente di Ugo,
con quel temperamento in esaltazione, con quell'entusiasmo per la bellezza, con
quel naturale orgoglio che gli fece tosto trovar spiegabile e giusto quella
specie di privilegio in cui la contessa costituiva lui solo a petto di tanti;
alle lusinghiere parole della contessa, ei si sentì di punto in bianco preso
d'amore; uno di quegli amori roventi che lasciano segno e solco e piaga. Povero
Foscolo!
Quando ci fu la caccia a Lainate, già da quasi un mese era
egli l'assiduo cavalier servente della A..., e in quel tempo non era mai
comparsa nessuna nube ad intorbidare quel nuovo cielo in cui la procellosa
anima di lui erasi rasserenata. La contessa in sul principio sentì l'orgoglio
di avere nel proprio dominio quella fiera generosa e indomita; si compiacque di
quei tête-à-tête, che per lei riuscivano una rivelazione. I dialoghi erano veri
capolavori di eloquenza, di poesia, di sentimento. È facile immaginarlo. Se
Foscolo non aveva quella che comunemente si chiama bellezza; anzi, allorchè
stava immobile e taciturno, potesse sembrare
passabilmente brutto alle ragazze che prediligono il bel nasino e i
mustacchietti; assumeva, per dir così, una bellezza transitoria, allorchè
animavasi, la quale gli derivava dal raggio dell'intelletto che gli balenava
tra ciglio e ciglio; oltredichè era ancor giovane d'anni e ben costrutto di
membra, e una selva pittoresca di capelli fulvi e inanellati gli comunicava un
aspetto poeticamente selvaggio, che lo faceva diverso da tutti gli altri.
Lungo lo stradale egli galoppò accanto al carrozzino della
contessa. Altri cavalieri avrebbero assai volontieri fatto corteggio a lei; ma
dal giorno che Foscolo fu in carica, nessuno osò più accostarsi, perchè era
nota l'indole del poeta soldato, e il suo coraggio e le sue furie e la storia
dei duelli, ne' quali a' suoi avversarj non era mai riuscito di ferirlo. Tra
via furono raggiunti dalle carrozze del vicerè, che salutò cortesemente
la contessa, e non rispose al saluto di Foscolo. Di lì a poco passò la carrozza
della contessa Aquila. Il conte la seguiva a cavallo insieme con altri suoi
amici. La contessina Aquila e la A... si salutarono gentilmente
nell'avvicinarsi delle carrozze. Quando la A... tornò ad esser sola con
Foscolo:
Conoscete voi la contessina? gli disse.
Non la conosco, ma la vidi più volte, e mi piace, e mi
commove la sua santa virtù...
Siete tanto devoto dei santi?
Ammiratore, non devoto. Quella donna non mi farebbe mai
impazzire d'amore; ma la onoro e l'ammiro e sento una pietà profondissima
quand'odo a dire che il marito la tiene in dominio di tirannia. Essa mi fa
pietà anche perchè mi son fitto in testa che sia una di quelle creature nate
sotto alla cattiva stella!
Così parlava Foscolo, ed era così difatto; chi avrebbe
pensato allora che persino la generosa pietà dell'autore dei Sepolcri doveva
riuscire a danno di lei?
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