V
La caccia era incominciata fin dall'alba. Anzi i cacciatori entusiasti,
della specie di coloro che opprimono gli amici obbligandoli a star sempre
in ascolto di racconti venatorj, e darebbero dei punti ad Esaù, pronti a cedere
un regno per una starna, s'eran trovati sul posto che era notte ancora. Però
quando i personaggi di nostra conoscenza arrivarono a Lainate, giunsero più in
tempo per far colazione che per empire il carnajo. Tra questi personaggi non si
poteva defraudare il primato al conte Paradisi, a Vincenzo Monti, al
librettista legulejo Anelli, e ad altri dell'inclita classe dei letterati, che
il duca Litta voleva invitar sempre. In quanto
al vicerè ed ai giovani ufficiali del suo stato-maggiore, sebbene sentissero
l'obbligo di fare entro la giornata la loro mezza dozzina di fucilate, avevano
altro per la testa. Essi erano cacciatori in ogni modo; ma cacciatori di
cacciatrici. Le più eleganti e desiderate di queste, dalle carrozze passarono
sulle selle inforcate dei leardi più o meno docili ed ammaestrati, che il duca
Litta aveva fatto loro apprestare.
Così venne preparandosi una cavalcata, che poteva
assomigliare a qualcuna delle più pittoresche del medio evo. Dopo qualche tempo
la schiera, che era numerosa, cominciò a scomporsi, a dividersi, a sciogliersi
in vari gruppi di otto, di sei, di quattro...
Dopo qualche tempo ancora si potè notare che non v'erano più
gruppi ma coppie, e che taluna di queste coppie, a scoprir nuovo terreno e a
veder nuovi accidenti di prospettive, s'era sbandata senza domandare il
permesso a nessuno. Il vicerè per lungo tratto di via s'era sempre
intertenuto a parlare col ciambellano marchese conte Pallavicini; poi a un
certo punto, come se fosse per caso, si portò di slancio vicino al conte
Aquila. La contessina Amalia, che cavalcava anch'essa, erasi dilungata di tanto
quanto misura un cavallo, perchè un suo fratello l'aveva soffermata per
raccorciarle la staffa. Il vicerè disse una parola di complimento al conte, e
fece fare nello stesso tempo al cavallo due o tre impennate, che lo portarono
innanzi d'un gran tratto e si volse come ad attendere il conte; il quale,
sebbene di malavoglia, si trovò costretto a portarsegli di fianco. Così l'uno e
l'altro si trovarono lontani dalla schiera comune.
Giacchè i cavalli, disse allora il vicerè al conte Aquila,
ci han tratti fin qui, assecondiamo il loro capriccio, e teniamoci un po' in
disparte dagli altri.
Il conte non rispose, perchè non comprese. Beauharnais mise
allora il cavallo a un trottino sollecito, che costrinse il conte a far lo
stesso. Così in pochi secondi furono fuori affatto della vista altrui, e si
trovarono in solitudine perfetta.
Perdonate, signor conte, se vi ho tratto fin qui.
Il conte volse al vicerè uno sguardo, in cui la sorpresa non
bastava ad ammorbidire l'orgoglio e un non so che di sdegnosamente imperioso da
far dubitare chi dei due fosse il vicerè.
Questi continuava:
Sapete, signor conte, perchè oggi il duca Litta ha dato
questa caccia?
No, rispose asciutto il conte.
Perchè io ne l'ho pregato, soggiunse il vicerè.
Il conte fece un movimento lieve colle spalle, quasi pensasse:
E che m'importa?
E sapete perchè l'ho pregato, e a qual condizione?
Il conte taceva.
L'ho pregato perchè desiderava di trovarmi con voi; e la
condizione fu appunto che egli facesse di tutto perchè voi non mancaste. Mi
rincresce che la illustrissima signora contessa abbia dovuto affrontar l'aria
del mattino; ma io credevo che aveste a venir solo.
Il conte capiva sempre
meno; fermò uno sguardo acuto sulla faccia del vicerè, e nel punto stesso, per
un movimento spontaneo, fermò il cavallo. Beauharnais fece altrettanto, mentre
continuava:
È precisamente così, caro signor conte. Egli è da qualche
tempo ch'io doveva parlarvi. Voi siete stato un mese fa il soggetto
interessante di un lungo dialogo tra me e l'imperatore, che durò più di due
ore.
Il conte, sebbene non amasse l'imperatore e tenesse in basso
conto il vicerè, provò a quelle parole una soddisfazione d'orgoglio che non
aveva mai provato in tutta la vita. La sua faccia si colorò, la circolazione
del sangue gli si accelerò.
Per cagion vostra ho dovuto sentir dei rimproveri da Sua
Maestà.
Per cagion mia?
Vi ripeto le sue parole testuali: "Io so che a Milano,
nella classe dei nobili, c'è un giovine di una straordinaria capacità e di un
carattere antico. Perchè non me ne avete mai parlato?" L'imperatore mi
disse precisamente così. Io gli risposi che non glie ne ho mai parlato perchè
sarebbe stato inutile, e gli toccai del tenore della vostra vita e
dell'ostinazione a tenervi in disparte da ogni pubblico ufficio. So anche
questo, mi replicò allora l'imperatore, e ne so anche la ragione, aggiunse.
Ditegli adunque che egli giri uno sguardo per tutto l'impero e tutto il regno;
consideri i seggi più difficili, e ne scelga uno. Questo ebbi io l'incarico di
riferirvi.
Gli odj e le antipatie bene spesso non sono altro che una
conseguenza dell'amor proprio offeso. L'uomo che è avido della stima altrui,
sente un'avversione invincibile, per chi egli sospetta non ne abbia punto per
lui. Quando uno dice: quel tale mi è orribilmente antipatico, e non so il
perchè; non gli credete; il perchè lo sa benissimo; egli teme che colui non lo
tenga in quel conto a cui egli aspira. Ma in conseguenza di ciò appunto, se per
caso quel tale, contro l'aspettazione, si fa innanzi con degli attentati di
grande considerazione, l'antipatia scompare di colpo e si converte nel suo
contrario. Ecco perchè soventi volte vediamo diventare amicissimi due che si
scansavano per antipatia. Dopo tutto, non è facile dar l'idea della repentina
trasformazione che avvenne non solo in tutti i pensieri, ma, quasi diremmo,
nello stesso carattere del conte Aquila, durante lo strano colloquio avuto col
vicerè. Il suo orgoglio non fu mai sì appagato, lusingato, gonfiato, come in
quel giorno. Quello fu per lui il più grande dei suoi trionfi; fu un trionfo
inatteso che lo mise sossopra tutto quanto. Fece l'effetto di quei poderosi
agenti chimici che improvvisamente decompongono e snaturano una sostanza. Nulla
però ne trasparì al di fuori; il conte Aquila si contenne, e rispose pacato:
Mi fa meraviglia, altezza, come l'imperatore abbia potuto
avere il tempo di pensare a me; come altri abbia osato fargli perdere il tempo
parlandogli di me. Mi rincresce però che ciò sia avvenuto; che S.M. mi abbia
dato un valore mille volte superiore al vero. Il fermo proponimento di rimanere
nell'oscurità in cui mi trovo potrebbe parere scortesia e peggio; mentre non è
che un bisogno, una necessità della mia vita fisica, morale, intellettuale. Io
amo l'oscurità.
Perdonate, conte; ma lasciatemi dire che è l'oscurità
dell'orgoglio.
Siete in errore, altezza. Dite piuttosto: della
disperazione.
Disperazione... ma di che?
Dispero degli uomini e delle cose. Gli eventi che la fortuna
onnipotente ha scatenati nel mondo da gran tempo, non appagano la mia natura;
nè io ho tanta forza da mettere, per trattenerla, le mie braccia tra i razzi
della sua ruota. Se però io vivo nell'oscurità e nell'inazione, S. M. mi deve
ringraziare.
E perchè?
Perchè sarei pericoloso se operassi. Pericoloso a lui,
pericoloso alla patria.
Non vi comprendo.
Vi dirò tutto. Ancora io dubito... se le mie opinioni
avessero raggiunta la certezza, io sarei già stato un ribelle. Così versando
ancora e nell'incertezza e nell'investigazione affannosa di chi cerca e ancora
non trova, faccio atto di sapienza a star celato in casa nell'aspettazione
della parola estrema che mi spieghi tutto il passato; nell'aspettazione
dell'ultima pagina, in cui sia consegnata la prova e la riprova dell'idea madre
di tutto il libro. Se domani io potessi convincermi che il costrutto architettonico
dell'edificio napoleonico è perfetto, io sarei il più operoso capomastro
dell'architetto sovrano. Spero, altezza, che voi mi saprete grado della mia
sincerità. Io non potrei mai essere uno strumento nella mano di chi non
comprendo.
Se il lettore è stato attento alle parole del conte Aquila,
si sarà accorto come il disegno del suo edificio, ch'egli improvvisò dopo che
la sua ambizione venne lusingata dal discorso del viceré, fosse fatto in modo
da lasciare l'addentellato per un edificio di tutt'altro stile. È carattere
dell'ambizione, quello di non aver nessun sistema prestabilito e inconcusso, ma
di odorare il vento e virare e atteggiarsi a seconda degli avvenimenti e
dell'invito delle circostanze. Al conte Aquila non parea vero che Napoleone
avesse potuto parlare di lui in quel modo e avere di lui quel concetto; però,
quando ebbe quella rivelazione inattesa, il suo pensiero fu tosto di
approfittare della fortuna e di giganteggiare con Giove, giacchè era assai
arduo il rinnovar l'impresa dei Titani. Così parlò in guisa da innalzarsi sempre
più nel concetto di Beauharnais; facendo vedere, coll'apparenza della massima
sincerità, quanto egli poteva essere pericoloso, e per conseguenza che
magnifico e solenne compenso ci sarebbe voluto per renderselo amico; nel tempo
stesso poi lasciò aperto un varco ad una nobile ritirata in quelle parole:
Ancora io dubito. Il vicerè rispose:
Io vi ringrazio, conte; ma posso sapere se questi vostri
sentimenti li avete manifestati ad altri prima che a me?
Ad altri sarebbe stato inutile; con voi, altezza, era
indispensabile.
Io dunque vi ringrazio: ma ben più vi ringrazierò il giorno
che vi compiacerete di uscire da una oscurità dannosa. Tutto quello che mi
avete detto oggi stesso, lo scriverò all'imperatore, e mi lusingo che ci
rivedremo presto. Ma ora ci conviene raggiungere il campo di battaglia. Sento
le fucilate. Ecco l'Ajace dei cacciatori: il marchese Sannazzaro... È meglio
che ci dividiamo, caro conte; questa dev'essere l'ala destra della caccia. Io
vado a capitanare la sinistra; a rivederci in casa Litta.
Il marchese Sannazzaro, giovinotto alto, forte, bruno,
peloso come un Esaù, era assai intrinseco di Beauharnais, e suo ajutante di
campo nelle battaglie di Pafo e di Cipro. Beauharnais, senza dirgli il perchè,
lo aveva incaricato di non lasciar più in libertà il conte Aquila, quando gli
fosse comparso innanzi. Il vicerè, che era stato tante volte a caccia nei
dintorni di Lainate, e conosceva benissimo i luoghi, era andato d'accordo col
Sannazzaro, il quale co' suoi cani lo attendeva da qualche tempo a un posto
determinato della campagna. Il conte Aquila, che era amico del Sannazzaro,
rimase così dunque con lui.
Se vuoi fare qualche colpo, disse il Sannazzaro al conte,
questo è un bel posto. I cani sono in lavoro. Discendi da cavallo, e dàllo lì
al palafreniere, che lo condurrà in quel pagliajo.
Il vicerè intanto, di generoso trotto, preso per una
scorciatoia che conosceva, raggiunse il grosso della comitiva.
Al generale Saint-Hilaire, suo ajutante di campo, aveva dato
incombenza di farsi presso al cavallo della contessa Aquila, di allontanarla,
con qualche pretesto, dal resto della schiera. Non vedendo adunque nè il
Saint-Hilaire, nè la contessa, chiese agli altri dov'era il suo ajutante.
La contessa A..., che parlava enfaticamente con un
colonnello dei dragoni reali:
Sono andati per di qui, rispose; c'è il poeta Foscolo con
loro.
Il motivo per cui Foscolo s'era staccato dalla contessa A...
fu perchè vide che il generale Saint-Hilaire s'era fatto a parlare colla
contessa Aquila, e manifestamente aveva voluto allontanarla dal resto della
compagnia. Come sa il lettore, egli aveva espresso all'amica un grande
interesse per quell'infelice signora. Vedendola cogitabonda e mestissima, gli
parve che fosse quel genere di mestizia a lui troppo noto: al vedere poi il
vicerè parlare al conte Aquila e trarlo seco, gli entrò il sospetto e si
confermò in esso quando osservò l'ajutante di campo di Sua Altezza fare
altrettanto colla contessa. Non sapeva nulla, non capiva nulla, ma deliberatamente
spronò il cavallo, e si portò ai fianchi della contessa Aquila, la quale un
momento prima gli aveva domandato qual'era l'edizione più compiuta e più
corretta dell'Ortis. Egli non poteva spiegarlo a sè stesso, ma conoscendo il
vicerè e sapendo che l'ajutante lo serviva nelle tresche amorose più che sul
campo di battaglia, quei movimenti lo misero in apprensione. Ugo Foscolo poteva
essere rimproverato di tutti i peccati, ma era generoso; generoso oltre la
sfera comune, generoso e cavalleresco.
Or continuando, Beauharnais mise il cavallo al galoppo. Dopo
pochi secondi vide infatti la contessa tra Saint-Hilaire e Foscolo, li
raggiunse, saettò con occhio iracondo l'ajutante; non osò far nessun atto
dispettoso con Foscolo; disse alla contessa:
Il signor conte vostro marito vi chiama.
Saint-Hilaire rallentò il cavallo: Foscolo, incerto, lo
rallentò esso pure, e si fece a parlare con Saint-Hilaire.
Il vicerè si pose a lato della contessa. Foscolo l'avea
veduta smarrirsi alla comparsa di lui. Stette attentissimo durante il breve
tempo che si trovò con loro. Quando Foscolo tornò presso alla contessa A...:
Sentite, le disse, se voi siete pentita di qualche vostro
peccato, oggi potete acquistarvi mille anni d'indulgenza, facendo una carità.
Di che si tratta?
Quel che vidi e quel che sospetto, lo terrei chiuso in me
per sempre; ma tacendo si può lasciar aperta
la via ad un gran disastro. Voi siete amica della contessa... Se le siete
amica, ditele dunque che stia in guardia. Ditele che quel gallo furfante di
vicerè vuol disonorarla; che però sappia ritirarsi a tempo da un vergognoso
abisso. Io abborro il conte; ma più di lui abborro il vicerè.
Ma come ora potete dirmi tutto questo, mentre un momento fa
non sapevate nulla?
Ho l'occhio medico, madama, e quando lo fermo sulla faccia
altrui, tutto quello che è di dentro m'appare di fuori. Avvisate dunque la
contessa. Ma che ogni cosa stia segreta fra me e voi. Nè che la contessa venga
a sapere mai ch'io ho parlato. Siete voi che avete visto, voi che date i
consigli. Intanto fate in modo che la contessa ed il vicerè non stiano più
soli. A me non conviene accompagnarvi. A rivederci alla villa.
Ugo Foscolo avrebbe fatto molto meglio a tenere in sè il
sospetto, e non a incaricare una donna di dar consigli a una donna. È sempre
un'impresa pericolosa. Ma è l'indole degli uomini generosi di mettere tutta la
propria confidenza nella persona amata, di metterla a parte di tutti i proprj
segreti, di desiderare che, in loro vece, s'innalzi con azioni gentili
nell'altrui concetto. Ugo Foscolo della contessa A... volea farne una
gentildonna perfetta; ma era arrivato troppo tardi.
In ogni modo, essa che non amava il vicerè (la ragione già
ci sarà stata), acconsentì al desiderio di Foscolo, girò intorno gli occhi,
chiamò il colonnello dei dragoni reali che già abbiam visto seco: Mettete gente
insieme, gli disse, e seguitiamo il vicerè.
E molti si misero al galoppo. Il colonnello stava ai fianchi
della contessa A...
Ed ora è certo che il lettore farà gli occhi attoniti, ad
onta di tutto quello che abbiam detto sul conto della A...; ma pur troppo le
faccende non eran nette con quel colonnello; Jacopo Ortis e all'Ombra dei
cipressi non furono rimedj abbastanza eroici per far la cura radicale di colei.
Essa in quel giorno sentì per il dragone, che aveva visto altre volte, una di
quelle accensioni di cui già parlammo; di quelle accensioni che le facevano
cacciar dietro le spalle ogni rispetto. Senza perder tempo, secondo il suo
costume, con quei suoi modi, dove la sfacciataggine (già non c'è altra parola)
si rendeva amabile per un garbo tutto suo proprio, aveva fatto la sua
dichiarazione al colonnello, il quale dal canto suo pare che abbia voluto tener
conto del proverbio che a caval donato non si guardi in bocca.
Raggiunsero il vicerè, che rimase sconcertato, e a tale che
a un certo punto dovette lasciar la contessa. Questa si mise con altre dame. La
A... era tanto infervorata del colonnello, che non si curò più della
raccomandazione di Foscolo. L'ora si fece tarda. Scavalcarono alla villa Litta
a Lainate. La contessa A... condusse le cose in modo da rimaner sola sotto un
androne col colonnello. Questo, tirato nel vortice, baciato, baciò; ma in
quella una scudisciata da cavallerizzo infierito fischiò e piombò sul tergo
afrodisiaco della contessa A... Era Foscolo, il quale avea visto, e che
accompagnò la scudisciata che fu il fulmine, con parole orride d'ingiurie che
furono la gragnuola.
Il colonnello guardò Foscolo, che lo guardava furibondo.
Vi fu un momento di silenzio.
Io sono il colonnello Baroggi.
Ed io sono Ugo Foscolo.
Allora a domani.
A domani.
Fu un parapiglia di un istante, nessuno vide. La A... entrò
nelle sale infuocata di erotismo insaziato, di vergogna e di rabbia.
Ma è possibile e probabile questo fatto che abbiamo narrato?
È codesta una questione inutile. Dal momento che un fatto è realmente avvenuto,
potrà essere strano, inverisimile, incredibile; tutto ciò che si vuole, ma non
cessare per questo d'essere avvenuto.
Foscolo, poeta sentimentale; Foscolo, cavaliere degno della
Tavola Rotonda; Foscolo che aveva tuonato nei caffè per difendere la rediviva
Aspasia, ha potuto percuoterla come una cavalla da maneggio? È un tormento a
pensarci, ma non c'è rimedio. Egli è certo che non fece bene; è certo che egli
doveva appagarsi di disprezzarla e di abbandonarla. È certo che anch'egli se ne
pentì e se ne vergognò nel punto stesso che vide contorcersi sotto il flagello
spietato le bianche spalle tanto care un minuto prima. Ma si può disfare e
rifare un verso; non distruggere una battitura. D'altra parte, volendo metterci
un istante ne' panni di Foscolo; volendo considerare che il suo temperamento
era tutto di materia incendiaria, non è possibile pretendere che all'inatteso
spettacolo dell'amante che bacia un dragone dovesse imitare quel professore di
diritto romano che si accontentò di mostrare al ganzo della moglie infedele che
cosa un marito offeso avrebbe potuto fare se si fosse attenuto al codice
Giustiniano.
Ma che Foscolo abbia avuto ragione o torto, è una questione
affatto secondaria. Le serie conseguenze furono che il segreto ch'esso per
generosità comunicò alla A... cessò di essere un segreto; che la contessa in
quel dì stesso lo comunicò alle altre sue amiche e alla Falchi e...
Vedremo in seguito quel che avverrà di questa istoria.
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