I
Nel tempo in cui Beauharnais diede quella festa, che fu
l'ultima del regno italico, la gloria e la potenza di Napoleone avevano
raggiunto il loro apogeo. L'adulazione dei letterati cesarei, che si eran fatti
imprestare dal Giove d'Omero i classici predicati d'Ottimo e di Massimo, per
darli a Napoleone, rappresenta compiutamente quel periodo. Al pari e più di
Nabuccodonosor, esso allora poteva dire: Non son più re, son Dio. Ma è una
legge eterna della natura e dell'umanità che il grado massimo delle cose sia
transitorio. Bonaparte impiegò quindici anni a toccare il vertice supremo d'una
onnipotenza umana, che quasi rendea l'ideale dell'onnipotenza divina; ma in
quindici mesi tutto precipitò. Il simbolo biblico del colosso dal capo d'oro e
dai piedi di creta è la formola perpetua che riassume la biografia di coloro, i
quali abusarono d'un genio smisurato per far violenza ai minori viventi,
andando a ritroso delle leggi economiche della società. Con ventotto mila
uomini in ciabatta, e dodici cannoni stracchi, Bonaparte in tre mesi spaventò
l'Europa. Con ottocentomila soldati e milleduecento cannoni provocò il
barbarico ghigno dei pidocchiosi Cosacchi.
Ma coi laceri e mal pasciuti battaglioni il genio aveva
operato miracoli, perchè trovò un ausiliario nelle aspirazioni
dell'universalità. Armato di una forza materiale quale non s'incontrò mai nella
storia, il genio si degradò e fu umiliato perchè pretese di soffocare i
desiderj legittimi delle nazioni. Assecondando le leggi della natura, un
fanciullo può far portenti, movendo una macchina ben congegnata; ma un braccio
d'atleta si spezza se pretende arrestare una ruota mossa dal vapore.
Il genio, essendo l'espressione massima della potenza delle
facoltà mentali che si corroborano e si esaltano a vicenda per la virtù di una
conflagrazione eccezionale che quasi esce dalla condizione fisiologica, se
appena d'un grado sorpassa quell'espressione, tosto si altera in modo da
diventare un accidente patologico. L'ingegno e il genio, già lo scrisse il
Sarpi, non sono altro che una lenta infiammazione del cervello. Concesso che
ciò possa esser vero, appena quell'infiammazione cresca di qualche poco, siamo
già allo stato dell'encefalite. Romolo, che senza dubbio fu un uomo di genio,
negli ultimi anni del suo regno ebbe tali afflussi di sangue alla testa e
diventò così prepotente e insoffribile, che i padri coscritti, tanto per
respirare, cogliendo l'occasione di un temporale, lo fecero scomparire dalla
terra e lo trasmutarono in una stella meno incomoda a loro e ognor cara alle
credule plebi. Il genio di Alessandro il Grande subì a trent'anni una così tremenda
flogosi, che trucidava gli amici a titolo di passatempo. Alla possibile
encefalite di Giulio Cesare apprestarono i congiurati la cura preventiva di
ventitrè salassi.
Tornando a Napoleone, come è noto che a Parigi vi fu un
momento critico in cui si pensò a farlo scomparire al pari di Romolo, così è un
fatto che dopo la pace di Tilsit, quando si vide ai proprj piedi i troni degli
altri re, e ricevette fumate di incenso adulatorio dal fallace Alessandro; e
vestì la polacca di velluto verde coll'ermellino e l'oro e i rubini per sembrare
più avvenente alla malfida di Varsavia, ei ritornò a Parigi tutto trasmutato e
così furioso d'orgoglio che gli si oscurò la vista e non discerse più il vero.
Nelle spedizioni fatali della Spagna e della Russia son
consegnate le prove della non breve malattia del suo genio. Ognuno sa come i
suoi luogotenenti ad una voce si lamentassero ch'egli fosse diventato inerte e
torbido e strano sui campi di battaglia. Ognuno sa come Ney abbia detto che
sarebbe stato ben meglio ch'esso si fosse fermato a Parigi a far l'imperatore.
Bensì la sventura doveva risanarlo; il ghiaccio di Russia e i disastri di
Spagna dovean ricondurre la calma e l'equilibrio nelle sue prodigiose facoltà
mentali, sebbene sia stato indarno, perchè fu troppo tardi. Il sansone ricuperò
la forza fatale, ma non gli valse che ad infrangere le colonne per rimanere
anch'egli schiacciato sotto alle rovine del tempio.
Piegando al concreto delle cose, tutt'Europa, negli ultimi
giorni del 1812, era variamente attonita per la notizia degli orrendi disastri
di Russia. Più di settecentomila famiglie gemevano in quei giorni o sconsolate
o tementi; in quanto all'esercito d'Italia, sapevasi come fosse ognora avvolto
in tutti i pericoli d'una disastrosa ritirata. Tutta Milano era in lutto;
disotto al lutto scoppiavano gli odj e le ire in addietro compresse. I lodatori
del nome napoleonico tacevano per paura; i giusti estimatori, che non si
lasciavan vincere nemmeno dalla mutata fortuna, si chiudevano in se stessi, per
non insultare alle piangenti famiglie; e tutti, stanchi delle voci vaghe e
generali che accrescevano le proporzioni della sventura, col non definirla,
aspettavano notizie più particolari, più esatte; aspettavano lettere di qualche
attore del sanguinoso dramma; aspettavano con impazienza carriaggi di feriti.
Il primo di gennajo del 1813 verso sera si sparse finalmente la voce che era
giunto a Milano, insieme collo scudiere Alemagna, il notissimo corriere
Barbisino, famosissimo allora per la sua robustezza fisica e per aver fatto più
volte quasi d'un fiato il viaggio da Parigi a Milano. Durante la notte, il
cortile dell'albergo dei Tre Re, dove il Barbisino alloggiava, fu per più ore
gremito di gente che si rinnovava ogni minuto. Il corriere, mentre cenava,
descriveva, raccontava, rispondeva a cento domande.
La tavola a cui esso sedeva, era tutt'all'ingiro circondata
da una folla stipatissima di ascoltatori.
Senti, Trasella (così parlava il corriere, e Trasella era il
nome del maneggione dei Tre Re), giacchè l'ora è tarda, dovresti far chiudere
l'osteria e mandar a casa tutta questa santa croce di gente, che con tanto
freddo sta lì ad aspettare in corte. Già è impossibile che io abbia potuto
veder tutti i loro parenti e figliuoli che hanno militato in Russia... Bisogna
dir loro che si preparino a non veder più nessuno. Di seicento o settecento
mila uomini è molto se rivedranno le loro case da dieci a dodici mila giovani.
Per duecento leghe continue io non ho visto che morti. Morti di freddo, di
fame, di malattia. Chi è morto è morto, e non c'è rimedio. Io credo che, dal
diluvio in poi, non sia mai successo un disastro così spaventoso. Il mio
collega Brioschi è morto di freddo poco lontano da Vilna, e il corriere Rampini
che viaggiava con lui ha dovuto di propria mano scavargli la fossa e
seppellirlo. Bisogna averle viste e passate a cavallo quelle pianure sterminate
di ghiaccio e di neve. Bisogna aver provato l'effetto di quelle solitudini
immense, e di quel silenzio profondo e misterioso, che mi faceva credere
d'esser fuori di questo mondo. Vi basti il dire che persin la vista dei
cadaveri mi alleggeriva dallo spavento e mi faceva compagnia. Era per essi se
m'accorgevo d'essere ancora a questo mondo.
Ma, e Napoleone?... chiedeva un ascoltatore.
E di tanto in tanto quell'orrido silenzio veniva rotto da
scoppj violenti, i quali mi facevan credere che da lontano continuasse ancora
la battaglia... E dite un po', che cosa era? Erano i tanti e tanti cavalli
morti, che imputriditi e gonfiati e ingrossati come elefanti, crepavano per dar
sfogo ai gas in fermentazione...
Ma, e Napoleone? chiedeva per la seconda volta il solito
ascoltatore.
Questo signore l'ha sempre
con Napoleone. Napoleone sta ora scaldandosi al caminetto... Per adesso non le
posso dir altro... Ma a Parigi si sparla assai del suo contegno, e dell'aver
abbandonato l'esercito, e dell'aver lasciato tutto nelle mani di Murat, che poi
se la cavò per lasciar nell'impaccio il vicerè... Ma, a proposito di caminetto,
Napoleone ha detto una parola che irritò tutti i Parigini, e segnatamente
coloro che hanno perduto e piangono, o aspettano i loro figliuoli assassinati.
E che cosa ha detto Napoleone?
Ha detto, fregandosi le mani, ch'ei si trovava assai meglio
al caminetto di Parigi che al ghiaccio di Russia...
Fin qui non poteva dir altrimenti. Sfido io!
Certe cose si pensano, e non si dicono... Ma, dopo tutto,
non sarebbe mai escito in quelle parole se fosse stato in mezzo ai soldati.
Sapete, a proposito, che cosa mi raccontò lo scudiere Alemagna, che ho trovato
a Parigi, e che ha perduto a Brescia i dispacci del vicerè? Mi raccontò,
dunque, che l'ira e la disperazione e l'insubordinazione erano a tal punto fra
gli stessi soldati della guardia, i quali per il freddo soffrivano fino allo
spasimo, che non seppero tollerare che Napoleone stesse chiuso in carrozza, e
gli gridarono minacciosi: Giù dalla carrozza! e Napoleone, atterrito di quella
dimostrazione per lui strana e nuovissima più che del pericolo di cadere nelle
mani di Pultow (il quale, se non lo sapete, è un generale cosacco tutto pieno
di pidocchi e in tanta famigliarità con essi che allorquando sta riposando si
diverte a farne la caccia sulla propria testa)... Dunque... che cosa dicevo?
Ah, dunque Napoleone fu così atterrito da quel grido d'indignazione disperata,
che discese a piedi, calcando la neve, insieme cogli altri. Ma nemmeno questo
bastò, perchè essendo tutto imbacuccato nella pelliccia, i soldati tornarono a
gridare: Fuori la pelliccia! Ed egli si mise in redingote, perchè i soldati lo
guardavano come chi ha volontà di metter altrui le mani addosso. Questi fatti
precisi li seppe il conte Alemagna dall'ajutante del vicerè.
E che cosa dicono i Parigini?
Che cosa dicono? Se non fosse per la lingua, un forastiero
potrebbe credere di essere piuttosto a Londra che e Parigi.
Cioè?...
Cioè... non mi capite? Voi altri sapete quanto Napoleone sia
odiato dagli inglesi. Ebbene, fate conto che, in confronto dei Parigini, gli
Inglesi possono passare per adulatori. In quarantott'ore che mi son fermato a
Parigi, non ho sentito che bestemmie, e ingiurie e satire. In ogni modo,
torneranno a tacere, perchè il ministro Fouché è l'uomo dei miracoli, e fra
pochi dì chi non saprà parlar bene, starà in silenzio. Intanto è pericoloso a
pigliar le difese di S. M. nei pubblici convegni, tanto è vero che (e questa
che vi vendo è nuova di zecca) il nostro conte Aquila che trottò a Parigi, per
vedere più dappresso il temporale, così almeno mi fu detto, e in un caffè, con
quel suo fare altero e dispotico, diede sulla voce a un Francese perchè
insultava alla sventura (tali erano le sue parole), poco mancò non venisse
maltrattato da quanti erano presenti. E vi dirò inoltre che fu esclusa da
qualche casa quell'intrigante petulantissima della moglie dell'avvocato Falchi,
la quale andò a Parigi invece del marito; e colà faceva da profetessa, e
assicurava vittorie grandi e prossime, e tutto ciò perchè le premeva di
smerciar i boni del tesoro che l'avvocato ebbe troppa premura di acquistare.
Queste cose io le sentii a Parigi da un commesso viaggiatore, e vi ripeto che
due o tre case di banchieri, dove probabilmente ci sarà stato da piangere
qualche giovane soldato morto sotto il ghiaccio, la misero sgarbatamente alla
porta.
Queste parole franchissime, pronunciate in una pubblica
osteria da un corriere pagato dal governo, dimostrano come fosse cessata, per
il momento almeno, l'idea della sterminata autorità napoleonica, e come ognuno
desse libero sfogo ai proprj sentimenti, avendo ritornato il dio alle
proporzioni dell'uomo. I cittadini milanesi, seguendo l'impulso di quell'indole
che ne costituisce il carattere speciale (ed è quello di trar materia di ridere
anche da qualunque sventura), ricamavano di barzellette e dicerie ed epigrammi
la tremenda epopea tragica di Napoleone; ma perchè non si creda che fossero spietati
dell'altrui sventura, convien dire che continuavano le celie anche allorquando
del gran disastro napoleonico, essi insieme col resto dell'impero, dovettero
adattarsi a pagar le spese per tentar di rifare il disfatto colosso.
Ognuno sa come, appena Napoleone fu giunto a Parigi, a
tutt'i sudditi del vasto impero fu fatto intendere dai ministri, dai prefetti,
dai sottoprefetti, la necessità di fare a Sua Maestà delle oblazioni
volontarie. Per fermarci a Milano, tutti i corpi pubblici mandarono copiosi doni
all'imperatore; tutti i magistrati, tutti gli impiegati, tutte le classi
cittadine, i banchieri, i negozianti, i giojellieri, gli orefici; gli ordini
degli avvocati, dei notai, dei ragionieri, dei medici fecero a gara nell'offrir
danari e doni, in virtù di quella volontà comandata, che spesso è più forte
della volontà spontanea. L'Ospedal Maggiore e quello di S. Corona concorsero
anch'essi, per mezzo degli amministratori, ispettori e giù giù fino agli
infermieri, a quello scopo. Gli stessi preti in cura di anime nei due nosocomj
si tassarono soldi quindici per ciascuno. L'impresario della Scala diede una
serata a beneficio di S.M., e in quella sera tutti i virtuosi di canto e di
ballo fecero una colletta, che trasmisero alla direzione del R. Teatro. Mad. Ribier,
modista della viceregina, mandò al ministro la oblazione di franchi trecento.
Ma, come dicemmo, se i Milanesi si distinsero per l'abbondanza delle
elargizioni, nel tempo stesso se ne ricattavano con satire. Una mattina di
gennajo molta folla s'accalcava per leggerne una, che a grandi caratteri era
stata impastata sul portone di mezzo della Metropolitana. La satira era questa:
Milan l'è de vend:
In quaresma l'istrument.
General e uffizial
Hin tucc all'ospedal:
De soldaa ghe n'è pû;
Bonapart el cerca sù.
Questa era l'espressione comica del sentimento generale dei
Milanesi, segnatamente della classe operaja e della gente minuta. Ma se
l'espressione era comica, conteneva nella sostanza qualche cosa di
terribilmente profetico, che potea dar da riflettere agli uomini serj. Il verso
Milan l'è de vend , come un'effemeride astronomica, annunciava gli accidenti
dell'anno successivo.
A queste satire in vernacolo, rappresentanti l'acume
popolano che riassumeva il vero senz'odio e senza menzogna, facevano
contrapposto altre satire che circolavano manoscritte e si leggevano ne'
crocchj del teatro, nelle conversazioni, nei caffè; ed erano l'espressione
delle ire e delle antipatie di qualche patrizio incarognito pel passato, di
qualche letterato testardo, di qualche prete che aveva perduto la prebenda.
Già fin dal dicembre, quando Napoleone a grandi giornate
s'affrettava a Parigi, erano corsi per tutte le mani i seguenti distici:
Napoleon quondam Magnus cognomine dictus,
Nunc merito in castris dicitur exiguus.
Coelo ipsum petiit furibunda superbia regis,
Dementem regem
deprimit ipse deus.
Funditus absorpta
est, Bonapars, victoria; avitos,
Si poteris, satis
est, tutus adire lares.
Nei primi mesi dell'anno 1813 il cavaliere Aldini scriveva
incessantemente ai ministri del regno italico, perchè sollecitassero indirizzi
da tutte le parti a felicitare l'imperatore, ad assicurargli attaccamento e
fedeltà, a lodarlo dell'avere saputo scappare perfino all'ira degli elementi, a
far voti per nuove e più gloriose vittorie; e tosto corse per Milano un
epigramma, che si disse mandato da Roma da Alessandro Verri al fratello Carlo,
che fu poi presidente della reggenza. Il conte Carlo lo lesse in privato a
pochi e fidatissimi amici, coll'esortazione preliminare di non parlarne in
pubblico, o almeno di tacerne l'origine. Ma, come al solito, il segreto fu
sparpagliato ai quattro venti, e l'epigramma lo ebbero anche i cioccolattieri,
che se lo fecero tradurre da qualche canonico. Eccolo nell'originale latino:
Napoleon Regum dedecus, furumque magister,
Quem tota abhorret progenies hominum.
Attamen a cunctis
laudari mandat et ambit.
Nec pudet heroem se celebrare virum.
A poco a poco però le satire scomparvero; un po'
gl'indirizzi, un po' i giornali, un po' le notizie che venivano da Parigi, un
po' il falso, un po' il vero; ma più di tutto il fatto che Napoleone delle
oblazioni dei sessanta milioni di sudditi e dei mezzi finanziarj improvvisati
per miracolo, e del novello esercito che si vedeva a comparire da tutte le
parti, accennava di ristaurare il crollante edificio; tutte queste cagioni
insieme fecero tale effetto, che l'ammirazione compressa ricominciò ad
espandersi, che gli amori che parevano spenti si rinfocarono, che i suoi nemici
vecchi si rintanarono, che i suoi devoti intiepiditi si riscaldarono ancora. E
di giorno in giorno ritornavano gli avanzi dell'esercito italiano. Il popolo
andava ad incontrarli alle porte; erano ovazioni, erano sfoghi d'affetti.
Alcuni mesi prima Napoleone veniva maledetto; mentre, ad onta di tanti
antecedenti avversi, il principe Beauharnais veniva esaltato pei suoi
sagrifizj, per la sua costanza, perchè solo era rimasto a proteggere la
ritirata degli estremi avanzi del grand'esercito.
Ma i convogli dei reduci feriti vennero a cambiare il favore
popolare in odio; si raccontarono le ingiustizie fatte da Beauharnais ai
soldati italiani, si raccontavano le controversie avute col general Pino;
l'iniqua malizia con cui impedì alla divisione di quel generale di segnalarsi
in più fatti d'armi ove il suo aiuto sarebbe stato tanto salutare. In una
parola, Napoleone fu rimesso sul piedestallo, e il vicerè fu generalmente
detestato. Ad accrescere quest'odio giunsero da Parigi a Milano il conte Aquila
e la moglie dell'avvocato Falchi. Essi avevano fatto il viaggio in compagnia.
L'ambizione che aveva spinto a Parigi il conte Aquila, e i boni del tesoro per
cui la moglie dell'avvocato erasi recata a scandagliare le banche francesi,
furono le cause funeste degli avvenimenti che racconteremo.
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