VII
La sera del 12 aprile il conte Aquila entrava in Milano da
Porta Vercellina. Egli aveva già dato avviso al maggiordomo del proprio arrivo
e indicatone anche il giorno e approssimativamente l'ora. Dopo il dialogo avuto
colla Falchi non aveva più scritto alla moglie; soltanto nelle lettere dirette
al maggiordomo, gli aveva sempre lasciato
l'incarico di porgere alla contessa i proprj saluti. Come un re di Spagna non
poteva mancare a nessuna legge del cerimoniale domestico; d'altra parte non
voleva tradire alle persone di servizio i proprj segreti. La carrozza di casa
era a pigliarlo all'Ufficio delle Messaggerie. Era notte tarda quando l'androne
del suo palazzo risuonò del rumore delle ruote e dello scalpito dei cavalli.
La contessa si sentì rimescolare il sangue a quel rumore.
Era gioja? era dolore? Non lo sappiamo. Probabilmente era l'effetto d'uno di
quei sentimenti indefiniti che da qualunque cagione derivino, non fanno mai
bene alla salute.
Per quanto ci dà la nostra esperienza, ben di rado avviene
che al ritorno d'un marito in casa propria da una lunga assenza, risvegli il buon
umore in coloro che hanno l'obbligo di aver sentito un gran vuoto per la sua
lontananza. Spesso noi abbiamo assistito al ritorno più o meno atteso di
qualche marito, e sempre abbiam dovuto
conchiudere che colui avrebbe fatto un gran buon effetto a non ritornare così
presto. Per caro che sia un marito, per quanto penelopea possa essere una
moglie, la presenza di lui implica sempre
sudditanza, obbedienza, impaccio. Perfino gli amici e le amiche di casa se ne
risentono. Quante volte, seduti a lieta mensa, a mensa innocente, intendiamoci
bene, dove l'allegria la più schietta animava la brigata invitata dalla
vice-gerente moglie; a un tratto vedemmo dileguare la generale festività
all'improvviso annunzio recato in tavola insieme colla zuppiera: È arrivato adesso
il signor padrone!
Ben è vero che all'entrare che fa il padrone nella sala
comune, la moglie gli si fa tosto incontro con mille gentilezze, ed è perfino
capace di baciarlo; gli amici e le amiche di casa vanno in cerca delle più belle
espressioni per festeggiarlo; ma non bisogna fidarsi delle apparenze; ma dopo
pochi minuti i visi sono tutti aggrondati, cominciando da quello del marito,
che non era preparato a trovar tanta gente in casa. Il lettore non può
immaginarsi l'avversione che, in generale, noi abbiamo per i mariti; essi sono
i veri autocrati della vita intima, senza sindacato e senza equilibrio di
poteri; è tanta la paura che abbiamo di loro, che abbiamo paura persino di noi
stessi; giacchè il lettore deve sapere, e lo diciamo perchè si accorga che
siamo in buona fede, che anche noi, sebbene senza vocazione, ci troviamo
ascritti alla sterminata camorra di coloro che hanno rinunziato alla libertà,
per il barbaro diletto d'impacciare l'altrui.
Non è dunque ad immaginare come si respirò in casa Aquila
durante la lontananza del conte; come la servitù sentì tutta la beatitudine
dell'obbedienza volontaria che avea prestato a quell'angelo della contessa;
come questa fosse lieta di trovarsi in mezzo a tanta gente che la servivano adorandola;
come ella poi, trovandosi a tutto suo agio e libera dall'orrido incubo
maritale, avesse già messo sulle guancie, fatte più piene, un lieve color di
rosa, il quale era scomparso dal giorno che dal collegio passò nelle spire del
suo serpente sacramentale, stato benedetto dal signor curato!
Quando si pensa alla leggerezza crudele onde i genitori
gettano le loro figliuole inesperte nelle mani del primo che capita, senza
esaminare previamente il carattere intimo, senza conoscere le abitudini, spesso
anzi non curando la pubblica fama che, se non sempre,
qualche volta è un surrogato delle leggi impotenti: quando si pensa al numero
sterminato di agonie tormentose e lunghissime subite da tante e tante infelici
che i mariti hanno ammazzato in tutta pace, e persino nell'apparente e recitata
bonomia delle pareti domestiche, e senza nessuna revisione legale; quasi si
dura fatica a trovare indispensabile l'instituzione del matrimonio; e senza
quasi, la coscienza spaventata si ribella ai codici invalsi.
Allorchè il conte Aquila, salito lo scalone, fu per entrare
nel proprio appartamento, la contessa, insieme colla propria madre, che per
caso quel giorno trovavasi là, fu sollecita a muovergli incontro. Ma il conte
la salutò severamente, secondo il suo costume; salutò la madre secco, e comandò
al maggiordomo, ch'era là anch'esso, di seguirlo in camera. Dopo alcuni minuti,
stando la madre e la figliuola nel gabinetto di questa ultima, sentirono la
voce del conte alterata e iraconda, e il maggiordomo che di lì a poco uscendo
dalle stanze del padrone, diceva sottovoce:
Non si può più vivere in questa casa.
S'egli è vero che, per consueto, i padroni di casa, come
tutti coloro che esercitano un'autorità qualunque, provocano in chi li avvicina
un sentimento il quale, anche allorquando le indoli son buone, insieme
coll'amore e col rispetto, tien tuttavia in deposito qualche elemento di tedio
e di pena; figuriamoci poi che tristissimo effetto essi sono destinati a
produrre quando i caratteri sono orgogliosi, acri e tempestosi, e l'affetto non
li riscaldò mai nemmeno durante il fuggitivo corso della luna di miele: un
senso assiduo come di paura impaccia ogni pensiero, ogni gesto, ogni atto della
povera moglie e di quanti sono condannati ad obbedire ed a servire in casa. Il
conte Aquila, già lo sappiamo, apparteneva a questa genìa spaventosa dei
tiranni domestici. Il maggiordomo non aveva ricevuto dal padrone che rabbuffi e
parole crude per ogni menoma cosa che non gli fosse piaciuta; o un avaro ed un
austero silenzio quando ne aveva indovinata ogni volontà. I servi e le
cameriere si presentavano ai suoi ordini con pauroso rispetto; la moglie non
differiva dai servi che per il posto gerarchico, il quale però contribuiva ad
accrescere la sua rispettata servitù.
La contessina chiamò in gabinetto il maggiordomo:
Che cosa ha il conte? gli disse.
Io non so più, signora contessa, che cosa fare. Nemmeno il
Padre Eterno, se venisse al mio posto, potrebbe accontentarlo. È andato in
sulle furie perchè ho affittato al colonnello Baroggi l'appartamento del
secondo piano. E consideri, signora contessa, che prima di partire, fu egli
stesso a darmi l'ordine di affittarlo anche a qualche ufficiale dell'esercito,
se si fosse presentato. Adesso si lamenta perchè ci sarà l'incomodo delle
ordinanze e dei cavalli che vanno innanzi e indietro. Ma doveva saperlo anche
prima, mi pare.
Abbiate pazienza. Domani non si lamenterà più, quando saprà
che il colonnello e sua moglie sono due buonissime e gentilissime persone...
Ora andrò là io a dirgliene qualche cosa.
Signora contessa, la consiglio a non andarci. Mi ha detto
che era stanco, e voleva andar subito a letto, e mi ordinò di non lasciar
entrar nessuno da lui: chiunque sia.
Ma io non sono un conoscente qualunque che venga a fargli
visita.
Questo lo so... ma volevo dire, che nemmeno lei lo
troverebbe di lieto umore.
La contessa stette in forse perchè, pur troppo, conosceva
suo marito; ma d'altra parte pensò che a non farsi vedere la prima ora del di
lui arrivo, era un atto di trascuranza non perdonabile ad una moglie; si recò
dunque al di lui appartamento; bussò leggermente alla porta, e con quel suo
accento naturalmente soave, e in quel punto fatto più tenue e gentile dalla
titubanza:
Si può entrare? domandò.
A domani, contessa, rispose bruscamente il conte; sono già a
letto, e voglio dormire.
Ella tacque: stette ancora in forse; poi con voce che quasi
non si poteva sentire:
Felice notte, disse, e partì assai pensierosa, perchè il
conte non si era mostrato mai come allora tanto scortese con lei.
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