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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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XI Siamo ai 27 dicembre dell'anno 1813. Il teatro della Scala è aperto al pubblico; è incominciata la stagione di carnevale; non ostante la notte chiusa e nera, e la neve che cade a larghi fiocchi, il pubblico vi si è affollato, e la fila delle carrozze non manca di far ingombro alle vie del Giardino e di S. Giovanni alle Case. L'opera è l'Aureliano in Palmira del maestro Gioachino Rossini; il ballo è l'Arsinoe del coreografo Gioja. Calata la tela dopo il primo atto, fra clamorosi applausi alla Correa ed al Velluti, qualche frazione della platea e alcuni palchettisti si versano nelle sale del Ridotto dove, fin dalle sette, accigliati e cupi, stanno i professionisti e i dilettanti della rolina, indifferenti ai progressi della musica ed alle coscie della ballerina Millier. In quella sala del Ridotto che sta dietro alla sala maggiore, e che, nell'inverno, è confortata dalla presenza del camino, un cerchio di persone tutte in piedi stavano intorno ad un cerchio minore di persone sedute al camino, sul quale ardeva della bragia in consunzione. Tra le persone sedute, chi attirava l'attenzione di tutti era un vecchio di anni 127 (diciamo centoventisette anni), ed era quel maestro Galmini, di cui parlammo già indietro, che, nato nel 1687, doveva morire 138 anni dopo; e fu il caso più straordinario di longevità che siasi presentato nell'evo moderno. Ancor sano e vegeto, sebbene un po' indebolito nelle gambe, da Parigi era venuto a Milano nell'autunno, ed aspettava la primavera per ridursi finalmente a Firenze sua patria. Non aveva mai sentito la musica di Rossini, e quella sera volle recarsi in teatro per farsi un'idea del genio del maestro ventiquattrenne, di cui si pronosticavan prodigi. Mi ricordo, diceva quel vecchio, con voce un po' fievole, mi ricordo dello scalpore che si fece quando il maestro Monteverde, io allora era un ragazzotto, mise in rivoluzione tutta la musica; son passati più di cento anni da quel tempo. In confronto di questo giovinotto, che è come l'organo di una cattedrale, quel maestro assomigliava agli organetti che insegnano il canto agli uccelli; eppure allora era detestato da tutti i suoi colleghi per il troppo rumore che aveva introdotto nella musica. Ora io sento a dire lo stesso di questo giovane, e i vecchi gli sono tutti avversi, e anch'io lo sarei, se avessi la metà degli anni che ho. Ma a questa età trovo giusto quello che non mi sarebbe sembrato mezzo secolo fa. In che modo stia quest'affare, non so. Ma forse avendo vissuto il doppio degli, altri, or mi trovo d'accordo coi giovani; press'a poco come chi, alla corsa dei fantini, avendo avanzato gli altri d'un giro intero, finisce col trovarsi in compagnia degli ultimi. E questo non avviene soltanto in musica; parlo della musica perchè sono in teatro, e perchè fu la mia professione; ma in tutto il resto m'è riuscito così. Mi ricordo quando giunsero in Italia le prime opere di Rousseau e di Voltaire. Io allora viaggiavo dai cinquanta ai sessant'anni, e quei libri mi scandolezzavano assai mentre la gioventù vi spasimava dietro. Or venne il famoso 89; io aveva vedute a quel tempo tante e così orrende cose nel mondo, e comprendendo tutt'intera la verità, compresi anche quello che non piaceva agli uomini di 60 anni e metteva in esaltazione i giovani di venti. I giovani capivano per istinto, io per esperienza. Avevo fatto mezzo giro di più che tutti gli altri uomini. Il sangue che si versava in Francia allora, trovavo che non era una strage inumana, ma bensì la cura dei salassi abbondanti fatti all'umanità minacciata di apoplessia. Io mi trovai d'accordo coi giovani in quest'idea. E adesso, anche adesso mi accorgo che io non vado d'accordo che colla gioventù, sempre per la medesima ragione. Tutti i giovani, meno i coscritti che scappano perchè son fatti scappare dagli uomini maturi e dai vecchi, tutti i giovani vedono con dolore i disastri dell'imperatore, mentre i vecchi e gli uomini maturi, anche allorquando non lo dicono, danno a divedere che non hanno altro desiderio che di vederlo caduto, e per sempre. Vissi in questi ultimi mesi a Parigi; nel ritorno ho attraversato lentissimamente la Francia; mi accorsi che dappertutto è così. Ora io domando: che cosa sarà per succedere di bello quando Napoleone sarà caduto? Se adesso mi sento giovane colle idee, allora ritornerò giovane di fatto, perchè il mondo avrà fatto un passo indietro di cento anni. Mi si dice che Napoleone è un tiranno. Ma si diceva lo stesso anche di Giulio Cesare; e vorrei sapere che cosa avvenne di bene nel mondo dopo che quelle teste esaltate di Bruto e Cassio e compagnia, lo han mandato al diavolo? Ma se egli cade, perchè i suoi nemici sono più numerosi di lui e perchè l'Europa è stracca, di chi è la colpa, signor maestro? Chi parlava era il conte Aquila. Il vecchio Galmini volse a quelle parole la testa verso il conte che stava dietro di lui, e gli disse: Il signore che parla, quanti anni ha, se è lecito? E allora è troppo vecchio per me. Non è possibile che c'intendiamo; e si alzò, un po' tremolante, e dicendo al giovane che gli stava presso e lo ajutava del braccio: È tempo di ritornare in palco, perchè il secondo atto sarà incominciato, e la musica è men pericolosa della politica. La maggior parte degli astanti tennero dietro a quel vecchio degno dei patriarchi e della Bibbia, e che faceva l'effetto di un indice e di un sommario storico. Non rimasero vicino al camino che il conte Aquila con cinque o sei amici, tra i quali trovavasi quel Giocondo Bruni di nostra antica conoscenza, che in quel giorno stesso era arrivato da Parigi e da quel tal conte, cognominato il Milordino, era stato presentato all'Aquila. Tra il conte Aquila e il Bruni si avviò allora un dialogo, che noi abbiamo la fortuna di poter riportare quasi testualmente perchè ci fu riferito dal Bruni medesimo.
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