II
La condizione della città di Milano, nel dicembre dell'anno
1813, presentava i sintomi di una malattia, come suol dirsi, di carattere, ma di
cui era difficile a prevedersi e a prefinirsi la qualità, la gravezza, la
durata e la riuscita. Lavoravano in lei molteplici elementi occulti, che ad
esplodere o a ritirarsi inoffensivi aspettano l'esito di circostanze superiori
e fatali.
Nei primi mesi dell'anno successivo, quei sintomi si vennero
sempre più aggravando. Le cause nascoste di
tanti effetti futuri e contingenti a seconda delle funeste notizie che venivan
dal campo della guerra, uscivano dallo stato d'aspettazione nel quale ad
intervalli si adagiavano, per agitarsi nel campo dell'azione ed accelerare i
desiderati rivolgimenti.
Abbiamo detto che molti partiti in quel frattempo si vennero
costituendo in Milano. V'era quello di chi voleva un regno d'Italia
indipendente con Beauharnais sul trono. E chiamavasi il partito delle marsine
ricamate; ma vi appartenevano tutti coloro che, per combinazioni dirette e
indirette, avevano potuto raccogliere molte ricchezze sotto al governo
francese. A tale partito (ciò che a tutta prima può destar meraviglia, ma che
diventa chiaro dopo qualche esame) appartenevano, pure sebbene col semplice
desiderio e senza azione efficace, tutti quelli che dalla natura avevano
sortito il senso retto dello cose, che nella vita avevano imparato a fare i
conti sempre in compagnia dell'oste; e che,
vivendo di libere entrate o di pensioni molto ipotecate, o di proventi non
attaccabili dal flusso e riflusso degli eventi sociali, potevano vedere la
condizione della patria, come spettatori seduti in platea, i quali giudicano il
dramma senza essere nè parenti nè amici dell'autore.
Ma costoro, com'è naturale, non solo erano in pochissimo
numero, ma conducevano una vita, che equivaleva al non essere, perchè non
parlavano mai con nessuno, non dicevano mai il loro parere a nessuno; e se al
teatro, all'osteria, al caffè venivano trascinati repentinamente nel vortice
del tema consueto, sfoggiavano tosto tutta la loro bravura nella così detta
arte delle cavatine. Care persone, ma meno utili delle cariatidi di molera;
orologi perfetti e precisi, ma senza sfera che indichi l'ora.
Un altro partito era quello dei vili, degli indifferenti,
degli immobili, dei materialoni, degli imbecilli e dei bigotti; per conseguenza
era il partito monstre e, pur troppo, era quello che aspettava l'Austria come
un tocca e sana.
Quasi tutte le casane milanesi che avevano i servitori coi
passamani; quasi tutti i monsignori, i mezzaconici, i canonici, i cappellani
corali del Duomo, di S. Ambrogio, di S. Babila e di S. Celso vi erano
naturalmente aggregati. Un terzo era il partito di cui abbiam già parlato e del
quale conosciamo i personaggi: il partito italiano puro; puro però sino ad un
certo segno; perchè il suo agitatore principale, se aveva la mente sana, aveva
il cuore guasto. Gli uomini poi di grande ingegno, di gran cuore, infervorati
dell'amor di patria, non costituivano veramente un partito; tanto era scarso il
loro numero! Essi vedevano l'Italia in quel periglio che avevano preveduto, ma
non nutrivano speranze per l'avvenire e non si attentavano di suggerir rimedj.
Erano irritati di tutto e contro tutti, e, sebbene lor paresse che delle
sventure la men grave fosse ancora il principe Beauharnais fatto re d'Italia,
pure non osavano consigliare ai mali d'Italia un rimedio non italiano. Ugo
Foscolo era tale da rappresentare la schiera meditabonda e disdegnosa di questi
solitari.
Tornando al primo partito, a quello che veniva generalmente
chiamato il partito delle marsine ricamate; dobbiamo aggiungere che se
l'appellazione era giusta, era pur vero che in mezzo a quelle marsine v'erano
degli odiatori accanitissimi del vicerè e del nome francese e di quanti venivan
denominati i servili. Odiatori non liberi nè indipendenti nè equi, ma
sovreccitati da interessi privati, da offese ricevute, da speranze frustrate.
Tutti gl'impiegati che non erano stati nominati al posto
ambito; che s'eran presentati inutilmente a qualche udienza vicereale; che dal
principe o da qualcuno dei ministri avevano ricevuto, o credevano d'aver
ricevuto, delle ingiustizie, tutti costoro soffiavano a piena gola nel pubblico
malcontento, per tenerlo sempre desto e perchè
si risolvesse alfine in un vasto incendio.
Per citare qualche esempio,
il giudice cavaliere F... da qualche tempo era diventato il più feroce e il più
impaziente di tutti. E la ragione ne era chiara. Egli era stato chiamato dal
Luosi a dar conto del suo operato nel fatto della causa Baroggi: con sorpresa
udì dal ministro, come il vicerè avesse scritto, che, al suo ritorno a Milano,
avrebbe dato corso rapidissimo alla giustizia; con terrore apprese inoltre che
il colonnello Baroggi e il signor Andrea Suardi s'erano espressamente recati a
Lubiana per parlare al vicerè, al quale avean esposto, come nello studio del
notajo Agudio dovevano esser state acquistate, allo scopo di farle scomparire, delle
carte d'importanza, sufficienti a comprovare l'autenticità del testamento; del
qual fatto forse consigliatore e complice, per più indizj, pareva essere lo
stesso giudice del tribunale.
Bene avea dovuto accorgersi che il Luosi, timoroso di sè per
le future contingenze, mentre con insolita severità gli avea parlato della
collera del vicerè, avea tuttavia dato a divedere di non voler farsene
l'interprete nè il più attivo nè il più sollecito; e a prova di questo gli
bastò avere il gran giudice lasciato passare alcuni giorni prima di chiamare a
sè e d'interrogare il notajo Agudio; forse per dar tempo di far scomparire le
traccie del fatto a chi aveva potuto aver mano in esso. Ma se il vicerè
tornava, ma se quelli che lo volevan re d'Italia avessero avuto il sopravvento;
in che tremendo spineto egli veniva a trovarsi! E nello stesso pericolo
trovavansi pure avvolti e fatti compagni solidali l'avvocato Falchi, e, più di
tutti, il marchese F..., avuto riguardo alla sua carica di consigliere di
Stato, cui era stato nominato dallo stesso Napoleone, a dispetto e all'insaputa
di Beauharnais che, non si sa per quali ragioni, avea sempre
detestato quel patrizio milanese.
Immaginiamoci ora dunque quale efficace e terribile
influenza dovessero esercitare tutte queste persone variamente autorevoli e
potenti su tutto il pubblico vessato ed espilato in cento modi, e più
recentemente percosso da un'ultima requisizione sterminatrice, che fu l'uno per
cento messo ai capitali impiegati con ipoteca sui fondi dei debitori, e da pagarsi
dai medesimi in proporzione che si spogliavano i registri; requisizione che
doveva involare al popolo altri sessanta milioni. Al cospetto di questo fatto
enorme, tutti i partiti, tutte le classi si fondevano in una massa sola, vasta,
cupa e mugghiante. E il ministro Prima, che era l'autore spietato e
imperterrito di quelle tasse, riceveva sopra di sè, perché era presente, tutti
i colpi dell'odio pubblico preparati per il vicerè assente, in nome del quale
venivano estorte.
La cosa pubblica e le vicende private de' nostri, personaggi
versavano in queste condizioni alla seconda metà del mese di marzo dell'anno
1814. La campagna di Francia, nella quale Napoleone inutilmente era stato
soprannominato il Centomila uomini, precipitava al suo fine. Il cielo politico,
lungo tutta la zona d'Italia e Francia, andava sempre
più tempestosamente annottando. In quella notte buja gli uomini dell'azione
lavoravan celati. La guerra dei partiti e degli uomini individui che
capitanavano opposte fazioni veniva fatta all'oscuro. Il conte Ghislieri sotto
mentite spoglie era tornato a Milano in fretta e in furia. Era il corvo che
chiamava altri corvi, per calar tutti insieme e d'accordo dello Stato alla
carogna. Il conte Aquila coi suoi aderenti, dal proprio palazzo avea trasportato
la sede dei convegni in casa Falchi, specie d'albergo politico, molto simile a
quelle osterie sinistre, dove l'oste e l'ostessa fanno da manutengoli ai
contrabbandieri, e in un bisogno scannano anche gli avventori.
Una sera appunto del marzo di quell'anno fatale, il conte
Aquila trovavasi in casa Falchi, solo con madama.
Sono già le undici e non si vede nessuno, ella diceva.
Nè verrà nessuno per questa sera. Ho detto ai soliti amici,
ch'era meglio sospendere questi ritrovi serali. Nel pubblico è trapelato
qualche cosa. È meglio stornare ogni sospetto. D'altra parte, già son gente che
bisogna condurli a mano, e non c'è nessuno che abbia iniziativa.
Me ne sono accorta anch'io. Son brave persone, ma da adoprar
solo al momento, senza preavvisi. Ma intanto, signor conte, come vanno le cose
e come stiamo a notizie? Lo sparo del cannone di jeri mattina ha fatto cessar
per un istante il fermento della popolazione.
Non ci credete.
Non ci credo.
Sono gli estremi giuochi del bussolottiere. Si ha bisogno
che il pubblico rimanga sopraffatto dalla notizia di nuove vittorie, e creda in
Napoleone sempre morto e sempre
vivo. Ma la Pasqua di risurrezione non fu che una privativa di Gesù Cristo.
Intanto con questi stratagemmi, la popolazione pagherà senza andare in collera
la tassa dei capitali ipotecati che ci ruba una cinquantina di milioni, e la
nuova contribuzione di sette milioni, posti sull'estimo, sui piccoli mercanti,
e sui possidenti. Intanto la campagna provvederà le recenti requisizioni di
frumento, fieno e biada, senza osare di rispondere colle forche e colle zappe.
Jeri io fui in campagna.
E così?
È tutta una polveriera. Un po' di paglia accesa, e lo
scoppio si ha da sentir fino a Parigi. Quei villani irritati hanno detto che
alla prima mia parola saran tutti qui.
Lo stesso succede nelle campagne degli altri nostri amici.
Ma non basta.
Come non basta?
Se io fossi il general Pino, o soltanto il colonnello della
Civica, allora direi d'aver le redini in mano e di poter frustare i cavalli per
dove meglio mi parrebbe.
Ma non fate voi le funzioni di capo battaglione?
Sì... finchè B... si trattiene a Parigi. Ma ciò non basta;
caporale e capo battaglione vale lo stesso. Bisognerebbe che tutta la Civica
dipendesse da me.
Se il colonnello Visconti fosse dimesso, o si ritirasse, o
gli venisse un accidente, dico così per dire, voi sareste sicuro di salire a
quel posto?
Avrei per me il novanta per cento.
Allora bisogna pensarci.
Non c'è via nessuna; è un'idea da mettere in disparte.
Madama Falchi non rispose nulla a quelle parole del conte,
perchè non c'era da risponder nulla. Ed in quella sera divagarono ad altri
argomenti; nè forse avrebbero pensato mai più alla carica di colonnello, nè al
marchese Visconti che la sosteneva, nè alla possibilità di rimoverlo con
qualche stratagemma, se non fosse sopravvenuto un accidente dei più strani, e
fuori affatto da ogni previsione. Ecco ciò che avvenne.
Tre o quattro giorni dopo, madama Falchi ebbe occasione di
far delle visite. Non avendo ancor messo carrozza, ogni qualvolta non voleva
andar a piedi, prendeva a nolo un fiacre di lusso da un tal vetturale che stava
in Santa Maria Podone e si chiamava Bernacchi Giosuè. Era questi un bel
giovinotto di trent'anni; sedeva egli stesso a cassetta quand'era ai comandi di
madama e, quantunque fosse il padrone, indossava in quelle occasioni una
magnifica livrea con lavorini, panciotto rosso, lucerna con passamani e stivali
a trombini. Quando madama mandava a chiamarlo, soleva egli stesso, due o tre
ore prima del bisogno, andare in persona a prendere gli ordini da lei.
Quest'incomodo che si pigliava non era indispensabile, ma a quel vetturale
giovinotto e benissimo piantato piaceva moltissimo madama. Era una bizzarria
come qualunque altra; ma anche le bizzarrie hanno le loro origini prime e le
loro cause remote. È dunque a sapersi, che, molti mesi addietro, intanto che
madama stava abbigliandosi, il Bernacchi venne a prender gli ordini; ed ella,
trasandata com'era e proterva, lo aveva fatto entrar senza tante cerimonie.
Colui stuzzicato da un certo spettacolo voluttuoso, ebbe
l'ardire di far dei complimenti a madama con certe frasi involute di scherzo e
di rispetto, ma non senza qualche presa di petulanza. Madama sorrise, gli diede
del matto, ma non andò in collera. Ella era di quella medesima stoffa carnale
onde la natura avea largheggiato allorchè mise al mondo colei che doveva
diventar la donna dell'impero vasto, che fu l'eroina del Poema tartaro di
Casti, e per le solite viltà degli uomini abbacinati, doveva dalla storia
venire giudicata una sovrana di genio. E la Falchi, meno l'impero e meno i
granatieri, andava molto soggetta agli estri di Caterina la Grande.
Tornando al fatto, madama Falchi mandò a chiamare il
vetturale. Questi, secondo il solito, venne di mattino a prendere gli ordini.
Fu fatto introdurre. Essa era a letto.
Oggi, gli disse, verrai alle due dopo mezzodì col tuo più
bel fiacre.
Alle due io sarò a' suoi comandi.
Hai molto a fare in questi dì?
La miseria va crescendo tutti i giorni, signora, e chi non
ne ha molti, ama d'andar a piedi. Perfino i gran signori, quando hanno bisogno
di me, non vogliono pagar quasi più nulla. Anche ieri poco mancò non venissi
alle mani con un prepotente.
Oh, com'è stata? racconta.
Se mi son frenato, è perchè colui aveva le spalline.
Qualche generale francese?...
No... un nostro milanese... il marchese Visconti...
Quale?
Il colonnello della guardia civica.
Hai fatto male a non lasciargli un ricordo.
Sì, per andare in galera...
La Falchi tacque un momento; era sopra pensiero... infine si
alzò in sui gomiti, come per cambiar positura; in quell'atto le trine della
camicia si scomposero alquanto.
Signora, io vado via subito.
Che diavolo hai?
Quando mi trovo in questa stanza, mi par di girar sullo
spiedo e mi sento bruciare...
Oh diamine!
Voglia almeno aver la bontà di nascondersi nella coltre,
sino alla testa. Ah signora, che cosa io farei per...
Bada, briccone, che tiro il campanello; e qui avendo ella
steso il braccio e la mano verso la corda, rivelò delle proporzioni romane e
delle tinte venete.
Senti, continuò poi, se io venissi a sapere che tu hai data
una buona bastonatura al colonnello, e fosse tale da obbligarlo a letto per
qualche mese, ti assicuro che verrebbe la mattina in cui tu saresti contento di
me.
Dette queste parole, alzò dietro il capo simmetricamente
ambe le braccia, quasi per accomodarsi le treccie; il qual movimento le
rovesciò fin alle spalle le maniche della camicia.
Tu dunque devi avermi compreso, proseguiva intanto; e lo
guardò a lungo, come chi adopera gli occhi invece delle parole.
La faccia del giovane vetturale erasi infuocata come quella
di un ubbriaco.
Ora puoi andare, soggiunse. Alle due non mancare; domani o
dopo avrò ancora bisogno di te, e ti manderò a chiamare.
Egli la salutò e partì, e quando fu per lasciar la casa,
sbagliò l'uscio e si trovò in cucina, tanto era attonito e fuori di sè.
Questo colloquio tra il Bernacchi Giosuè e la Falchi avvenne
il 19 marzo. La sera del 25 la bottiglieria del Cambiasi dirimpetto alla Scala
era piena zeppa di curiosi che parlavano e s'interrogavano a vicenda.
Ma dove avvenne l'aggressione? chiedeva uno.
Precisamente sulla piazzetta del Bocchetto presso al
Demanio.
Il ladro si avventò con uno stilo.
E il colonnello?
Il colonnello era stato ad ispezionar le ronde e le
pattuglie, e se n'andava pei fatti suoi. Sebbene colto all'impensata, fu lesto
a cavar la pistola che mise alla faccia del ladro, il quale venne ferito in una
mandibola.
Queste voci corsero la sera del 25 marzo; e il dì
successivo, dopo che il chirurgo Monteggia ebbe estratta la palla dalla guancia
del presunto ladro, si seppe che l'aggressore non era un ladro altrimenti,
sibbene un vetturale che faceva buonissimi affari, e si chiamava Bernacchi
Giosuè.
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