IV
Appena l'aula senatoria fu smantellata, e le suppellettili, state
gettate sulla via che rade i boschetti, furon raccolte da coloro che non
mancano mai alle dimostrazioni tumultuose, come gli stelloni alle aste, la
folla si diradò e si disperse affatto. Ma c'era quel drappello d'operai in
giacchetta, che lasciando il palazzo del Senato e prendendo per la via di S.
Andrea, camminava di mala voglia perchè non pativa che il tumulto dovesse
finire così presto; e ciò che più loro cuoceva, che l'oggetto principale a cui
volevano dar la caccia, miracolosamente non fosse comparso in iscena. Giunti
nella via della Sala, trovarono altri sparsi drappelli che si fermavano di
tant'intanto. Avevano anch'essi quell'aspetto, quell'andatura, quel piglio tra
il tediato e l'iracondo che di solito assumono i bassi operaj quando hanno abbandonato
il lavoro consueto e quotidiano, e aspettano impazienti di poter dar opera a
qualche cosa di straordinario e di sedizioso. Il capo-mastro Granzini, che, in
mezzo a dieci o dodici uomini suoi dipendenti, vide coloro da lunge, capì che
eran pasta da usufruttare assai bene e da mescolare a quella ch'egli aveva già
sotto mano: affrettò quindi il passo, e come fu loro presso:
E che si fa? gridò.
Quelli si volsero, e si fermarono, guardando biechi chi loro
parlava a quel modo.
E che si ha da fare? Quel che fatto è fatto.
Il bello non è ancor venuto, galantuomini. Su, dunque,
andiamo a fare una visita al ministro Prina; e se il ministro non c'è, andiamo
a vedere il suo appartamento.
Allorchè quella squadra d'uomini fu allo sbocco della via
della Sala, un'altra accozzaglia. procedente dalla corsia dei Servi,
s'addensava nella via dell'Agnello. Quantunque fossero persone di apparenza
civile e tenessero spiegati gli ombrelli, pur camminavano concitati
coll'irruenza di un torrente in alluvione. Gridò allora il capo-mastro in mezzo
a suoi: Alla casa del Prina! Al qual grido, come se fosse una parola d'ordine:
Alla casa del Prina! fu risposto da una voce sonora, e che molti asseriscono
essere la voce del conte Aquila. Questo grido ebbe l'effetto di un comando militare;
tutti si mossero uniti come ad assalto determinato: Il ministro non è in Milano
s'udì allora a gridare un'altra voce. Nessuno seppe da chi fossero pronunciate
quelle parole, ma dev'essere stato un cocchiere dello stesso Prina, che, uscito
un momento prima dalla casa in cui serviva, e sentendo quelle minaccie, ritornò
a corsa indietro e giunse in tempo per avvisare il portinajo di sbarrar subito
le imposte. Ecco perchè quando quella torma si presentò e si fermò innanzi alla
casa del ministro, ognuno si meravigliava che fosse già chiusa a quel modo. Le
persone dalle seriche ombrelle, stettero allora irresolute, quasi pensando che
non c'era a far altro. Ma, con sorpresa generale, quei dieci o dodici uomini in
giacchetta, a guisa di soldati che sfoderano le armi al comando del capo, prima
agitarono in alto i martelli, che seco avevano portato con premeditato
proposito; poi si scagliarono percuotendo di conserva sui battenti della porta
e gridando: Aprite. E in quel punto per disgrazia venne loro un ajuto inaspettato.
D'improvviso fu vista la figura di un vecchio alto, in maniche di camicia, col
capo scoperto, canuto ed arruffato. Egli s'era fatto largo tra la folla con
impeto giovanile. Volgeva intorno sguardi da ossesso, e colle due braccia
alzate mostrava a tutti una spranga di ferro, di quelle che servono di leva;
una tanaglia, dei chiodi, e una corda, e gridava a tutti con una concitazione
furibonda, che faceva sgomento e ribrezzo a un tempo: Lo inchioderemo qui su
questo battente, appena lo avremo ammazzato. Avanti or dunque e sfondiamo la
porta.
Vorremmo sapere se Manzoni, quando con tanta efficacia di
pennello descrisse quel vecchio vituperoso che aveva proposto di fare
altrettanto collo sventurato vicario di provvisione, abbia disegnata l'orrida
figura colla reminiscenza di questo modello tolto dal vero.
Ma che cosa avveniva nell'interno del palazzo? Una di quelle
scene che rinnovano sempre i brividi nel
ripensarle. I servi erano entrati nello studio del ministro, tremanti anche per
sè stessi. Signor padrone, gli dicevano, si nasconda, si salvi scappi. Insieme
col ministro era un suo cugino, che per la pietà del parente aveva assunto un
aspetto minaccioso con tutti: minaccioso ed iracondo persino col ministro. Ecco
il frutto della vostra ostinazione maledetta. Ecco a che ci troviamo per non
aver voluto partire. Vi fu un momento di silenzio. Si sentiva dal basso la
furia dei martelli percuotenti la porta. La figura alta e scarna del ministro
era appoggiata allo scrittojo. L'atteggiamento rivelava uno sforzo di dignità
superstite; ma tremava come una foglia dalla testa ai piedi. E in quel punto
stesso, perchè un lampo fuggitivo di speranza venisse ad accrescere l'orrore di
quella scena, cessò a un tratto nella via il rimbombo dei colpi di martello,
tacque il mugghio della folla, e si sentì invece a qualche distanza lo scalpito
prolungato della cavalleria. Erano infatti i dragoni della guardia reale che
attraversavano la piazzetta della Scala. Come la folla erasi dileguata al
sonito della cavalleria, e i manigoldi avevano per poco abbandonata l'infame
impresa, così il ministro ebbe un tremito di reazione e si credette salvo. Ma i
dragoni della guardia reale procedettero quieti per S. Margherita come se nulla
fosse; laonde la folla tornò indietro, e i manigoldi con più furore di prima
tornarono all'assalto. I colpi spesseggiarono con più orrendo frastuono. Il
ministro uscì allora in uno di quei gridi soffocati che mandano gli epilettici
quando vengono assaliti dal loro malore; piegò le ginocchia e sembrò
svenire. Il cugino e i servi lo presero, lo trassero fuori dello studio, a
braccia lo portarono all'ultimo piano. Incuorato dai servitori, il ministro si
riebbe alquanto e tornò in sè. Ma in quel momento tutti si accorsero al rumore
più intenso e vicino che il palazzo era invaso. I servi fuggirono. Il cugino
disse al ministro: Nascondetevi là in quel camino, presto. Poi uscì anch'esso,
calcandosi il cappello in testa, e, senza essere notato da nessuno, s'imbrancò
poscia colla marmaglia che ululante saliva per le scale come fiamme di un
incendio che già raggiunge e soverchia il tetto.
Quando il popolo invase la casa del Prina, si credeva
generalmente che il ministro non fosse in Milano; tanto è vero che in sul
primo, senza più darsi pensiero del ministro, tutti quelli che erano entrati si
diedero tosto ad abbattere usci ed antiporti, a fracassar vetriere, a gettar
nel cortile e nella via tutte quelle suppellettili che non eran portabili a
mano, a depredare e ad appropriarsi le più preziose. Quei manuali poi, muratori
o fabbri che fossero, capitanati dal Granzini e da quel vecchio vituperoso che
si chiamava Fontana, e da un figlio di costui feroce come il padre e notissimo
a Milano per la sua vita di prepotenze e di misfatti, salendo sul terrazzo
della casa costrutto a giardino pensile e tutto all'intorno circondato da
grandi vasi d'agrumi, si diedero tosto a lavorare per demolire, precisamente
come se fosse loro stato ordinato da qualche autorità di atterrare quel palazzo
per lasciar sgombra un'area. Cominciarono dal levare l'inferriata che
circondava il fastigio, dallo smuoverne le pietre che servivano di tetto e di
pavimento, dallo scoprirne e denudarne la travatura. Compiuta quest'opera con
rapidità non credibile, discesero agli altri piani a levar tutte le inferriate
delle scale, delle ringhiere, dei poggiuoli. In questo frattempo il general
Pino, chiamato dalla gravità enorme del fatto, pedestre era accorso colà ed era
entrato in palazzo. Egli sapeva che il Prina era a Milano, credeva inoltre che
fosse in casa, onde s'affrettò per salvarlo; ma dopo aver sfidato tutto l'urto
spaventoso della folla, dalla quale, per quanto ei fosse carissimo ai Milanesi,
ebbe pure qualche insulto, partì per avere sentito che il Prina era altrove.
Una orrenda fatalità avea davvero decretato l'eccidio dello sventurato
ministro, perchè se il Pino si fosse indugiato appena alcuni minuti, forse
colui sarebbesi potuto strappare al furore del popolo. Ma il Pino non poteva
esser giunto in fine della via del Marino, che una voce gridò: Badate che il
Prina è in casa nascosto.
Questa voce in un baleno passò di bocca in bocca. Il
Granzini capo-mastro la sentì e gridò subito ai suoi: Se c'è, si ha a trovare.
Cercate e frugate dappertutto. Il Fontana padre e figlio stavano in quel punto
strappando l'inferriata della scaletta che metteva alla camera dove il Prina
erasi rifugiato. Giunsero in capo alla scaletta, là v'era un uscio: l'uscio era
chiuso, chiuso per di dentro; l'atterrarono di un colpo; pareva che quelle
belve avessero sentito l'odore della preda. Pochi uomini erano là. Una persona
civile, che i Fontana non conoscevano, entrò quasi nel medesimo tempo in quella
camera con loro. Entrò nel punto che il ministro stramazzone stava per essere
azzannato. Quell'uomo con voce soffocata: Centomila franchi, disse,
duecentomila, un milione per voi, se tacete e lo salvate.
Il Fontana figlio mandò un grido feroce a quelle parole; lo
sconosciuto atterrito fece in due salti la scaletta e fuggì. (I due Fontana
narrarono quel fatto qualche tempo dopo, vantandosi d'aver rifiutato un
milione. Chi fosse poi quello sconosciuto non si potè mai sapere; forse era lo
stesso cugino del ministro.) Scoperto il Prina, afferrato da quei feroci, tutto
fu finito per lui. Lo fecero discendere. Alle grida: È trovato, è trovato, si
empì di gente il corridojo che metteva alla scala ed alla stanza fatale.
Contemporaneamente il general Pino, sentito da altre voci che il Prina non era
uscito, aveva tosto spedito il general Peyri, mantovano, per placar la folla e
salvare il ministro. Ma lungo la via, il generale, raffigurato da taluni per lo
stesso Prina a cui somigliava, non sarebbe riuscito a salvarsi, se non fosse
accorso lo stesso Pino per toglierlo all'ira pubblica col testimoniare chi esso
era veramente.
Nè più nessuno ormai avrebbe potuto stornare la catastrofe
della tragedia orrenda. Nell'interno del palazzo aveva già cominciato a
sfogarsi l'ira pubblica, diventata repentinamente una furiosa demenza. Cogli
ombrelli, coi bastoni, coi pugni, coi piedi percuotono il ministro, lo strascinano
nel cortile, lo denudano dai panni ond'è coperto, lo portano in una stalla,
tutto sudicio e immelmato, lo mostrano per ischerno alla folla da una lurida
finestra della stalla medesima. Un urlo spaventoso di gioja diabolica alza la
turba a quella vista, mentre quelli che lo tenevano lo lascian cadere a capo in
giù tra quella turba istessa.
Nell'atroce parapiglia, alcuni uomini forti e generosi,
insieme con altri che forse avevano altro fine, lo strappano alle mani della
folla e lo trasportano nel palazzo Blondel già Imbonati. Ma i due Fontana e gli
assassini, vedendo quel fatto, furibondi discendono sulla via, spezzano la
calca a minaccie di martelli, s'avventano alla porta di casa Blondel. La porta
si riapre, succede una mischia; i più feroci vincono, e preso ancora il
ministro, lo trascinano di nuovo tra la folla che mugghiante prende per piazza
S. Fedele e S. Giovanni alle Case Rotte. Il Prina domandava il confessore. Lo
si consegna per questo a un vinattiere, che aveva bottega sull'angolo delle Case
Rotte. Succede un po' di tregua. Qualche pietà si fa strada negli animi della
moltitudine. Il padrone della bottega nasconde il Prina sotto un tino, colla
speranza di salvarlo. Ma il vecchio Fontana, che per poco s'era allontanato,
ritornò tra la folla e sembra che della
propria rabbia inesplicabile riaccenda tutti quanti. Si chiama a gran voce il
Prina, si assalta l'uscio della bottega, si minaccia ferro e fuoco al
proprietario la bottega è aperta entra il Fontana cogli altri, cercano
dappertutto e trovano il Prina che loro si offre semivivo.
Qui ebbe fracassata la testa, vuotata una occhiaja, sfiancate le reni e qui
spirò.
Il cadavere fu preda della bordaglia inferocita per altre
quattr'ore. Nelle vie per dove esso veniva trascinato, le donne che s'affacciavano
esterrefatte cadevano svenute.
Battevano le ore nove all'orologio della piazza dei
Mercanti, e il cadavere stava ancora nelle mani della folla. Allo sbocco della
via dei Bossi... una squadra di guardie civiche sentì il lungo ululato, e vide
le fiaccole che rischiaravano l'orribil scena. Deliberarono di farla finita;
incrociarono le bajonette, respinsero la folla, s'impadronirono del
cadavere.... lo trasportarono nel Broletto; di qui a notte alta fu trasferito e
deposto nella chiesa del Carmine; verso l'alba nel Campo Santo detto La
Mojascia.
E in quella sera stessa, e non molti se lo rammentarono, si
videro già in volta per la città alquante assise bianche d'ufficiali austriaci.
Il conte Aquila si rincasò in preda alla più cupa costernazione. Ma la Falchi,
anche dopo aver veduto a passare più volte sotto le proprie finestre la folla
assassina, potè tuttavia dormire indifferente la consueta sua notte.
Fidi al nostro intento di non rivelar che cose nuove o assai
poco conosciute, avevamo divisato di omettere la relazione di questa famosa
giornata; ma assai ragioni ci determinarono a scriverla. Di quella funesta
sommossa uscì a Parigi, come i più devono sapere, una memoria storica con
documenti fin dal novembre del 1814; nella stupenda lettera apologetica del
Foscolo vi sono alquante pagine dedicate a quel fatto; esiste una relazione di
esso stesa dallo stesso Carlo Verri, che fu presidente della Reggenza; sul fine
dell'anno 1859, quando la verità della storia potè uscire all'aperto, venne
pubblicato a Milano un breve racconto di quell'avvenimento, scritto da un
cittadino bresciano, che ne fu testimonio oculare; a Novara, nel 1860, coi tipi
di Agostino Pedroli, venne in luce un volume intitolato: Milano e il ministro
Prina, narrazione storica tratta dai documenti editi ed inediti per M. Fabi.
Libro commendevole come riassunto, nel quale senza rivelazioni nuove venne
raccolto in fascio tutto quello che prima era stato scritto sparsamente. In
tutti questi lavori è deposto, per così dire, il processo verbale di quanto
succedette all'aperto e sotto i medesimi occhi del pubblico, ma non si penetra
nella vita intima degli uomini e delle famiglie. Sono vedute prospettiche della
parte ortografica dell'edificio: ma l'occhio non intravede spaccati; vi si
narrano gli effetti e le conclusioni ultime, ma delle origini prime non si
tocca, ma non si risale alle cause; o se qualche volta loro si accenna, sono
esse volgarissime e già da molti anni di dominio pubblico, nel medesimo tempo
che non bastano a sciogliere nessun nodo, nè a distruggere nessun dubbio; nè
per loro, rimanendo pur sempre alla superfice
delle cose, ci è dato di gettar mai uno scandaglio nel profondo del terreno,
che non fu nemmeno smosso. Colla varia forma d'arte, noi dunque abbiam tentato
di adempire a ciò che in quelle memorie indarno si cerca.
Ed ora dobbiamo aggiungere, che il sig. Giocondo Bruni seppe
da quel Guerrini, domestico in casa Falchi, che all'alba di quel dì stette a
lungo colla padrona un uomo mal vestito e di tristo aspetto; che alla sera di quel
dì medesimo, allorchè l'orribile tragedia era finita e il cadavere del ministro
Prina già stava nella sala anatomica della Mojascia, quell'uomo ritornò in casa
Falchi; ch'egli ebbe un lungo alterco colla padrona; che per parte di lei e di
quell'omaccio s'udirono frasi e parole che pareva di essere all'ergastolo; e
che tutto finì in un lungo silenzio, non rotto che dal suono, per alcuni
istanti continuato, come di monete che si contassero.
E qui, se si chiude il periodo storico che potrebbe
intitolarsi dal ministro Prina, ci rimangono però a fare altre rivelazioni, per
mettere a nudo alquanti misteri ond'è ancor buja la catastrofe di quella
tragedia. Ma, come vedrà il lettore, la sede naturale di tali rivelazioni non
può essere questa, ma la successiva, che potrà essere designata sotto il nome
della COMPAGNIA DELLA TEPPA. In essa verrà in iscena l'uomo ignoto che all'alba
ed alla sera del 20 aprile ebbe colla Falchi lunghi e torbidi colloqui; in essa
farà una nuova comparsa il vetturale Giosuè Bernacchi, nell'occasione che dal
manicomio della Senavra sarà licenziato come ristabilito in salute; in essa
verranno ripigliate tutte le fila che in questa rimasero sospese.
Intanto, come conclusione al presente episodio, noi faremo
al lettore le domande seguenti:
Il conte Aquila sarebbe diventato un così fiero nemico di
Beauharnais, se questi non avesse baciato la moglie di lui alla festa di corte
dell'anno 1810?
Senza di ciò, non pare al lettore che il conte sarebbe stato
invece un gran sostenitore del vicerè?
Se colui, sempre per
avversione al vicerè, che aveva il brutto vizio d'impacciarsi per simpatie ed
antipatie degli interessi privati e influire arbitrariamente sul corso della
giustizia, non avesse subornato un giudice assai autorevole allora a Milano, e
ridottolo al punto di abusare della propria carica, avrebbe trovato in esso un
complice tanto attivo da rivoltare contro al governo francese quasi tutta la
massa dei pubblici funzionarj di secondo e terzo ordine?
Se il conte Aquila avesse adoperato per sostenere il vicerè
tutta quell'energia di volontà che adoperò contro di lui, il principe
Beauharnais sarebbe caduto? il regno d'Italia sarebbe andato a fascio? gli
Austriaci sarebbero ritornati?
Se i due milioni e mezzo del ministro Prina non fossero
stati affidati nelle mani dell'avvocato Falchi; oppure se questi avesse serbato
il segreto colla moglie, il ministro avrebbe potuto scampare dall'ira pubblica?
Per quanto lo sdegno pubblico fosse generale e forte, esso
avrebbe potuto scoppiare ed operare nel modo onde operò, senza i pochi che lo
governarono a loro voglia e per i proprj interessi?
Se il vicerè, dai collegi elettorali e dal voto della
popolazione, fosse stato proclamato re d'Italia, e le potenze europee,
rispettando tal voto, lo avessero confermato, v'erano poi gli elementi duraturi
di un governo forte e sapiente, di una nazione risorta e felice?
La teoria inflessibile della provvida sventura non verrebbe
qui opportuna per giudicare quei tempi e quegli avvenimenti?
Noi poniamo tali quesiti al lettore, senza comunicargli le
nostre soluzioni. Egli deve esser libero di valutare i fatti e di profferire la
sua sentenza.
A noi bastò d'aver recato in mezzo nuovi dati, che
chiameremo storici, quantunque non sieno desunti che dalla tradizione orale e
dal vago mormorio del pubblico contemporaneo, e da relazioni private e da
racconti di testimonj. Non sempre i documenti
legali e deposti negli archivj svelano intera la verità. Talvolta la
intorbidano, perchè la loro serie non è completa. L'induzione soltanto è un
documento razionale e perpetuo, che, al pari di un grimaldello, può aprir tutte
le porte.
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