I
Le prime scene dei periodi storici fin qui da noi
rappresentati, si aprirono sempre, per
combinazione, o in teatro o in qualche festa da ballo, tra la musica, la danza
e la bellezza. Sempre si cominciò coll'allegria e il geniale buon tempo, per
finir sempre coll'affanno, colle sventure e
col beccamorto. Possiamo assicurare che questo per noi non fu mai un sistema
adottato. Bensì, contro ogni disegno, fu una riproduzione spontanea della
maggior parte delle vicende onde è contesta la vita pubblica e privata degli
uomini. Troppo spesso si comincia colla giocondità, colle speranze e coi
castelli in aria; quasi sempre si finisce coi
disinganni e colla disperazione.
E anche questa volta, se precisamente non ci è dato
rimetterci a sedere o in teatro o all'osteria, dobbiamo però incominciare il
preludio della nuova opera seria con un andantino allegro, ma che, pur troppo,
è destinato a preparar dalla lunga e attraverso a processi e a successioni
inattese di toni, le frasi strazianti di una catastrofe degna di un Romeo
moltiplicato per tre. A noi vengono i brividi al solo pensarci.
La notte del 19 marzo 1820, giorno consacrato a San Giuseppe,
il santo nel cui nome l'autore dei Cento anni è stato battezzato; sulla
piazzetta dei santi Pietro e Lino, due inservienti dei Regi Teatri prepararono
in gran segreto una orchestrina sotto al balcone di un primo piano d'una delle
case che rispondevano su quella piazzetta.
Quasi contemporaneamente vennero là portati un contrabbasso,
un violoncello, quattro cassette da violino e viola, ecc. Di lì a non molto
sopraggiunsero gli egregi suonatori, o professori, quasi tutti appartenenti
all'orchestra della Scala: Merighi il violoncellista, Rabboni il professore di
flauto, Yvon d'oboe, Corrado il suonatore di clarinetto, Cavinati e Migliavacca
incliti violini di spalla, Majno prima viola. Tra una schiera eletta di
dilettanti, vennero in ultimo il tenore della stagione, Claudio Bonoldi,
cantante insigne, e più insigne bastonatore di uomini e di giornalisti. Tra lui
e il basso Fioravanti, stretti in grande dimestichezza, comparvero due belli ed
eleganti giovani; uno era il conte Emilio Belgiojoso, l'altro il figlio del
colonnello Baroggi e di donna Paolina S..., che noi non conosciamo ancora, e
che era nato nel 1798 a Roma, dopo le luttuose scene dell'avo, d'ingrata
memoria. Il suo nome di battesimo era Giunio, perchè, essendo stato battezzato
nella chiesa d'Ara Cœli, sul Colle Capitolino, sventolando gli stendardi
repubblicani, si volle dargli un nome che ricordasse l'eterna città e
l'instauratore della repubblica romana. Questo sia detto di passaggio, e
torniamo all'orchestra.
I professori e i dilettanti, messisi al loro posto, diedero
principio alla serenata colla sinfonia dell'Aureliano in Palmira, di Rossini,
che d'allora in poi, per più di trent'anni, continuò ad essere la sinfonia
d'obbligo di tutti i ritrovi musicali. Come avviene in tali occasioni, la
piazzetta e la via dei Meravigli, che in principio erano al tutto solitarie per
la notte assai inoltrata, a poco a poco si animarono di tutte quelle persone
che, avvezze a rincasarsi ad ora tardissima, s'erano accorte, chiamate dai
suoni lontani, che la loro giornata non era ancor finita. Le finestre e i
balconi delle case rispondenti sulla piazzetta si popolarono d'uomini e donne,
che staccavano come ombre sul fioco albore degl'interni lumi trapelanti dalle
aperte imposte. Curiosa platea e più curiosi ordini di palchetti, dove le
acconciature più appariscenti erano bandeaux e berrette da notte, sottanini e
mutande. La sinfonia dell'Aureliano fu applauditissima dal pubblico, che
cominciò a diventare affollato, perchè molti giovinotti che abitavano nelle vie
circonvicine ebbero il coraggio, giacchè era una bella notte di marzo, di
rivestirsi e discendere in istrada. Il tenore Bonoldi cantò di poi l'arione
dell'Otello: "Vincemmo, o padri". Il conte Emilio, che diventò in
seguito il principe Emilio Belgiojoso, eseguì in unione col basso Fioravanti il
duetto del Mosè: "Parlar, spiegar non posso". Ad ogni pezzo gli
applausi erano strepitosi e meritati. E negli intermezzi d'aspettazione, il
pubblico faceva le chiose, non tanto ai motivi dei pezzi eseguiti, quanto al
motivo di quella serenata.
È strano (notava uno degli ammiratori) che la signorina non
si faccia vedere.
Che signorina?
Diavolo! quella per cui si canta e si suona. Credi tu che si
voglia compromettere la trachea di un tenore di cartello, e far gettare il
tempo ai professori della Scala, per solo amore dell'arte? Là al primo piano,
dove c'è quel poggiuolo, abita quella giovinetta che in queste ultime tre sere
ajutò l'impresario del teatro Re e il Don Giovanni, che faceva fiasco, col
cantare in costume l'ultima scena della Giulietta e Romeo di Zingarelli.
Ah! la Gentili!
Madamigella Stefania Gentili, sissignore, la quale, se
continua come ha cominciato, che Pisaroni e che Colbrand e che Catalani! Ed è
la prima volta che mette piedi sulla scena. Qual voce e qual sentimento!
E quanta bellezza!
Per carità, non tocchiamo questo tasto, perchè mi va il
sangue alla testa; in costume di Romeo, coi capelli cadenti... con quella
figura divina, con quelle gambe, con quelle maglie di seta bianca... torno a
pregarti..., cangiamo discorso.
Ma, di ragione, sarà il suo amante quello che avrà fatto
allestire una tal serenata.
Amanti son tutti quelli che l'hanno sentita. Quando penso
che, nel momento in cui, disperata, ella si lascia cadere sulla tomba di
Giulietta, io ho visto a piangere perfino il barone Gehausen, direttore di
polizia! Che cosa vuoi di più? Questo è il suo massimo elogio.
La presenza però del conte Emilio Belgiojoso mi darebbe a
credere...
No. A quanto mi disse ieri in teatro il primo oboe
dell'orchestra, che è quel giovinotto là coi baffi neri, chi avrebbe dato in
qualche furore per lei sarebbe quel giovane lì che sta presso al conte Emilio
Belgiojoso, e che ora prende in mano la viola... probabilmente suonerà un
a-solo... È uno dei più bravi dilettanti, allievo del professore Majno che gli
siede lì presso. È figlio di quella tale che seguì il colonnello Baroggi in
Russia e che vestiva l'uniforme di dragone come il marito... Te ne devi
ricordare...
Sì, sì, ne ho qualche barlume...
Ma qui, i zitto! e i silenzio! della folla, troncarono di
tratto questo dialogo; e il Baroggi incominciò il suo a-solo sul tema della
romanza di Garcia, innestata nel Barbiere di Rossini.
L'a-solo fu suonato a meraviglia, perfino a compiacersene lo
stesso maestro Majno; se non che, proprio nel punto che si era alle ultime
cadenze delle variazioni, dal vicino vicolo Porlezza una schiera di dodici o
quattordici giovinotti irruppe nella via, si rovesciò come una tempesta
maggenga sulla piazzetta, improvvisando una cadenza di legnate formidabili,
dedicate al merito insigne di quei filarmonici notturni.
Il tenore Bonoldi, che era alto, nerboruto e prepotente, e
che, figlio di un vetturale di Piacenza, era avvezzo alle baruffe fin da
ragazzo, non si lasciò smarrire, e lavorò di rimando colla sua canna d'India;
la sua canna d'India fedele ch'egli avea sempre
seco per tenere in soggezione la critica. Il suo esempio
animò tutti. Il conte Emilio armeggiò benissimo con una sedia di bulgaro. Il
Baroggi con un leggìo. I più offesi furono i suonatori, che erano seduti; e in
modo speciale se ne risentì la schiena del professore Majno; perchè l'amore
sviscerato, del genere dell'amor materno, che egli portava alla sua viola di
Stradivari, lo rese dimentico di sè stesso; onde, incurvatosi su di essa e
strettasela al seno, non pensò più che la schiena rimaneva affatto senza difesa
e tutta esposta alle percosse nemiche. Tutto questo parapiglia avvenne in un
minuto. Strillavano le donne dai poggiuoli e dalle finestre; piangevano i
ragazzi che si erano alzati colle mamme; tumultuavano e si scompaginavano e
fuggivano molti della folla raccolta in piazza.
Ma ad un tratto gridò uno della schiera degli assalitori:
Fermi tutti! e fu una voce sonora, piena, autorevole; tutti si fermarono
infatti. Esso guardava il Baroggi, e il Baroggi lui.
Ma come sei qui tu fra costoro?
Diavolo, non è permesso fare una serenata, tanto per goder
le stelle e provar l'istrumento? Ma costoro poi, che cosa hanno fatto a te?
Nulla m'han fatto; non li conosco nemmeno se ne togli qui il
tenore della Bianca e Faliero che canta bene e bastona meglio.
Dunque?
Dunque si era là all'osteria del Galletto fuori di porta
Vercellina, annojati tutti maledettamente, perchè son già tre giorni che non
s'è rotta nemmeno una testa... e ve ne sono centotrentamila in Milano. Io dico:
che cosa si fa stanotte? È una vergogna per la compagnia... guai s'ella va
perdendo del suo credito. Allora questo signore, che è il conte Alberico B...
ed è il nostro decano, perchè ha trentasett'anni compiuti... ci sarebbe una
serenata da mandar all'aria, ci dice una serenata sulla piazzetta di San Pietro
e Lino. Bastò la proposta. Non si stette nemmeno un minuto a far consulta; e
via tutti, senza nemmen pagare l'oste... La cosa è semplicissima,
e non ho ad aggiunger altro.
Dette queste parole all'amico Baroggi, del quale teneva
stretta una mano nella propria, colui si rivolse alle due schiere nemiche che
avevano abbassate le armi, come quando sui campi trojani Ettore o Ajace davan
segno alle falangi di sospendere la pugna:
Tutto quello che fu detto e fatto, soggiunse poi, sia per
non fatto e non detto. Questo è un mio caro amico, e costoro si sono difesi in
modo che hanno diritto a tutta la nostra stima e considerazione. Giù dunque le
armi, via gli strumenti e ritorniam tutti insieme a santificare la pace
all'osteria...
Siccome non v'erano antecedenti rancori né cagioni di odio
profondo, l'aspetto, la voce, il contegno del giovine amico del Baroggi, così
fra il farabutto e il bizzarro, mise in un istante la pace e l'allegria, dove
un momento prima aveva infuriato la tempesta.
Essi partirono. L'orchestra e gli strumenti furon levati, i
rimasti della folla si allontanarono, le finestre si chiusero, le virili
berrette da notte tornarono a comprimere i guanciali accanto ai muliebri
bandeaux; e i silenzj profondi di quella notte non furono più turbati da rumori
nè lieti nè tristi.
Giunte che furono le due schiere rappacificate al canto dei
Meravigli, che risponde al corso di porta Vercellina:
Per andare all'osteria, disse il professore Majno, l'ora è
troppo tarda. Domani alle 9 debbo dar la solita lezione al Conservatorio.
Proporrei dunque di trasportare ad altro giorno la celebrazione della pace.
Allora troviamoci tutti domani alle ore quattro all'osteria
del Galletto, soggiunse il conte Emilio Belgiojoso.
Domani, signor conte, è l'ultima sera della stagione,
osservò il tenore Bonoldi. Ella sa che in queste benedette ultime sere bisogna
cantar due volte lo spartito, e contendere colla Camporesi la mia parte di
corone e di fiori.
Ebbene, dopodomani.
Dopodomani, ripetè il conte Alberico B..., e prego tutti questi
signori ad accettare il pranzo da me. La proposta di mandare all'aria la
serenata, disgraziatamente, fu mia, tocca dunque a me a pagar la multa. È
giusto?
È giusto. E qui vennero i saluti, i buona notte, gli a
rivederci, gli addio. Il conte Alberico prese per via di Brisa; alcuni pel
corso; altri per Santa Maria Porta. Il Baroggi, col suo amico, col conte
Belgiojoso, con Bonoldi e i professori d'orchestra, ritornarono nella via dei
Meravigli. Sulla piazzetta della Scala, Bonoldi diede un fischio, e un servo
facendogli lume da una finestra della casa dove ora è la spezieria del Riva
Palazzi, gli gettò giù la chiave. Altri saluti ed altri buona notte come sopra.
Il conte Emilio fu accompagnato al suo palazzo in piazza Belgiojoso. Ultimi
rimasero il Baroggi col suo amico, i quali s'avviarono per San Paolo, tirarono
innanzi per San Martino, svoltarono in San Zeno, e qui si fermarono davanti al
portone d'una casa molto vecchia.
Abiti qui?
Sì... sto in casa del signor Giocondo Bruni, che tu conosci;
un caro vecchio, che mi fa da padre, da tutore, da amico e da consigliere. Mia
madre, ch'è andata a Parigi, lasciò a lui in custodia tutta la nostra roba, con
cui c'è da empire un magazzino da rigattiere e da fare una pinacoteca
sussidiaria alla raccolta dei quadri dell'Ospedal Maggiore. Anche il signor
Bruni ha una raccolta di oggetti curiosissimi. Anzi ha un ritratto di tuo
padre... eseguito a pastello da uno scolaro del pittore Porta... quando tuo
padre non aveva che venti anni... Esso è in costume di...
Di che cosa? Mio padre faceva il lacchè a venti anni. Credi
tu ch'io abbia paura di perdere la nobiltà? Ma davvero che vedrei volontieri
quel ritratto... mi somiglia?
Un gemello non somiglia all'altro come tu a lui...
Già il sangue non traligna mai nella porca plebe... a cui mi
vanto d'appartenere... Mio padre era bello come un angelo, era forte come un
leone, era veloce come un cervo... Ed io non canzono... Mi fanno ridere questi
nobili che piangono sui casi della Fuggitiva del Grossi, e si purgano tutti i
giorni per diventare interessanti... Ma giacchè siamo giunti fin qui... si
potrebbe dormire da te questa notte?... Mi rincresce di andar laggiù sino a
Sant'Ambrogio; d'altra parte ho bisogno di star teco a lungo.
Letti non ne mancano. Aspetta che apro lo sportello, e fa
conto di entrare in casa tua.
Giunio, aperto lo sportello:
Va innanzi, disse all'amico.
È meglio che tu mi preceda. Fino al primo d'aprile la mia
coscienza non è mai tranquilla abbastanza per quel che riguarda la cura delle
mie gambe.
Perchè?
Perchè in quel giorno c'è una corsa di fantini a piedi da
porta Orientale fino a Loreto. Ho fatto una scommessa, e già sono venute a
Milano le gambe più veloci del regno Lombardo Veneto. In questi giorni si
concertarono due prove e così nell'una come nell'altra, quand'io era già di
ritorno alla porta, i miei competitori arrivavano allora a Loreto. Or si
aspettava un Vicentino, del quale si raccontan meraviglie; ma io sono figlio di
mio padre, come Achille era figlio di Peléo, e me ne rido.
Giunio andò innanzi, accese un cerino, rischiarò la scala
all'amico, e aperse l'uscio della casa. Entrarono ambidue, e passate due o tre
stanze, si fermarono in una sala. Giunio accese una fiorentina d'argento.
Vedi tu questa fiorentina? disse. Ebbene, essa rischiarava
le veglie dotte della madre della madre di mia madre. Eccola lì viva e parlante
in quel ritratto. Guarda...
Se questa fiorentina avesse la parola, chi sa che corriere
delle dame!...
Zitto, e rispetto ai morti...
Ma sai tu che questa tua bisnonna aveva una faccia da far
girare la testa anche ad un mazzaconico?
Lo so bene. E quella lì?
Oh... cara...
Questo cara lo disse un altro prima di te trenta o
quarant'anni sono.
Zitto, e rispetto ai morti.
Questa poi è mia madre.
Non ha la regolarità nè dell'una nè dell'altra... ma con
quell'elmo alla dragona...
Rispetto ai vivi: ella è una santa.
Intercede pro nobis.
E quello lì?
È il conte colonnello V...
Quegli che avrebbe dovuto essere il padre di tua nonna...
se...
Che faccia curiosa, non è vero?
È un testone bovino... Nel contemplarlo, il pensiero corre
più facilmente al macello che alla caserma, siamo sinceri, caro Giunio, e
lasciando da parte i pregiudizj... Dimmi dunque: se tu, dopo di me, sei il più
bel giovane che abbia conosciuto... a chi ne vai debitore? Vien giù liscio. Fu
un peccato in cipria e parrucca che si introdusse con garbo nella casa del
conte colonnello a far le veci della commissione d'ornato, e aggiustò i profili
ai posteri. Guarda che bel naso hai tu! Greco d'alta scuola. Che mai sarebbe
stato di te, se questo faccione da profosso, giù per il naviglio del tempo
fosse rotolato, come un pioppo del lago Maggiore, fino in casa Baroggi?... Ma
tu fai delle smorfie, e mi fai capire che questi discorsi non ti piacciono
punto... Ah!... ora comprendo tutto... Qui vedo gli Inni sacri di Alessandro
Manzoni.
E che c'entrano adesso gli inni? ma taci, che sento la voce
del signor Bruni...
E il signor Bruni, in vesta da camera e in berretta da
notte, comparve sulla soglia d'uno degli usci della sala.
Sei tu, Giunio? egli disse.
Son io...
È tardi, caro, troppo tardi. Manca un quarto alle quattro...
Guaj se tua madre sapesse...
Chi ha imparato a suonar la viola (e questo fu col permesso
di mia madre) si espone al pericolo delle serenate... e le serenate cominciano sempre
dopo mezzanotte. E oggi ce ne fu una colla coda...
La coda del diavolo, soggiunse l'amico di Giunio.
Ma chi è questo bel giovinotto?
Non lo ravvisa?
Ah... il figlio del Galantino... oh come mi fa diventar
vecchio questo diavolo... Ma da quanto tempo siete a Milano?
Da più d'un mese.
E perchè non siete mai venuto qui?
Precisamente per la grande necessità che ho di intrattenermi
con voi e con Giunio a lungo.
È una ragione curiosa.
È naturalissima. Ogni qualvolta c'è un affar grave,
difficile e disgustoso da disbrigare, lo si tira sempre
per le lunghe. Gli è come quando c'è la necessità di un'operazione chirurgica.
Si teme più la guarigione che viene collo spasimo, che la cancrena che si
sviluppa senza dar tropp'incomodo. Ho trovato due o tre volte Giunio, e sempre
l'ho lasciato andar pe' fatti suoi senza dirgli nulla... E se non fosse stata
la bell'occasione di questa notte...
Oh bella davvero... (disse Giunio ridendo), ed io non so
trovar le parole per ringraziarti come meriti. Sa ella, signor Giocondo, in che
modo ci siamo incontrati stanotte? Non lo indovinerebbe in cento anni. Intanto
che io suonavo le variazioni del professor Majno su un tema di Garcia, costui,
in compagnia di altri dieci o dodici ammiratori, mi attestò il suo entusiasmo a
colpi di bastone.
Ma tu non sei ragionevole, il mio caro Giunio. Dal momento
che uno appartiene ad una corporazione, bisogna bene che ne adempia le leggi.
Questa notte toccò a te e a' tuoi amici. Un'altra notte potrebbe toccare allo
stesso signor Giocondo, se non si facesse conoscere in tempo. La Compagnia
della Teppa bastona tutti quanti, e non ha nessun obbligo di assumere
informazioni preventive.
Ah, siete anche voi uno della compagnia? domandò il Bruni.
Diavolo!
Me ne congratulo tanto; è però una gran vergogna per la
città di Milano..., e mi fa meraviglia come l'autorità e la polizia non ci
provvedano. Ma, in conclusione, a che oggetto questa compagnia s'è instituita,
e in che modo va ingrossando tutti i giorni?
La cosa è semplicissima.
Domeneddio, pentito d'aver creato gli uomini, mandò il diluvio per sterminarli
tutti, senza aver riguardo ai tanti innocenti che, senza dubbio, ci saranno
stati anche allora; perchè la cura doveva essere perentoria, radicale,
assoluta, inesorabile. Se il Padre Eterno avesse dovuto istituire prima delle
commissioni di scelta, sarebbe stato fresco lui più che le vittime del
diluvio... vi pare o non vi pare?
Va bene... e così?
E così la Compagnia della Teppa, umilmente, si è proposto il
santo scopo di bastonare senza distinzione tutti gli uomini che di notte trova
per istrada. Non vi sembra giusto?
Ma se è così, perchè non cominciate a bastonarvi tra di voi,
o membri effettivi della compagnia?
Potrà darsi che a ciò si provveda in seguito... il progresso
va per gradi. Per ora bastoniamo gli altri. Ed io non stetti in dubbio un
minuto, quando fui invitato a far parte della nobile compagnia.
Ma non pensate quante brave persone, quanti padri di
famiglia che hanno bisogno di essere lasciati vivere in pace, saranno vittima
della vostra brutalità, ben più facilmente che i beoni, gli oziosi, i
prepotenti?
Idee piccole, caro signor Giocondo, idee storte; è
impossibile giudicare i tristi dalle apparenze. Chi sa quante ingiustizie un
padre collo-torto commette in famiglia? Chi sa quanti stranguglioni costa alla
moglie un marito che logora il confessionale? Chi sa come alla sordina succhia
il sangue dei pupilli un tutore che porta il baldacchino? La legge non ha gli
occhi d'Argo nè le braccia di Briareo; non può veder tutto, non può toccar tutto...
Ora un buon bastone che alla cieca e indistintamente cada sulla testa di quanti
s'incontrano a caso, è l'imagine nodosa e reale della fatalità vendicatrice,
tanto rispettata dagli antichi, perfino dagli dèi, perfino da Giove.
Io sarei disposto ad accettare, disse Giunio, tutti questi
tuoi principj di filosofia comica, se nella Compagnia della Teppa non vi
fossero che buontemponi colla fedina criminale netta; ma ognuno sa che vi sono
furfanti d'ogni risma e d'ogni conio.
È un errore. Sicuro che nessuno di noi aspira a morire in
odore di santità. Una certa inclinazione al buon vino e alle belle donne non
mostrerebbe in noi alcuna vocazione ad accettar la regola di S. Francesco; ma
furfanti, nel senso che comunemente si suol dare a questa parola, non ne conta
la compagnia.
Ti convinco subito del contrario... Qui il signor Giocondo
ti potrà dire chi sia quel conte Alberico B...i che tu m'hai presentato come
uno dei vostri decani.
Che cosa so io...? È nobile, è milionario... paga pranzi e cene...
è prodigo, fa il democratico, aspira alla popolarità... giuoca alla morra anche
coi facchini e coi toffi... racconta frottole con garbo... è stato a
Costantinopoli, è stato in Egitto... fu impresario di virtuosi, fu direttore di
palchi scenici...
Fu cortigiano, lasciate che continui io adesso, soggiunse il
Bruni, fu cortigiano e galoppino di biglietti amorosi al servizio di
Beauharnais. Fu spia per diporto. Fu Creonte e Jago e Tersite tutt'in una
volta. Fu manipolatore di discordie tra amici e amici. Libertino e osceno come
Tiberio, come il re di Bitinia, a trent'anni avea già i denti spazzati via dal
calomelano. Prepotente e crudele con quelli che hanno bisogno di lui, vile e
tremante coi generosi e coi forti; sposò due mogli... che morirono, l'una e
l'altra, assassinate da lui alla sordina, senza coltello, senza veleno, senza
laccio; perchè in maschera spesso d'onesto uomo, essendo volpe astutissima,
teme la legge e sa scansarla; ha sentito parlar della forca, e sa come le si
gira d'intorno senza toccarla.
Vi faccio i miei complimenti, signor Giocondo. D'ora innanzi
verrò da voi a imparare lo stile delle lettere commendatizie.
Dunque?... disse Giunio.
Dunque, anche in questo caso non voglio discostarmi da una
mia teoria... ed è che quando si scopre che un conoscente, un collega, un
amico, è uno scellerato, bisogna fingere di non saper nulla, bensì tenerlo
d'occhio e averlo sottomano.
Non si può esprimere con parole, proseguiva Giunio, la
ripugnanza ch'io sento per colui. Senza conoscere affatto i suoi antecedenti,
mi ricordo che mi rifiutai di sedere ad una mensa comune, per la sola ragione
che anch'esso era fra gli invitati. Né sapendo trovar ragione ad un'antipatia
così invincibile, e nel medesimo tempo fidandomi assai delle antipatie, che per
me son come avvisi del cielo, ne chiesi conto qui al signor Giocondo, il quale
press'a poco mi disse quello che ha ripetuto un momento fa.
Eh, caro mio, se si dovesse sempre
far caso alle antipatie, e respingere da sè tutti quelli che per un verso o per
un altro hanno bisogno d'un bagno di zolfo o di acqua ragia, sarebbe necessario
di ritirarsi in una grotta a viver di radici come i santoni della Tebaide. Ma
lasciamo da parte costui; e parliamo piuttosto di ciò che ben più ti deve
interessare.
E a questo punto, dopo una lunga pausa, il figlio di Andrea
Suardi si cavò di tasca un portafoglio; lo aprì, lo svolse, ne trasse un
involto che spiegò, levandone una carta.
Vedi questa carta, Giunio? disse poi; la vede, signor
Giocondo? Ebbene, darei la metà della mia fortuna perchè non mi fosse mai stata
consegnata da mio padre. Sono sei anni che l'ho con me, ed è dal giorno
precisamente in cui esso morì. Appena l'ebbi letta, il mio primo pensiero fu di
volar subito a Milano per consegnarla a' tuoi parenti; ma mi trattenni. Dopo
sorvennero gli intrighi dell'eredità; e la storia d'una famiglia e d'una
ragazza che pretendeva avere dei diritti al pari di me: poi la vendita ch'io
feci dei possedimenti che mio padre aveva sul Modenese, perchè non volevo in
nessun modo aver a che fare con quel duca infame che fa da despota, da papa e
da boja; poi vennero i miei viaggi... e sapete perchè ho viaggiato per tanto
tempo? per togliermi appunto alla tentazione di cavar fuori questa carta e
farla di pubblica ragione...
Ma e che diavolo c'è in quella carta?
La tua fortuna e il mio disonore.
Il Bruni si alzò aspettando e indovinando. Il giovane
Giunio, per un movimento naturale, stese la mano su quella carta, ma la
ritrasse subito, quasi vergognandosi di un tale atto.
Molte volte io fui per abbruciarla, continuò il Suardi; e se
non ti avessi conosciuto davvicino... se non mi facesse dispetto quel
marchesone, gesuita, ipocrita, scellerato, che fu tra quei ch'hanno ajutato i
Tedeschi a tornar qui, e il cui avo fu la rovina della tua casa, e il disonore
della tua bisava, e la cagione per cui mio padre fu messo alla tortura, certo
che l'avrei abbruciata. Ora leggete. Sono tre facciate, scritte tutte di
proprio pugno da mio padre... e qui c'è la sua firma...
Giunio prese la carta, e la lesse con attenzione, con
affanno e con impazienza. Il signor Giocondo Bruni, messisi gli occhiali, si
collocò dietro la testa del giovane Giunio per tentare di leggerla anch'esso.
Il giovane Suardi intanto s'alzò, e dopo aver fatti alcuni passi per la sala,
si piantò innanzi al ritratto di donna Clelia colle braccia incrociate sul
petto. La baldanza provocatrice e gioviale che abitualmente saettava da tutti i
muscoli della sua bella faccia era scomparsa affatto, per dar luogo ad una
concentrazione accigliata e cogitabonda. Sì volse poi di tratto a queste parole
del signor Giocondo:
E dire che ci vollero settant'anni per verificar quello che
mio padre già aveva indovinato il dì dopo il fatto avvenuto!... ma or venite un
momento nella mia camera da letto.
I due giovani seguirono il signor Giocondo.
Quello là è il ritratto di mio padre, disse il Bruni
additando un dipinto ad olio dentro una gran cornice barocca. Quell'altro è il
ritratto della celebre Gaudenzi, mia madre, quella per cui fu creduto avesse il
tenore Amorevoli scavalcato il muro di cinta del giardino del palazzo V... in
contrada Velasca... la notte che vostro padre trafugò...
Il giovane Suardi si scosse.
Vostro padre, eccolo lì... continuò il Bruni. Guardate che
bell'aria di testa. Aveva vent'anni allora. E adesso vi farò vedere una cosa
rara... molto rara oggi, e aperto un armadio e trattane una scatola:
Questa, disse, è una maschera-ritratto, di quelle ch'erano
in gran voga a quel tempo; è della più perfetta somiglianza, come fui
assicurato; mio padre se la mise sulla faccia a un veglione del teatro ducale
per ingannare la contessa Clelia... e costringerla a palesar la verità. È il
ritratto del celebre tenore Amorevoli. Guardate bene! è opera del pittore
Clavelli, famoso allora in questo genere di lavori.
Così dicendo, il Bruni, gettatosi un ferrajolo intorno alle
spalle, si adattò quella maschera al volto. Pareva un'ombra evocata e
riplasmata di forme, di carne e di vita.
I due giovani provarono una sensazione che non era di
piacere.
È questa un'ora ben solenne, esclamò il Bruni. Vivi e morti,
ci ritroviamo qui tutti uniti, come in un consulto di famiglia.
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