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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOTTAVO
    • III
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III

Siamo in casa del marchese F... nella via di... (quasi ci dimenticavamo ch'è proibito il dirlo). La stanza dove siede il marchese in mezzo a cinque o sei persone, è la stessa che mezzo secolo addietro aveva servito di camera da letto al conte F...; dove era morto imitando Cosimo de' Medici, il quale, piuttosto che abdicare al potere per ricevere l'assoluzione dal confessore Savonarola, volse la testa dall'altra parte, non parlò più, e rinunziò all'assoluzione. Il conte F..., infatti, nel punto di svelare al curato di Santa Maria Podone il segreto del testamento fatto trafugare, udendo la voce del proprio figlio, tacque, e si risolse a partire per l'inferno, piuttosto che scemare di tanti milioni la ricchezza dell'unico erede. Rammentiamo queste cose alla memoria di chi legge, perchè, attraversando tanti anni, è permesso non ricordarsi più della pagina dove si parla di questo fatto.

Il marchese F..., in presenza del quale or ci troviamo, è dunque figlio del figlio di quel conte F..., e pronipote del marchese F... che per insinuazione del prevosto di S. Nazaro, prevosto galantuomo, aveva lasciato erede l'unico figliuolo natogli dalla sventurata Baroggi, con testamento olografo steso sull'abbozzo minutato dal notajo Macchi. Questo marchese, come aveva riunita in solo la ingente ricchezza provenutagli da due larghe sorgenti, così aveva congiunti nel proprio esteriore fisico, in un complesso che non mancava di una tal quale unità di stile, i varj tratti della fisonomia del padre e dei due avi: l'occhio grigio del marchese senza cuore, il mento quadrato ed ampio del nonno, il naso aquilino del padre. Rispetto alle qualità morali, insieme coll'occhio bigio aveva ereditato dal prozio l'indifferenza spietata; col mento quadrato l'ostinazione del nonno; col naso aquilino l'orgoglio paterno; superando poi tutti e tre gli antenati per le facoltà intellettuali, e più per la coltura letteraria e scientifica.

Onde non dilungarci in una troppo lunga e minuta analisi, e rendere tutt'intera la sua fisonomia con una pennellata a guazzo, diremo che, s'egli fosse nato re o duca, sarebbe riuscito il facsimile del presente re di Prussia, o di Ferdinando IV di Modena. Ci pare che non ci sia molto da consolarsi. Viaggiatore, politicante, economista, bibliofilo, aveva scritto e stampato parecchi opuscoli; aveva raccolta una biblioteca. Era ambiziosissimo, e desiderava che il mondo si occupasse di lui. Parlava di tutto con sentenze recise. Radunava intorno a alquante notabilità del terzo e del quarto ordine. Come dotto, l'oblato bibliotecario dell'Ambrosiana; come bibliofilo, il librajo Brizzolara; come direttore di coscienze, monsignore Opizzoni; come letterato, Francesco Pezzi, estensore della Gazzetta di Milano; per la parte poi che potevano avere nella cosa pubblica e nella milizia accoglieva nel proprio palchetto il generale Bubna e il barone Gehausen.

La conversazione enciclopedica quasi quotidianamente ei l'apriva in propria casa dopo il mezzodì, e la chiudeva verso le ore tre, per uscire in carrozza o a piedi, onde dar aria al polmone, mettere in movimento il sangue, e preparare lo stomaco a trovare eccellente l'opera del cuoco.

Nel giorno in cui ci troviamo, che è il successivo alla tragi-comica serenata di S. Pietro e Lino, la conversazione verteva su cose d'ordine privato, e il marchese, continuando un discorso coll'Opizzoni, veniva alle conclusioni seguenti:

Insomma, caro monsignore, giacchè ella è l'uomo della religione e della carità, è necessario si pigli il fastidio di finir questa faccenda. Mio cugino è stato quel ch'è stato; pur troppo non è possibile dimenticarsene. Ma ella m'insegna che il futuro fa spesso l'emenda del passato. Perchè mio cugino metta la testa a partito e diventi un uomo come tutti gli altri, non c'è rimedio migliore che questo matrimonio. Il mondo potrà dire che c'è la figlia dell'ultimo letto, e con un nuovo matrimonio si verrebbe a danneggiare la sua condizione pecuniaria. Ma a queste cose monsignore non suole, come non deve, aver nessun riguardo. Val più un'anima salvata che la prosperità materiale di cinquanta figliuoli. C'è la morte, pur troppo, e la ricchezza è una larva. D'altra parte, a rifletterci bene, io, come tutore della fanciulla, penso che con un matrimonio fatto fare a tempo a questo stranissimo uomo di mio cugino, si può arrivare a salvare qualche parte di quei due milioni che ancora gli rimangono e che, col suo sistema di prodigalità forsennata, e colle cappellate colme di zecchini che profonde sul capo di tutte le donne che gli danno in fantasia (lascio da parte i peccati mortali), finiranno a svanir tutti ben presto, ed a lasciare a me l'obbligo di fargli la carità di due o tremila lire all'anno, perchè non abbia a correre in pubblico la voce che un cugino del marchese F... fu ricoverato a San Marco.

Caro signor marchese, rispose l'Opizzoni, se io mi lascio indurre a frammettermi in quest'affare, non è tanto (mi perdoni se dico tutto quel che penso) non è tanto per riguardo del conte Alberico suo cugino, quanto per riguardo di quella povera ragazza. Quella ragazza nacque sott'al Duomo, e l'ho battezzata io... una pasta eccellente, ben avviata, religiosa, timorata... Or che va a saltar in testa a suo padre e a sua madre (che pur sono bravissima gente), di farle imparar la musica e di metterla sul teatro?... Fu una vera ispirazione del diavolo... ed ebbi perciò un alterco vivissimo col maestro Brambilla, quello che è organista a San Simpliciano; perchè fu lui che consigliò i parenti a far fare quel pericoloso passo alla figliuola. Il maestro che mi sentì a sgridare di ciò i parenti, ebbe un il coraggio d'apostrofarmi con ingiurie... Io già gli ho perdonato tutto... è il mio dovere, è questa una condizione del nostro carattere e del nostro istituto... ma da quel giorno tra me e lui s'impegnò una lotta, una lotta terribile, una di quelle che, se non fosse superbia il dirlo, e tanto più ad un ministro di Dio meschino e indegnissimo come io sono, si vedono impegnarsi nelle sacre istorie tra Satanasso e san Michele; ma voglio vedere chi la vincerà, se un monsignore del Duomo, o un suonatore di organo che, di sopramercato, scrive la musica per i balli di Viganò.

Presente a questo dialogo trovavasi Francesco Pezzi, il proprietario ed estensore della Gazzetta di Milano, e il critico teatrale più in voga e più temuto e, in gran parte, più indipendente che allora si conoscesse. Avendo esso officiato qualche tempo addietro il marchese F..., perchè lo raccomandasse al Governatore di Milano, quando appunto la Gazzetta era stata messa al concorso, il marchese ammise in seguito il giornalista alla propria intimità, per averne ammirata la coltura e lo spirito, e più di tutto, per essere stato preso dalla di lui cortigianeria, molto lusingatrice del suo amor proprio letterario e scientifico. In quanto al Pezzi, se adoperò tutti i mezzi e tutte le seduzioni per rendersi sempre più accetto al facoltoso ed autorevole marchese, la cosa era naturale. La Gazzetta gli rendeva da trenta a quarantamila lire all'anno, ed egli aveva bisogno di tutti coloro che lo tenessero sempre raccomandato presso la presidenza del governo.

Il marchese, quando l'Opizzoni si tacque:

Ma ella, disse rivolgendosi al Pezzi, ella come giornalista e critico teatrale, di ragione deve conoscere la signora Stefania Gentili.

La conosco benissimo, ed è un prodigio di natura e d'arte. Ma è costei che il conte Alberico vorrebbe sposare?

Costei per l'appunto.

Ed è contenta la ragazza?

Il conte direbbe di sì... ma ella, caro signor Pezzi, conosce mio cugino... e sa bene che per conoscere la verità, bisogna sempre pigliare a rovescio le sue parole. Ha sempre avuto questo difetto, e convien regolarsi... Ma in conclusione, che ne penserebbe lei di questa idea di mio cugino?...

Il Pezzi stette qualche momento senza parlare... Egli conosceva abbastanza il conte Alberico; al pari di chicchessia, lo disprezzava e detestava; inoltre, come intelligente ed amantissimo dell'arte teatrale, essendo anch'egli preso d'ammirazione per le doti straordinarie di madamigella Gentili, gli aveva fatto addirittura un senso di dispetto e di ribrezzo, che precisamente al più spregevole uomo tra quanti ei conosceva, fosse venuta l'idea d'impadronirsi di quel vago e rarissimo fiore di bellezza, di bontà e di ingegno. Ma non era il caso di manifestar per intero la propria opinione. Relativamente a monsignor Opizzoni, bisognava diportarsi con gran riguardo; e se il marchese tagliava spesso a dritta e a sinistra sul carattere e sulle qualità del suo nobile cugino, facilissimamente si sarebbe adontato di chi, senza essere un pari, si fosse messo a fare altrettanto in sua presenza.

Non crederei, disse poi, che madamigella Gentili, alla quale ho parlato sul palco scenico del teatro Re, possa per ora avere volontà di prendere marito. Non ha che diciasette anni, ed è tutta assorta nelle cose dell'arte... Tuttavia... trattandosi d'un milionario, d'un uomo che ha tante parentele cospicue... potrebbe benissimo... Ella sa bene, signor marchese, come vanno a finir queste cose...

Il Pezzi, che aveva incominciato il suo discorso coll'intenzione di dargli una conclusione ben diversa di quella che gli diede, cangiò intonazione, essendosi accorto che il marchese erasi già rannuvolato.

 




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