III
Il fischio dell'avvisatore, partito dal palcoscenico, fece
cessare tutti i discorsi che si tenevano nella platea e ne' palchetti, e si
alzò il sipario. Il ballo di quella sera rappresentava La Morte d'Ercole, del
coreografo Pitraut, colui che aveva destato tanto chiasso a Parigi per aver
messo in ballo il Telemaco dell'arcivescovo di Cambray, nel quale ballo la dea
Calipso, in conseguenza di un passo falso, avea corso pericolo di perdere
l'immortalità. - L'azione dell'Ercole si apriva con un grande strepito
guerriero; una folla di popolo annunciava il ritorno d'Ercole che entrava in
cocchio tirato da alcuni schiavi di nazioni diverse da lui soggiogate. Jole era
strascinata dai lottatori; Filoteta ed Ilo stavan seduti sul cocchio ai piedi
d'Ercole. - Compariva finalmente Dejanira, la bellissima Gaudenzi. Questa
ballerina destava allora il massimo fanatismo in Europa, non tanto perchè fosse
d'una bellezza abbagliante, ma perchè nell'arte sua era un'eccezione alla
regola, ovverossia poteva servire di regola tra gli abusi. - La critica
sapiente, che allora usciva a protestare in opuscoletti, si lamentava forte che
i compositori de' balli andassero lontanissimi dalla natura; ma più ancora si
lagnava degli esecutori. Tutta l'arte de' ballerini in generale si riduceva
alla capriuola. Non si trattava più di ballare, ma di andare in alto, e quegli
che più s'approssimava al cielo del teatro passava per il più bravo. Il
ballerino Sauter, per far vedere al pubblico la forza delle sue gambe, si
propose in un gran ballo eroico, dopo aver fatto duecento capriuole ed
altrettanti tours de jambes, di cadere in à plomb sul piede dritto, e di starvi
per otto minuti in equilibrio, affine di dar tutto il tempo alla platea di
battere le mani. Questi salti eran tanto pericolosi, che bene spesso in teatro
succedevano grandi inconvenienti, e in quella medesima stagione a cui ci troviamo,
nello stesso ballo della Morte d'Ercole, una divinità, facendo uno sforzo
pantomimo, prese così male la sua misura, che si precipitò nell'orchestra, dove
ruppe sei istromenti, disordinò quindici parrucche, gettò a terra il violino di
spalla, cui poco mancò che uccidesse invece di fracassare sè stessa;
avvenimento, che per quello che poi saprà il lettore, fece cadere in deliquio
la bella Gaudenzi. - Ma continuando a parlar dell'arte della danza a quel
tempo, non parea vero che i compositori de' balli, che volevano far effetto
affrontando qualunque assurdità e mettendo in pericolo la vita dei loro
esecutori, trovassero ballerini e ballerine, e ricche e sospirate dal bel
mondo, che si adattassero a sfigurarsi e a diventar furie sulla scena. La
celeberrima Campioni e la milionaria Curz, a forza di contorsioni e movimenti
irregolari, finito il ballo, diventavano deformi a segno da far paura; i loro
occhi si facevan torti e biechi, si tramutavano le loro fattezze e lor fuggiva
il colore. Non così la Gaudenzi. Il nostro amico, parlandoci un giorno di sua
madre, ci fece vedere un libro, che teneva carissimo, nel quale davasi di lei
il seguente giudizio: "Anche nel bel mondo ballante si trovano le rare
fenici. La Gaudenzi è una di quelle; ella balla con agilità inarrivabile, con
elegante portamento e con brio vivacissimo; il corpo suo è sì ben formato che sembra
fatto per ballare. È grande attrice pantomima; con un volto oltre ogni dire
bellissimo esprime al vivo le diverse passioni dell'animo, la tenerezza, il
dolore, lo spavento, l'allegria, il furore". Noi siamo inclinati a credere
che l'autore dell'opuscolo, stampato a Milano dal Motta, dove stanno queste
parole, fosse uno spasimante della Gaudenzi, e che però caricasse le dosi;
tuttavia viene una gran voglia di credergli, quando si pensa che tutta Europa
andava perduta dietro a codesta Gaudenzi, mentre pure aveva uno stile di danza
contrario a quello allora in voga. Ma se ella poteva danzare con ragionevolezza
d'arte, non poteva far scomparire le assurdità della composizione coreografica;
però nel nuovo ballo del Pitraut, dopo essersi gettata nelle braccia dello
sposo Ercole, doveva adattarsi a ballare un pas de trois con lui e con Jole, e
solo poteva mettere in atto tutte le riforme ch'ella avea introdotte nella
danza quando eseguiva l'a solo. - Ella avea compreso che la danza non è altro
che un'arte plastica viva e vera, in cui la figura umana, dotata di forme
bellissime, s'atteggia a consigliar pose e movenze e contorni eleganti alla
pittura e alla scultura.
I pittori Galliari, che non s'interessavano gran fatto alla
musica, nell'ora che danzava la Gaudenzi, erano assidui ad osservarla, stando
fra le quinte; e noi abbiam veduto un disegno a penna d'uno di loro, dove è ritratta
la celebre danzatrice in costume di Dejanira, adagiata su d'un letto di
cespugli, in preda al dolore. Quantunque però, nel massimo imperversare
dell'arte barocca, ella avesse tanta purezza di atteggiamenti, non aveva il
coraggio di omettere l'entrechat propriamente detto, perchè voleva far tacere
le ballerine rivali, le quali, se ometteva la capriuola, l'accusavano di poca
agilità nelle gambe. - Sapeva dunque soddisfare in un punto e alle esigenze
legittime della bellezza assoluta, rivelando forme d'indescrivibile perfezione,
e ai capricci della moda, e alle pretese dei compositori. - Del resto, se ella
era abilissima come danzatrice, riusciva inarrivabile come attrice, e sapeva
provocare il vero orror tragico, quando, nell'ultima scena del ballo, mentre
Ercole ardeva nella camicia funesta, ella entrava come forsennata, e, non
potendo reggere allo spettacolo straziante, si uccideva. Se non che tutte le
sere doveva risuscitar tosto per uscire al proscenio (non si potevano contar le
volte), a ricevere le dimostrazioni di un pubblico che andava in delirio; e,
dopo calato il sipario, il palco scenico abusivamente era invaso dai giovani
zerbinotti, che recavansi a farle tributo dei loro omaggi e a lasciarle un
tappeto di rose e viole sul pavimento del camerino, dov'ella gentile e
spiritosa e vivacissima dava belle parole a tutti, e occhiate che parevano
significare quel che non volevano dire. Veduta da presso, la Gaudenzi non
scapitava d'un punto dell'effetto che produceva a chi la guardava dalla platea;
chè veramente era dessa di una perfetta beltà. Aveva la capigliatura
biondo-cupa increspata e prolissa, la quale nella sua schietta natura non potea
vedersi che nel momento in cui, attendendo a dar parole, scioglieva i capegli
per poi foggiarli anch'essa nel puff di convenzione. - Aveva occhi azzurri,
bocca e mento e contorni della purezza più completa; soltanto il naso, come
quello della greca Aspasia, sopravanzava d'alquanto il confine stabilito dalle
scuole accademiche. - Ma quegli occhi azzurri e quel naso erano un argomento di
censura per le altre beltà invidiose, segnatamente del ceto patrizio. - La
contessa Marliani affermava, sdegnosissima nella sua convinzione, che non può
essere una beltà perfetta chi non ha gli occhi neri; la quale asserzione diede luogo
ad una disputa de' begli spiriti che recavansi alla sua conversazione. - Fu
persino convocata una consulta di pittori per decidere in proposito; e avendo
essi sentenziato in favore degli occhi azzurri, quasi corsero il pericolo di
perdere il loro posto alla tavola di casa Marliani. - Ma anche noi che
scriviamo, avremmo perduta l'amicizia della contessa perchè le avremmo detto
che, se gli occhi neri lampeggiano in virtù della legge dei contrasti, gli
occhi azzurri risplendono per virtù propria; le avremmo detto che la pupilla
azzurra sdegna la mediocrità, vuol bellezza perfettissima di linee nel
sopracciglio e nella cassa dell'occhio, mentre la pupilla nera s'appaga invece
anche di linee irregolari; che l'occhio nero non avendo un colore, non ha sempre
nè varietà nè nobiltà nè iridescenza nè riflessi, sia dalla luce esterna che
dall'intima luce dell'anima; ora tutte queste qualità avevan gli occhi della
Gaudenzi, occhi esercitanti un fascino, che poteva persino sembrar
colpevole a chi non conosceva l'indole di quella donna.
Ma intanto che i cavalierini incipriati stavano indugiandosi
alle soglie del camerino della Gaudenzi, in aspettazione dell'ultima occhiata,
e tutti nella speranza che quell'occhiata significasse una scelta, senza, del
resto, arrivar a comprendere che la Gaudenzi era sudatissima e sentiva il
bisogno di spogliarsi e rivestirsi, e nel suo segreto, pur conservando
l'amabilità dell'azzurra pupilla, li mandava tutti al diavolo, s'intesero voci
d'alterco sul palco scenico. - Ad un illuminatore, che passava in quel punto,
tutti que' gentiluomini si volsero per domandarli di che si trattasse:
- È il signor Amorevoli che non vuol più cantare...
- Come, come?
- Per questa sera, no.
- Ma perchè?
- Dice di star malissimo, e i medici, richiesti dai cavalieri
ispettori, dichiarano invece che non è mai stato così bene; ed egli ha
minacciato di bastonar tutti quanti, cavalieri, ispettori e medici... - e senza
dir altro e sghignazzando di gran voglia, l'illuminatore passava oltre. -
Allora gli spasimanti della Gaudenzi s'allontanarono dalla loro vittima e
mossero a spingere un occhio e un orecchio curioso al camerino del tenore. Ma
tutto era tornato nella più perfetta calma. In conclusione, convenne fare la
volontà del tenore, il quale dichiarava che, quand'anche non avesse la febbre
richiesta dai regolamenti del teatro, pure non poteva spingere la voce al di là
del sol, aveva compromesso il la, e sarebbe stata una imprudenza solamente a
parlare del si e dei falsetti. Così, dopo alcuni momenti, uscì l'avvisatore a
gridare dal proscenio, in mezzo ad un silenzio di tomba:
- Per improvviso abbassamento di voce del tenore signor
Amorevoli, si ommetteranno nel secondo e nel terz'atto tutti i pezzi d'Ircano.
-
Non è a dire come rimanesse percosso da questa notizia tutto
quanto l'uditorio, il quale, per non saper come sfogare il dispetto, fischiò
disperatamente l'avvisatore, il quale si ritrasse con un volto pieno
d'indifferenza, di calma e d'ironia; con un volto che pareva quello di Socrate
quando si alzò a sfidare le risate della folla d'Atene. - Tanto in qualche cosa
giova essere gli ultimi per assomigliare ai primi.
Ma tornando all'Amorevoli, noi, al pari dei medici del
teatro e dei cavalieri ispettori, siamo inclinati a credere che in quella sera
egli avesse una salute di ferro e una voce a tutta prova.
Seduto di fatto nel suo camerino innanzi ad uno specchio,
stava disbellettandosi; e ridendo tra sè, pareva che godesse di un trionfo
ottenuto. - Entrava in quella il servo universale del palco:
- Si va dunque a casa?
- Prepara il mantello e gli stivali, Zampino.
- Gli stivali?
- Gli stivali ed il mantello... Sì.
- Ecco il mantello.
- Tu vuoi assaggiare la mia canna, eh?
- Non sono il medico del palco scenico.
- Porta via dunque questo drappo rosso, che fa uscire il sole
anche di notte... e prepara il mantello nero, bestione.
- Vuol l'amo o le reti, signor Angelo?
- Bada a te, Zampino. - E Amorevoli si alzava aspergendosi
il volto e le mani d'acqua odorosa, e mettendo in mostra una camicia tutta gaja
di preziosissime trine, e un pajo di calzoni di raso turchino con punte
d'argento. Si adattò il gilè, che pareva un mazzo d'ortensie, mise gli stivali
di rnarocchino nero con rovesci azzurri come i calzoni, infilò la marsina
variopinta come una squama di serpente, si calcò il cappellino a tre punte
sulla parrucca alla circostanza, e si gettò il mantello sulle spalle. Dopo aver
detto a Zampino: - Preparati ad accompagnarmi col lampione - uscì dal camerino,
e recatosi sul palco scenico, nel momento che era calato il sipario, dopo i
frammenti del second'atto, mise l'occhio ad un buco del telone, e guardò al
numero quattro in second'ordine. Il palco era vuoto... egli soffregossi le mani
e ripartì queto, uscendo per la falsa porta del teatro. Zampino lo seguiva
senza far parola, col lampione che già aveva acceso.
Lasciato il teatro, Amorevoli volse il passo verso la
contrada Larga... alla quale rispondeva una porta del teatro per dove uscivano
i proprietarj de' palchetti. - Molti carrozzoni erano là in fila, e i cocchieri
aspettavano di esser chiamati dal lacchè della propria casa.
- Casa Borromeo, casa Litta, casa Marliani, casa Gambarana,
casa Annoni, casa Belgiojoso, casa Sanazzaro, casa Bossi, casa Taverna... -
gridavano essi di mano in mano che i carrozzoni si facevano innanzi.
Amorevoli si fermò sull'angolo della contrada delle Ore,
porgendo orecchio alle voci rauche di quei poveri lacchè che facevan venire
innanzi le carrozze in processione.
- Casa Verri, casa Beccaria, casa V...
Amorevoli stette un istante senza far motto, gettò il
mantello alla veneziana intorno alle spalle, ascoltò il cupo e pesante romor
delle ruote di quell'ultimo carrozzone che s'allontanava.
- Quante sono le ore? - chiese poi a Zampino.
- Manca poco a mezzanotte.
- Vieni che faremo una passeggiata per la città.
- A quest'ora?
- A quest'ora - e partirono.
Camminarono una mezz'ora buonamente... Zampino di tant'in
tanto diceva ad Amorevoli:
- Ma che si fa?...
- Bada a te... e attendi a servirmi bene - e vennero a Poslaghetto.
Colà era un'antica osteria, donde partivano grandi schiamazzi e canti e
villotte...
- Che diavolo c'è laggiù, Zampino?
- Siamo agli ultimi di carnevale, signore; saranno i
compagnoni della Badia de' facchini.
- Benissimo. Ora va' a mangiare il tuo boccone in
quell'osteria, e attendimi là...
- Non devo accompagnarla?
- No.
- Ma e se?...
- Va' a mangiare il tuo boccone... - e Amorevoli partì solo.
Pareva praticissimo di quel gruppo di contrade, e difilò
dritto ad una cinta di un gran giardino. Era il giardino del palazzo V..., nome
che dobbiamo tacere, avvertendo solo, a scansare equivoci, che aveva desinenza
spagnuola, e che una volta aveva probabilmente dato l'appellativo ad una
contrada.
Faceva una notte di febbrajo limpida e stellata... e dal dietro
della cinta si vedeva la sontuosa facciata di un gran palazzo antico, - Da due
finestre, poste tra loro a molta distanza, ai lati estremi di quel palazzo,
trapelavano due lumi. - Un altro lume trapelava più in lontananza da una
casetta modesta, che rispondeva ad un giardino confinante a quello della casa
V..., il qual giardino apparteneva al palazzo del marchese F... che era morto
la mattina di quel giorno; due lumi luccicavano a due balconi di quello stesso
palazzo. Il lume della prima finestra del palazzo V... rischiarava la stanza
della contessa Clelia che vegliava...; quello della seconda finestra
rischiarava la camera dell'ex-colonnello conte V... che già dormiva; il terzo
lume, che traspariva dalla finestra della casa modesta, rischiarava l'alloggio
della ballerina Gaudenzi, che s'era acconciata là per esser vicina al Teatrino
Ducale e che in quel momento stava mutandosi la camicia.
Delle ultime due fiamme, l'una illuminava un lenzuolo in cui
era avvolta la salma patrizia del marchese defunto; e l'altra una mano di gente
venale, pagata la notte a far compagnia al morto.
In quello spazio misurato dall'occhio del tenore Amorevoli
non scintillavano che quelle cinque fiamme... Esso le contò macchinalmente, e
scavalcò il muricciuolo di cinta,
E con un'ansia incognita
Ebbe la debil orma accelerato
E in alto
Scintillava il beffardo occhio del fato.
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