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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMOTTAVO
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Però la Compagnia della Teppa, fra tante ribalderie poteva anche, a intervalli, vantarsi d'aver compiuto qualche fatto che collimava persino cogli intenti supremi della giustizia assoluta. I suoi mezzi, come al solito, non furono mai legali legittimi, e nemmen lodevoli; ma per quanto un filosofo sentimentale avesse pensato e ripensato, non avrebbe mai trovato il modo di far la giustizia più prontamente e più compiutamente che con quei mezzi. Siamo sempre alla vetusta teoria della giustizia sommaria, che sola riesce a tagliare dei nodi che nessun codice umano si attenta nemmen di toccare. Però più di un birbone sotto mentite spoglie, di quelli che alla sordina rovinano la società come fanno i topi nei bastimenti; più d'un funzionario pubblico noto per abusi di potere non intaccabili dalla legge; più d'un padre tiranno, più d'un marito assassino fu messo al dovere dalla minaccia e dall'assaggio del notturno bastone. Queste imprese eccezionali non avvenivano per merito dell'instituzione, ma bensì per la inclinazione speciale di alcuni pochi individui che ne eran membri: giovinotti ardenti, ma acuti e generosi, ma dotati di tempra e d'ingegno affatto eccezionali.

Nessun di costoro erano, come si suol dire, persone serie. Tutt'altro: non avrebbero potuto appartenere alla Compagnia della Teppa; eran tutti uomini dediti al buon tempo, ai bagordi, al fracasso. Taluno, fornito ad esuberanza del tubere della giovialità e della potenza comica e della virtù della satira empirica, per distinguerla dalla poetica, tutti i giorni inventava qualche stranezza, gettava qualche insidia che con modi berneschi andasse a ferire in sul serio qualche mala bestia della società patrizia o della burocratica; o mettesse in ridicolo qualche fatto del pubblico o del privato costume, qualche stolta consuetudine, qualche provvedimento sciocco.

Di tal tempra era, tra gli altri, un certo Mauro Bichinkommer, incisore di cifre, milanese, che aveva dimorato per molti anni a Torino, e poscia di aveva dovuto ridursi a Milano, in conseguenza di alcuni scherzi serj fatti subire a personaggi collocati in alto. Costui era un famoso imitatore d'ogni mano di scritto. Usando di tale singolarità, una volta, a Torino, aveva spedito un ordine, come se fosse del primo ministro di corte, con cui comandava al castellano di recarsi sulla piazza di Madama Reale nel mattino colle truppe, volendo il re fare una rivista generale. (Il re, contro il genio storico della dinastia Sabauda, s'intendeva di milizia come d'astronomia). La seconda burla fu un invito segnato dal principe di Carignano al provinciale dei Cappuccini, di recarsi alla casa del principe per trasportare alla chiesa la povera principessa sua moglie morta di parto. (Il Carignano non aveva ancora avuto figli). La buffonata ebbe luogo con grande scandalo della casa principesca ed infinite risa del pubblico. La terza burla fu un invito a pranzo fatto a diciotto curati della città e sottoscritto dal segretario di quell'arcivescovo con ordine contemporaneo ai pasticcieri, ai pizzicagnoli, agli osti di mandar dolci, salsiccie, manicaretti. (L'arcivescovo era famoso per la sua sordida avarizia, e i diciotto curati erano stati scelti fra i più ghiottoni).

Vedremo in seguito come i fili della nostra azione drammatica si verranno arruffando per la bizzarria della sua indole e del suo ingegno.

 

 




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