IV
Monsignor Opizzoni aveva l'abitudine di visitare una volta o
due alla settimana quelli tra i suoi devoti che più aveva in petto. I conjugi Gentili
erano tra gli eletti, e come esso prediligeva i genitori, così per qualche
tempo prodigò le sue gentilezze sante anche alla bambina, regalandole Agnus
Dei, immagini di santi, libretti da messa, ecc. ecc.; ma, di tratto, e quasi
senza accorgersene, egli provò una certa avversione per lei, quando appunto si
vennero in essa sviluppando tutte quelle qualità per cui era diventata tanto
cara agli altri. Quell'uomo aveva sortito dalla natura, e aveva avvalorate
colla più rigida costanza nelle abitudini della vita, tutte le qualità che
costituiscono i santi; ma i santi senza talento. Il sentimento, il cuore, le
intenzioni erano mirabili; ma la mente non era di quelle che Romagnosi, a
scrupolo di scienza, chiamò sane.
Egli aveva preso con soverchio rigore matematico il detto e
il fatto, che il mondo non è che un luogo di passaggio. Per questa ragione,
riputando che l'uomo non deve mai nè pensare nè operare se non nell'intento
supremo di meritarsi un posto nel regno de' cieli, aveva sgomento e avversione
di tutto ciò che può rendere più cara e più attraente ai mortali la vita
mondana; in certi momenti in cui lo invadeva più del consueto il sacro furore
dell'ascetismo, avrebbe voluto che la luce del firmamento fosse lugubre e
uggiosa, che le stelle inviassero sulla terra un raggio sinistro, che i fiori
non avessero fragranze, che le donne non avessero avvenenza. A forza d'adorare
Iddio, di non pensare che a lui, di credere che ogni cosa si dovesse fare
quaggiù onde glorificarlo, per uno strano pervertimento del suo giudizio, di
cui non aveva la consapevolezza, veniva di tal modo ad offendere Dio stesso,
rifiutando e biasimando gran parte delle opere sue mirabili. Non arrivò mai a
sospettare che il fattore del mondo, se ha dato alla più squisita delle sue
creature tanti doni seducenti, non lo deve aver fatto a caso; che il rifiutare
quei doni stessi era un cessare dalla sua adorazione. Ma sopratutto egli aveva
un'istintiva ripugnanza per le donne, sempre
inteso, quand'erano giovani e belle; aveva paura di loro, come di un serpente
insidioso; paura non egoistica ma tutta oggettiva, convinto come era che la
maggior parte dei peccati ricevevano da esse il più succoso loro alimento, che
esse erano le confederate più attive e più fedeli del diavolo; che, pur senza
volerlo ed anche colle più virtuose attitudini del mondo, ma soltanto collo
spettacolo inevitabile delle loro grazie e delle loro attrattive, riuscivano
funeste agli altri e, per consenso, anche a se stesse. Dopo la bellezza egli
temeva l'ingegno, sempre inteso quando usciva
dalla misura vulgare. Ei soleva dire che per amar Dio non occorreva tanta
sublimità di mente nè tanto slancio di fantasia; senza aver lette le opere del
Cardano, e con tanta discrepanza di intelletto e d'intendimenti, egli
concordava con lui in quella balzana e audace opinione, che le condizioni della
società furono sempre peggiorate dalla
comparsa degli uomini di gran talento.
Con tutto ciò egli era un lettore indefesso di quanto si
veniva pubblicando per le stampe; non v'era opera o brochure francese, per
quanto eterodossa, e rivoluzionaria, e diabolica ch'egli non raccogliesse nel
proprio studio. Chi, senza conoscerlo, avesse dato un'occhiata alla sua
libreria segreta avrebbe detto ch'essa apparteneva a qualche volterriano
libertino. Nè in ciò v'era contraddizione. Per far la caccia al demonio, ei lo
inseguiva dappertutto, onde non perderlo di vista, e attraversarsi in un
bisogno alle sue insidie perverse; e come un processante attivo e inesorabile,
teneva sempre i corpi del delitto sul suo tavolino.
Paventava dunque l'ingegno e non amava la bellezza. Delle arti poi, fra tutte,
detestava la musica, quella che usciva dalla sfera del canto fermo e del Pange
lingua. E, più della musica da camera, abborriva la teatrale, tanto che, per
questo lato, aveva fieramente in sulle corna l'Italia stata inventrice di quel
mostro infame del melodramma.
Con questi precedenti il lettore può immaginarsi con che
cipiglio monsignore si trattenne stupefatto sulla soglia della casa dei conjugi
Gentili, quando sentì la loro figliuola cantare quell'aria fatta celebre dalla
Gafforini
Chi vuol la bella Rosa
L'ortolanella è qua.
Aria che più volte la fanciulletta aveva sentito a cantare
da un mezzo-soprano in casa Corali, e che, inconscia e innocentissima, ma solo
eccitata dall'istinto prepotente per l'arte, ripeteva a perfezione con un certo
garbo pieno di smanceria onde risultava lo stile di quell'aria proterva. Cogli
occhi aperti, come chi è colpito da una scena d'orrore, esso lasciò che la
tenera cantatrice terminasse l'aria fino all'ultima sua cadenza per vedere fino
a che punto il diavolo l'aveva assassinata; poi irruppe nella casa, con voce
asprissima intimò alla fanciulla di tacere e di non cantare mai più quell'aria;
il suo rabbuffo fu così violento, che la ragazza si mise a piangere, e tanto
più ch'ella aveva una terribile soggezione di monsignore, il quale da qualche
tempo non aveva più avuto nè un sorriso nè una parola dolce per lei, per la
ragione che non gli piaceva niente affatto quel suo modo di volgere gli occhi
pieno di grazia e di mollezza affettuosa.
Nè l'Opizzoni si fermò qui, ma diede una tremenda lavata di
capo ai genitori, e tenne loro sospesa l'assoluzione quando gli si presentarono
al confessionale. Ebbe anche il coraggio (il vero zelo è imperterrito) di
entrare dalla signora Corali a intimarle che proibisse ai suoi alloggianti di
scandolezzare il vicinato con quelle invereconde canzoni. La signora Corali,
com'è naturale, gli rispose che aveva buon tempo; da quel giorno monsignore
circuì la casa Gentili e la piccola Stefania di mille precauzioni vessatorie.
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