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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMONONO
    • XVI
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XVI

In quanto al conte, il delirio che lo invase nel pensiero che avrebbe realmente posseduto quel capolavoro di bellezza femminile, fu tale che in realtà era diventato quasi buono; non era più invidioso di nessuno, aveva smesse le menzogne e le calunnie; e stette intorno alla fidanzata con ogni maniera di gentilezze. Chicchessia pertanto (non chi scrive però, perchè di tali cose se ne intende troppo) avrebbe dovuto invidiare quella giovane creatura cullata dai genitori come se fosse una neonata, raccomandata espressamente al cielo dalle preghiere di un venerando sacerdote, idolatrata dal futuro sposo; al che si aggiunga la splendida prospettiva del cocchio, del palco in teatro, delle livree, dei viaggi a Parigi, a Londra, a Madrid, delle conversazioni serali e vocali, dov'ella necessariamente sarebbe stata la regina legittima e perpetua della festa.

Esultavano dunque tutti, ma tutti a danno di una sola, e precisamente quelli che, esaurita la maggior parte della vita, avean raggiunta l'età in cui gli uomini non dovrebbero avere altro obbligo che di provvedere al bene della gioventù che sorge, di apprestarle tutte le occasioni della felicità possibile, di soccorrerla, di salvarla, di colmarla di beneficj. Esultavano tutti a danno di una sola. La giovinetta Stefania, leggiadra, bella fra le bellissime, dotata di un talento straordinario e in quella sfera dell'arte che è la più lusinghiera e la più affascinante di tutte; essendo alimenti naturali di questo medesimo ingegno il sentimento, l'entusiasmo, l'amore ardente del bello, e attraverso e intorno e dentro a tutte codeste attitudini, una serpigine occulta, persino a lei stessa, ma prepotente e fortissima, di una sensualità gentile, che non offendeva la castità nativa, ma le metteva in ebollizione il sangue con tentazioni arcane; l'unica figliuola di due santi testardi e inconsciamente spietati, eletta creatura che cresceva allora e per la quale quanti le stavano intorno avean l'obbligo di sacrificarsi, era predestinata invece, come Ifigenia, per i fatali responsi di un sacerdote, ad essere immolata sull'ara paterna, e a diventare, come Andromaca o come Angelica, pasto consacrato alle zanne d'una belva affamata.

E la belva affamata, divenuta transitoriamente mansueta nell'aspettazione del pruriginoso cibo adocchiato e presentito, si recò una mattina dal suo nobile cugino marchese F..., amministratore della di lui sostanza e di quella delle sue figlie, per pregarlo di anticipargli un centinajo di mila lire per le spese degli sponsali. Ma il marchese, contro ogni sua aspettazione e con sua dolorosa sorpresa:

Io non ti anticipo nulla, disse. Ho altro per la testa in questi .

Ma, e che è avvenuto?

È avvenuto che non ho danari da dare altrui: segnatamente quando si tratta di soddisfar capricci, e probabilmente di far nascere dei disordini.

Disordini?

Peggio che disordini, perchè una bellissima ragazza di diciott'anni, vagheggiata e desiderata dalla più avvenente gioventù di Milano, e che si adatta a congiungersi con un tuo pari, è una tale anomalia da non potersi comprendere. Io ti ho raccomandato a monsignore, perchè credevo che quel sant'uomo, liberando me dal fastidio di fare il sensale di matrimonj, avrebbe detto tutto ai parenti della fanciulla; non omettendo di far loro presente che a soli trentasei anni ti son già morte due mogli, giovanissime l'una e l'altra.

Ma che discorsi son questi, caro marchese? Ma quando uno sposa una donna, ha forse l'obbligo di garantirle la vita?

Non so nulla. Ma io non darei mai mia figlia ad un uomo ancor giovine, che si è già trangugiato due mogli come due uova fresche. Ma queste sono parole; il fatto è che i danari non te li do.

Questo repentino cangiamento nell'umore del marchese F..., che in quella mattina si mostrò col conte Alberico bisbetico fino alla provocazione e all'ingiuria, e che il conte Alberico sopportò per quella viltà che lo faceva tacer sempre innanzi a quelli che potevano più di lui e non dipendevano da lui, era stato provocato da un incidente tutt'altro che atteso dal marchese, il quale si trovò risospinto nel mare pericoloso del tribunale, e si vide di nuovo nel pericolo di perdere quei tanto contestati milioni della lite centenaria, per una lettera che il notajo Agudio da una sua campagna presso Varese, dove era gravissimamente ammalato, aveva scritto al Direttore di polizia.

Il marchese nell'ozio fastoso della sua ricchezza non contrastata, nella compiacenza beata d'essere un gran facoltoso rispettato e temuto, soleva assecondar volontieri chi gli si raccomandava, e non si lasciava troppo pregare nel far piaceri a parenti ed amici, e perciò aveva trovato giustissimo che suo cugino si preparasse ad assassinare un'altra moglie. Ma l'inatteso pericolo sorgiunto gli rovesciò l'animo, lo fece diventare bisbetico e intrattabile. Parendogli che tutti fossero in miglior condizione di lui, sentì il morso della più dispettosa invidia pur contro quel vile briccone di Alberico che, senza cure di nessun genere, pensava a soddisfare a nuovi capricci. Non sperar nulla però, o lettore di buon cuore; bensì preparati a fatti strani.

 




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