XVI
In quanto al conte, il delirio che lo invase nel pensiero
che avrebbe realmente posseduto quel capolavoro di bellezza femminile, fu tale
che in realtà era diventato quasi buono; non era più invidioso di nessuno,
aveva smesse le menzogne e le calunnie; e stette intorno alla fidanzata con
ogni maniera di gentilezze. Chicchessia pertanto (non chi scrive però, perchè
di tali cose se ne intende troppo) avrebbe dovuto invidiare quella giovane
creatura cullata dai genitori come se fosse una neonata, raccomandata
espressamente al cielo dalle preghiere di un venerando sacerdote, idolatrata dal
futuro sposo; al che si aggiunga la splendida prospettiva del cocchio, del
palco in teatro, delle livree, dei viaggi a Parigi, a Londra, a Madrid, delle
conversazioni serali e vocali, dov'ella necessariamente sarebbe stata la regina
legittima e perpetua della festa.
Esultavano dunque tutti, ma tutti a danno di una sola, e
precisamente quelli che, esaurita la maggior parte della vita, avean raggiunta
l'età in cui gli uomini non dovrebbero avere altro obbligo che di provvedere al
bene della gioventù che sorge, di apprestarle tutte le occasioni della felicità
possibile, di soccorrerla, di salvarla, di colmarla di beneficj. Esultavano
tutti a danno di una sola. La giovinetta Stefania, leggiadra, bella fra le
bellissime, dotata di un talento straordinario e in quella sfera dell'arte che
è la più lusinghiera e la più affascinante di tutte; essendo alimenti naturali
di questo medesimo ingegno il sentimento, l'entusiasmo, l'amore ardente del
bello, e attraverso e intorno e dentro a tutte codeste attitudini, una serpigine
occulta, persino a lei stessa, ma prepotente e fortissima, di una sensualità
gentile, che non offendeva la castità nativa, ma le metteva in ebollizione il
sangue con tentazioni arcane; l'unica figliuola di due santi testardi e
inconsciamente spietati, eletta creatura che cresceva allora e per la quale
quanti le stavano intorno avean l'obbligo di sacrificarsi, era predestinata
invece, come Ifigenia, per i fatali responsi di un sacerdote, ad essere
immolata sull'ara paterna, e a diventare, come Andromaca o come Angelica, pasto
consacrato alle zanne d'una belva affamata.
E la belva affamata, divenuta transitoriamente mansueta
nell'aspettazione del pruriginoso cibo adocchiato e presentito, si recò una
mattina dal suo nobile cugino marchese F..., amministratore della di lui
sostanza e di quella delle sue figlie, per pregarlo di anticipargli un
centinajo di mila lire per le spese degli sponsali. Ma il marchese, contro ogni
sua aspettazione e con sua dolorosa sorpresa:
Io non ti anticipo nulla, disse. Ho altro per la testa in
questi dì.
Ma, e che è avvenuto?
È avvenuto che non ho danari da dare altrui: segnatamente
quando si tratta di soddisfar capricci, e probabilmente di far nascere dei
disordini.
Disordini?
Peggio che disordini, perchè una bellissima ragazza di
diciott'anni, vagheggiata e desiderata dalla più avvenente gioventù di Milano,
e che si adatta a congiungersi con un tuo pari, è una tale anomalia da non
potersi comprendere. Io ti ho raccomandato a monsignore, perchè credevo che
quel sant'uomo, liberando me dal fastidio di fare il sensale di matrimonj,
avrebbe detto tutto ai parenti della fanciulla; non omettendo di far loro
presente che a soli trentasei anni ti son già morte due mogli, giovanissime
l'una e l'altra.
Ma che discorsi son questi, caro marchese? Ma quando uno
sposa una donna, ha forse l'obbligo di garantirle la vita?
Non so nulla. Ma io non darei mai mia figlia ad un uomo
ancor giovine, che si è già trangugiato due mogli come due uova fresche. Ma
queste sono parole; il fatto è che i danari non te li do.
Questo repentino cangiamento nell'umore del marchese F...,
che in quella mattina si mostrò col conte Alberico bisbetico fino alla
provocazione e all'ingiuria, e che il conte Alberico sopportò per quella viltà
che lo faceva tacer sempre innanzi a quelli
che potevano più di lui e non dipendevano da lui, era stato provocato da un
incidente tutt'altro che atteso dal marchese, il quale si trovò risospinto nel
mare pericoloso del tribunale, e si vide di nuovo nel pericolo di perdere quei
tanto contestati milioni della lite centenaria, per una lettera che il notajo
Agudio da una sua campagna presso Varese, dove era gravissimamente ammalato,
aveva scritto al Direttore di polizia.
Il marchese nell'ozio fastoso della sua ricchezza non
contrastata, nella compiacenza beata d'essere un gran facoltoso rispettato e
temuto, soleva assecondar volontieri chi gli si raccomandava, e non si lasciava
troppo pregare nel far piaceri a parenti ed amici, e perciò aveva trovato
giustissimo che suo cugino si preparasse ad assassinare un'altra moglie. Ma
l'inatteso pericolo sorgiunto gli rovesciò l'animo, lo fece diventare bisbetico
e intrattabile. Parendogli che tutti fossero in miglior condizione di lui,
sentì il morso della più dispettosa invidia pur contro quel vile briccone di
Alberico che, senza cure di nessun genere, pensava a soddisfare a nuovi
capricci. Non sperar nulla però, o lettore di buon cuore; bensì preparati a
fatti strani.
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