XVII
Una quarantina d'anni sono, il corso festivo del popolo
milanese, disertato dall'antica via Marina, e poscia dai giardini e dal
bastione di porta Orientale, erasi ridotto a porta Romana. Pare che questa
deviazione, che infranse per cinque o sei anni la secolare consuetudine, sia
stata occasionata da un tale, che, avendo viaggiato in Russia, introdusse
nell'osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi della porta Romana, il
divertimento della slitta. Costui, traendo profitto degli accidenti di
giacitura di quella parte di bastione che si venne col tempo addossando ed
innalzando sulle vetuste mura di Milano, vi praticò una discesa precipitosa di
centocinquanta passi, pavimentata in legno liscio con solchi paralleli, in cui
scorrevano delle ruotelle in ferro portanti una seggiola per una persona, od
anche per due, quando l'una avesse caro di sedere in grembo all'altra.
Questo divertimento, per quanto fosse puerile, come dicevano
gli uomini gravi e non più giovani d'allora, fu potente a far cambiar direzione
a centomila gambe. Fosse la novità della cosa; fosse che (siccome si usa nelle
feste da ballo, che il cavaliere si piglia seco la dama o la damigella, e anche
senza conoscerla, dalla usanza tiene la sanatoria di danzare con essa e di
abbracciarla a suon di musica), fosse dunque che i giovanotti e i cacciatori d'amore
avessero il permesso di tirarsi in grembo le signore più o meno maritate, le
fanciulle più o meno custodite, e che alle fanciulle e alle signore non
dispiacesse niente affatto di sedere a quel modo, il fatto sta che l'insolito
gioco ebbe un successo di entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il
concorso cominciava all'alba e finiva a mezzanotte; cosa che si comprende
facilmente quando si sappia che con soli 50 centesimi si pagava l'ingresso e
tre slitte.
Nei giorni di festa e di giovedì l'affluenza delle carrozze
era tale, che dal ponte alla porta dovevano procedere lentissime in due file,
ed anche far lunghe soste. Il fortunato importatore di questa slitta senza
ghiaccio guadagnò per molto tempo più di mille lire al giorno. Quando uno, nel
caso di metter fuori una ditta, sceglie per socio il peccato, è quasi sempre
sicuro di far fortuna. In conseguenza però di parecchi disordini avvenuti, la
polizia dovette sospendere quel divertimento per qualche tempo; e non ne
concesse di nuovo l'esercizio che col primo maggio del 1820. Fu allora che il
Monte Tabor, abbellito di nuove piantagioni, ornato di pergolati e padiglioni,
rallegrato dalle bande musicali, col libero ingresso alla slitta accordato a
chi desinava in quell'osteria, tornò ad attirare a sè tutta la folla gaudente
della città di Milano.
Nel dopopranzo del 24 settembre, giorno di domenica, era,
come di consueto, affollatissimo lungo il corso di porta Romana il passaggio
dei pedoni, prolungato e lento e ad ogni istante interrotto il procedere delle
carrozze, dei pesanti e maestosi landò, dei bombé non ancora scomparsi, dei
birbini, dei cabriolets; piena la corsia interposta tra le due file di eleganti
cavalieri, che si fermavano al fermarsi de' cocchi, a' cui sportelli apparivano
tutte le foggie dei cappelli femminini che in quei giorni erano stati incisi e
dipinti sul Corriere delle Dame, redatto allora da Angelo Lambertini; cappelli
di crepon, di raso, di treccie di cotone, di paglia di Firenze con penne di
struzzo, con marabouts, con piume scozzesi, ecc., ecc. Presso all'osteria del
Monte Tabor era un ingombro inestricabile di cocchi, di cavalli tenuti a mano
dai palafrenieri, dalla più minuta gente del popolo, la quale, mancante degli
indispensabili cinquanta centesimi per entrare, si accontentava di vedere lo
spettacolo esterno e di sentire la musica delle due bande militari, che,
collocate alle parti estreme dell'osteria, si alternavano nell'eseguire i pezzi
delle opere teatrali allora più in voga. In quel dopopranzo, il concorso alla
slitta era forse maggiore del solito, perchè si sapeva che, per la prima volta,
vi dovevano intervenire il vicerè e la viceregina, i quali tenevano
dall'imperiale parente il mandato di aspirare alla popolarità, mescolandosi ai
cittadini e al popolo.
L'interno dell'osteria, dai bassi piani, dalle falde sino
all'ultima vetta del Tabor, era un vero alveare rumoroso e gozzovigliante,
percorso e ripercorso senza posa da camerieri trafelati. Verso le ore sei
arrivarono, preceduti dal giallo battistrada, i due tiri a sei vicereali, il
che se, pel momento, produsse una sosta nella agitata faccenda della cucina e
della cantina, accrebbe il movimento e il fracasso del pubblico accorso, e non
mancarono, pur troppo, i battimani prolungati all'entrare delle loro Altezze
Imperiali nel locale della slitta. Vi fu, com'è naturale, qualche faccia pesta,
qualche costa indolenzita, allorchè i curiosi pretesero tutti di vedere
dappresso la viceregina ad assidersi nel calessino della slitta, ed a fare i
suoi cinque o sei giri in pochi minuti. Possiamo assicurare che la viceregina
ebbe un successo di fanatismo anche perchè era una bellissima donna, più alta
di una Patagona, e perchè forse nella rapida discesa, squarciando il vento,
permise che le candide gonne, alzandosi in barocchi svolazzi, lasciassero
vedere un pajo di gambe dense e poderose, di quelle che di solito non sembrano
concesse alle Altezze Imperiali. Non mai artista, nè cantante, nè ballerino o
cavalcatore, nemmeno la Malibran, nemmeno la Elssler, nemmeno Miss Ella, fecero
girar la testa al pubblico, affrontando tutte le difficoltà dell'arte e il
pericolo di rompersi il collo, come la viceregina sedendo comodissimamente in
slitta.
Qualunque straniero, di quelli che non stancano gli occhi sui
giornali e non tengon dietro alle politiche altalene, se si fosse trovato
allora in Milano raggirato nel vortice di quella baraonda, avrebbe dovuto dire
che l'età dell'oro era tornata fra noi; che i sudditi italiani andavano in
amore per i sovrani tedeschi; che questi non avevano a temere più nulla; che il
barometro della storia assicurava un sereno dei più costanti; che una specie di
beatitudine asinesca aveva avvolto nella sua tepida atmosfera tutta la nostra
popolazione. Eppure non era così, anzi era precisamente il contrario. Pochi
giorni prima era stata mandata ai parroci una notificazione da leggere in
pubblico, portante obbligo a tutti di notificarla, pene gravi ai delinquenti,
perdono e impunità ai complici che li denunziassero.
Numerose truppe e treni d'artiglieria arrivavano e passavano
per Milano, diretti a Pavia a guardare il Ticino ed il Po. Al console di Napoli
era stato ingiunto di partire immediatamente da Milano, quasi che la
costituzione imposta al suo re, per suo mezzo dovesse diventar contagiosa qui
come la febbre gialla e il vajuolo nero.
In quanto all'ordine interno e alla sicurezza pubblica, le
strade suburbane eran continuamente infestate da bande di assassini; nella
città quasi quotidiani gli assalti notturni, le uccisioni e i furti. L'allegria
cittadina assomigliava dunque alla luce del sole, che rischiara
indifferentemente tanto il male quanto il bene.
Come quando il corpo umano dev'essere travagliato da qualche
malore critico, che porterà lo scompiglio in tutte le sorgenti della vita, per
ispegnerle o per rinnovarle tutte, che il colore vivace della salute è
mantenuto in viso pur dalle stesse accensioni della febbre, così appariva alla
superficie lo spirito della società di quel tempo, in cui diedero fuori i primi
sintomi di una profonda trasformazione in tutte le sfere della vita pubblica e
privata, del pensiero e delle aspirazioni nazionali, in tutti i rami della
scienza, in tutti i campi dell'arte.
In quella stessa gazzarra del Monte Tabor erano ostensibili
tutti gli elementi vivi della rigenerazione che stava per succedere in tutto
l'organismo della società.
Giunio Baroggi, salito sur uno dei poggi più elevati
dell'osteria, da cui si poteva dominare tutta la scena che gli si svolgeva
dintorno e di sotto, guardando ora a un gruppo ora all'altro, stava immobile
riflettendo appunto al contrario tra l'apparenza e la realtà di quello
spettacolo.
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