II
Nel tempo che Francesco I venne in Italia, egli, come tutti
i Milanesi, aveva di quell'imperatore quel concetto che si esprime col
disprezzo. Ancora non sapevasi nel mondo quanto, rimanendo pur sempre
ignorante e inetto a qualunque lodevol cosa, colui fosse astuto e crudele.
Prima del 1820 tutte le qualità morali e intellettuali dell'imperatore vennero
espresse con inarrivabile breviloquenza da quella parola che finiva in on,
uscita dalla bocca dell'ombra di Prina. A questo giudizio dei Milanesi dava
appoggio il giudizio stesso degli Austriaci e dei Viennesi. Nel tempo che
l'Austria era stata messa al più duro partito dalle vittorie di Napoleone, sul
piedestallo della statua equestre di Giuseppe,
nella piazza di questo nome a Vienna, fu posta una iscrizione che diceva così:
"Discendi, o imperatore Giuseppe, dal tuo
cavallo di bronzo, e riprendi le redini del governo. Francesco starà seduto
immobile al tuo posto finchè dureranno i travagli dell'impero." Or quando
Francesco fece il viaggio in Italia, venne, vide e non fece nulla; onde i
Milanesi ribadirono il giudizio della Prineide di Grossi. Molti epigrammi
corsero allora in pubblico intorno a lui, e il nostro Bichinkommer, che non
conosceva l'arte di fare versi giusti, ma che facilmente infilava la rima ed
era poeta nell'intimo, senza palesarsi mai con nessuno, come al solito, ne fece
parecchi che fecero ridere tutta la città. Per citarne alcuni, egli attaccò una
notte al piedestallo dell'uomo di pietra questo distico, che fu letto a lume di
sole:
Tutti si lagnano; io non mi lagno
Perchè ho Francesco per compagno.
Un altro dì, quando si seppe che Francesco I, dopo avere
visitato tutti gli stabilimenti di Milano, aveva lasciato ogni cosa come prima,
scrisse egli stesso sui muri delle vie più frequentate:
Nuova aritmetica di fresco:
Zero e zero fa Francesco.
Medesimamente, ad un serraglio di belve ch'era stato aperto
al pubblico in San Romano, appose per affisso il motto:
"CONSIGLIO AULICO IN
VIENNA."
Ma quel che maggiormente fece chiasso e corse di bocca in
bocca per gran tratto di paese, fu il seguente epigramma ch'egli dettò quando,
partito Franceschino dall'Italia, ognuno commentava l'accoglimento che gli era
stato fatto alla sua venuta ed alla sua partenza.
L'epigramma era questo:
Verona, città giuliva,
L'applaude quando arriva;
Milano, che sa l'arte,
L'applaude quando parte;
Le altre città, che la pensan bene,
L'hanno in c... quando parte e quando viene.
I versi non sono tutti versi; ma le rime ci sono e la
sostanza fa le spese della forma. Nè si limitava ai versi, ma metteva gli
scherzi in pratica, e sempre con qualche
intento che racchiudesse una lezione.
A una festa che il Casino dei negozianti aveva sfoggiato,
per festeggiare l'arrivo delle LL. AA. il vicerè e la viceregina, le carrozze
di corte tenendo ingombra tutta la via di San Paolo con insopportabile disagio
degli accorrenti, egli si presentò al battistrada, e parlandogli in lingua
tedesca, ch'egli aveva imparato fin da fanciullo, appartenendo, come sappiamo,
ad una famiglia d'origine svizzera tedesca; gli ingiunse, mettendo innanzi un
ordine del conte Settala, gran cerimoniere, di far tornare tutte le carrozze al
palazzo di corte. Il battistrada, sentendosi parlar tedesco e col piglio
autorevole di chi comanda perchè sa di poterlo fare, obbedì e con tanta
esattezza, che il vicerè e la viceregina col seguito, quando uscirono dal
Casino, non trovarono più le carrozze. Non si può immaginare il furore in cui
salì l'ispettore delle stalle vice-reali, e il rabbuffo che ne ebbe il battistrada;
e il pestar dei piedi onde si sfogò l'impazienza della viceregina italica,
indarno tentando d'acquietarla quel sornione ipocrita dell'arciduca Ranieri,
che, aspettando senza far motto, andava dondolando il capo come un orso bianco
del Baltico.
Nè solo esso prendeva di mira il governo e i personaggi
pubblici, ma si dilettava di ferire colle sue canzonature anche le persone
d'ordine privato. Infiniti aneddoti potremmo raccontare in proposito da farne
un opuscoletto, ma li teniamo in serbo per qualche compilatore d'almanacchi, e
tiriamo innanzi.
Allorchè, nel 1818, ei tornò a Milano, la Compagnia della
Teppa era già salita in qualche fama, ed egli, mentre si meravigliava che la
polizia le lasciasse commettere tante soperchierie impunemente, e, mentre in
cuor suo disapprovava che la tranquillità pubblica venisse turbata a quel modo
senza ragione e senza scopo, volle nondimeno aggregarvisi, nella persuasione
che col tempo avrebbe forse potuto recare anch'essa qualche utile. Sono i più
prepotenti e più maneschi della città, egli rifletteva, che imparano la
solidarietà dell'associazione; quantunque per fini indegni, pure si avvezzano
ad una scuola perpetua di coraggio e di pericoli; e con tutto ciò l'autorità e
la polizia li lascia fare, nell'idea che, finchè la parte più giovane e più
ardente del paese spreca le proprie forze nei vizj, nei bagordi e nei
tafferugli, il governo può dormire più tranquillo i suoi sonni. Ma il governo
s'inganna; e quando venisse il bisogno, questi giovani educati a dare alle gambe
dei passeggieri come cani da presa, possono diventar formidabili per qualche
cosa migliore. Tutto dipende dal comando e dal fischio del padrone. Così il
Bichinkommer la pensava, e così una sera, trovandosi a mangiare all'osteria del
Galletto fuori di porta Vercellina, dove quei della Teppa solevano radunarsi
quando in estate tornavano dal bagno o dal nuoto nella vicina Olona, egli fece
conoscenza con essi, e fu giudicato da tutti loro aver tali qualità da meritare
di essere piuttosto un generale che un gregario.
Nei primi giorni ch'egli entrò in fazione con alcuni di
loro, diede un diverso avviamento alle imprese, e avvennero cose che non
dispiacquero nemmeno ai cittadini più tranquilli e più timorosi della
bastonatura notturna. Fu per lui infatti se una mattina la folla si accalcò
alle sbarre di quel tratto di naviglio che corre dal Palazzo del Senato a Porta
Nuova, per vedervi galleggiar sull'onde, come se fosse un canotto americano,
una garitta dipinta in giallo e nero. Quella navicella di nuovo genere non
voleva dir nulla per sè; ma il gran ridere che faceva il pubblico accorso,
dipendeva da ciò, che sapevasi come quei della Compagnia della Teppa, colta
l'occasione che la notte era stata piovosa e che la sentinella col suo cappotto
erasi messa al coperto, presero la garitta e la gettarono con gran disinvoltura
nel naviglio, tutt'insieme, guscio e lumaca; con gran stupore di quel biondo
gregario del Baumgarten, il quale, temendo l'acqua piovana, si trovò invece
inzuppato in un bagno più fitto, e buon per lui che nelle acque del patrio Inn
aveva imparata l'arte del nuoto!
Esposti questi preliminari, con cui il lettore può farsi
un'idea abbastanza compiuta del carattere eccezionale di questo Bichinkommer,
aggiungeremo qui, che egli, nello stato maggiore di Beauharnais, per motivi di
servizio, aveva avute intime relazioni col colonnello Baroggi, con sua moglie e
col figlio; che nel 1815, avendo il colonnello avuto parte nella congiura
militare, fu per un consiglio avuto dal Bichinkommer, se potè fuggire in tempo
e riparare a Parigi. Aggiungeremo altresì, ed è ciò che più monta, che a Milano
spesse volte andava a far visita al figlio del Baroggi, in casa del Bruni;
ch'egli era per i rapporti della Compagnia della Teppa in grande intimità col
giovine Suardi. Ora, senza dilungarci a dipanare tutti i fili accessorj della
matassa, diremo che, dopo il fatto dell'arresto del Suardi, egli ebbe a
trovarsi insieme col Bruni e col Baroggi appunto; che, saputo da essi com'era
corso il fatto, e le cagioni che l'avevano provocato, e tutti gli antecedenti
del marchese F..., dell'avvocato Falchi, del consigliere F..., del notajo
Agudio, meditò un piano di guerra affatto nuovo, il quale ci lusinghiamo farà
strabiliare anche il lettore più preparato alle sorprese.
|