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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO DECIMONONO
    • IX
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IX

Queste parole monsignore le proferì senza quel consueto impeto acre onde soleva esprimersi allorchè, colla convinzione di aver ragione, credeva di combattere il male; ma le porse invece con mansuetudine, con emozione, e con un certo tremito nella voce; il quale significava che quanto diceva, lo sentiva con vivissima passione.

Lo stesso maestro Brambilla ne fu commosso; onde si tacque per un momento, pensando al bene che quel reverendo personaggio avrebbe potuto fare, se la sua testa avesse sortita la forza e la virtù del suo cuore.

In ciò ch'ella dice, monsignore, ci può essere qualche cosa di vero. Ma risponda intanto ad una mia domanda: se questi signori avessero fatto una pingue eredità, li consiglierebbe forse a rifiutarla, per la paura che la ricchezza potesse mai spostare ed alterare la loro beata condizione di adesso?

La ricchezza nelle mani di questa buona gente non potrebbe essere che un mezzo felice di beneficare largamente il prossimo.

Dunque non è sempre vero che la ricchezza sia corruttrice. Dunque l'essere essa di vantaggio o di danno non dipende che dalla qualità delle persone che la posseggono. E quale è della ricchezza, tale è pure d'ogni altra cosa del mondo. L'abuso che si fa di tutto, non vuol dire che sia impossibile un uso ragionevole e lodevole. Io conosco delle donne di teatro, che non sono certo un esempio da proporsi; ma ne conosco anche di tali che, se fossero imitate da tutte le donne delle altre classi, il mondo sarebbe una meraviglia di costumatezza. E son qui con un esempio, monsignore. In questi due anni, nell'arte drammatica, è divenuta celebre una giovinetta, quella che l'anno scorso recitò con grande successo al Lentasio la Francesca da Rimini di Silvio Pellico: Carlotta Marchionni, insomma. Questa giovinetta è un modello di virtù, e il suo esempio frutta alle altre sue compagne; perchè il proverbio dice che i buoni fanno i buoni, e perchè anche la virtù, per fortuna, è attaccaticcia. Siccome questo teatro c'è, perchè ci dev'essere ed è una necessità inevitabile della convivenza sociale; così, per purgarlo della corruzione che ella teme tanto, il miglior mezzo è quello di avviarvi anche le persone che, avendo un talento fatto apposta per far prosperar l'arte, hanno anche sortito un'indole così buona, ed hanno avuta un'educazione così costumata, da far venir di moda la virtù anche dove, secondo quello che troppo facilmente crede il mondo, sarebbe impossibile.

Di questa Marchionni ho sentito anch'io parlar con gran lode. Ma so anche che ella non ha il dono funestissimo dell'avvenenza. Quanti guai si stornano allorchè una ragazza non fa freddo caldo! ma la bella ragazza provoca la tentazione; e la tentazione, se non trionfa oggi, trionfa domani...

Per la medesima ragione trionferà sulla figliuola di costoro qualunque fosse il tenore di vita che dovesse seguire, anche rimanendo in casa, anche fuggendo il teatro, anche trascurando quel talento straordinario che la natura le ha dato. Queste due oneste persone, senza loro colpa, non sono ricche. Lei, monsignore, m'insegna che la povertà è l'ausiliaria più obbediente della tentazione. Se la fanciulla avesse a far la ricamatrice, come sua madre, o la sarta, o la modista, crederebbe, monsignore, di poterla salvare da tutti i pericoli del mondo?

C'è il matrimonio per questo... basta ch'ella trovi un uomo della sua condizione... e tutto è aggiustato; e per questo m'impegnerò sempre io.

Mi pare che dovrebbe toccare alla fanciulla a scegliersi il marito... non al parroco della metropolitana. Non mancherebbe altro che i preti dovessero avere il diritto di far da arbitri anche nelle questioni dell'affetto! Ma ella, insomma, a forza di zelo, vuol condannare alla miseria questa famiglia; vuol negare alla fanciulla il diritto più incontrastabile che ha di non sprecare quel talento onde la Provvidenza le fu benefica; vuol, infine, impacciarla anche nel fatto del suo marito futuro, e condannarla, se le venisse mal scelto, ad una vita perpetuamente scontenta e infelice.

 




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