VII
Spuntavano i primi crepuscoli; lo Sternitz che era un
Tedesco straordinario, strinse lagrimando la mano al Baroggi.
Piango, esclamò poi, per la mia patria che abborrite, e per
questa Italia tanto sventurata!
Una tal scena ci commosse tutti. Si partì muti e pensosi, e
per quella notte dai nostri labbri non uscirono che le parole ultime dei
vicendevoli saluti.
Il dì dopo io fui sollecito di vedere ancora il Baroggi.
M'intrattenni a lungo con lui. Mi sprigionai; si sprigionò; e quantunque io
fossi giovinissimo e di tanto inferiore a lui nell'esperienza e nella dottrina,
venne spesso a cercarmi, e si degnò molte volte di parlar meco a lungo. Fu in
una di queste volte che, discorrendo, tra le altre cose, della condizione della
letteratura in Italia, mi fe' cenno di quel suo lavoro del quale abbiamo
parlato alquante pagine addietro. Pregato e ripregato, mi diede un dì a
leggerne gli sparsi frammenti. Che originalità, che grandezza, che vastità, che
sentimento! Io passavo continuamente dalla meraviglia al dolore, dal dolore
alla meraviglia; perchè, esaltandomi in una sfera altissima di bellezze,
consideravo poi che, per la condizione infelice dell'animo suo, non gli sarebbe
mai stato possibile, com'egli disse molte volte, di condurre a termine quel
lavoro.
La sventura lo aveva percosso in modo, che il dolore per lui
erasi fatto natura. Bensì, facendo uso di liquori generosi, con abitudine che
pareva toccare il soverchio, talvolta assumeva l'apparenza della giocondità,
che si espandeva in un profluvio d'epigrammi. Ma, di tratto, a una svolta
inattesa di qualche parola che gli facesse risentire la fitta del dolore
inclemente, si concentrava in sè stesso, si faceva cupo e taciturno, e qualche
volta dava anche in lagrime dirotte. Un dì, essendogli ciò avvenuto in mia
presenza: Non vi faccia meraviglia, mi disse; è questo una specie di vomito
morale che, prorompendo dagli occhi a furia, permette poi allo spirito di
rifarsi alquanto, e di respingere la tentazione del suicidio.
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