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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO PRIMO
    • IX
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IX

Quando si pensa che Carlo VI, subentrato ai Re spagnuoli nel dominio di Lombardia, era innamorato della Spagna e del suo sistema, è facile a comprendere come doveva camminare la cosa pubblica in Lombardia, durante il regno di lui, sebbene ei fosse d'indole mitissimo. L'arbitrio dell'autorità costituita tenne allora le veci della giustizia; il diritto storico fu così onnipotente, che il diritto razionale e naturale parve davvero un'utopia di filosofi sentimentali e innamorati, per adoperar la frase di un moderno statista dalla pelle di cuojo; come pare anche oggidì a qualche sincretico legista, che dalla memoria sterminata e prevalente su tutte le altre facoltà dello spirito, ebbe guasto l'intelletto e contaminato il cuore. Quel periodo adunque di Carlo VI contrassegnò la massima prevalenza del ceto patrizio. Chi non era nobile era una bestia, non tollerabile se non in quanto serviva come un cavallo o come un bue; e se appena appena si rivoltava per l'istinto inalienabile della difesa, o sbizzarriva per insipiente indocilità, tosto veniva tolto dal corpo sociale come pericoloso e infesto. Il Senato poi che, sotto il dominio spagnuolo (non sono parole nostre), corredato nella sua istituzione di somma autorità, si reputava maggiore del Governo stesso; per cui la vita, la libertà, la fortuna d'ogni cittadino, erano abbandonate al potere illimitato di lui, che si credeva sciolto dai rigidi principj di ragione, e solea dire che giudicava tamquam Deus; sotto Carlo VI vide più ancora accresciuta l'autorità propria, e perchè le istituzioni mantenute in vigore da chi è innamorato di esse, non ponno a meno d'invadere un campo maggiore di quello che primamente era loro stato conferito; e perchè inoltre, negli anni di Carlo VI, non si presentarono governatori così prepotenti come quei di Spagna, a respingere l'arbitrio coll'arbitrio, ed a farsi beffe del tamquam Deus.

Quando un popolo è condannato a portare simultaneamente il peso di due poteri arbitrarj e iniqui, ma che pure si faccian mutua controlleria, può avere intervalli di sollievo e può accidentalmente trovar anche la giustizia; mentre invece, se di que' poteri uno solo rimane sul campo, allora ai soggetti non resta a far altro che mordersi le mani, perchè loro è impedito anche di esprimere i gemiti del dolore. Ad onta di ciò, qualche uomo di Stato e qualche istoriografo potè lodarsi di quel periodo transitorio; ma la logica rivede i conti alla cronaca, le cui cifre, se non rispondono alla riprova della prima, è indizio che sono fallaci. Però il fatto che siamo per raccontare viene a smentire l'asserzione: che sotto il governo di Carlo VI siasi respirato quanto lo comportava la condizione dei tempi. - Degli arbitrj inumani del Senato, rimasto solo sul campo, fu dunque conseguenza un funesto avvenimento che non si è potuto scancellare dalla tradizione inorridita, sebbene siasi fatto scomparire dagli archivj il relativo processo criminale. Però, furono uomini devoti alla giustizia ed alla santa ragione quelli che pensarono di conservare il dettato della tradizione da essi raccolta dalla stessa bocca di chi era stato testimonio di quel fatto, che ben potè chiamarsi la strage degli innocenti; e la conservarono, perchè lo spettacolo dei traviamenti a cui può andar soggetta un'autorità costituita in arbitrio illimitato, rimanesse ad ammonizione ed a sgomento delle future generazioni.

Chi quindici o vent'anni fa era studente al ginnasio, al liceo, all'università, avrà sentito parlare di un tempo non molto lontano, in cui i giovinetti battaglieri e maneschi solevano ordinarsi in truppa, e assumevano tra loro un'ostilità di convenzione per aver un pretesto di menar le mani. - Gli scolari del ginnasio e del liceo di Sant'Alessandro eran nemici giurati di quelli, per esempio, del ginnasio di Santa Marta, o di quelli di Brera; e questi, non volendo patire insulti, respingevano i nemici armata mano, vale a dire colle munizioni scolastiche, quali i pennajuoli, le righe, le cinghie di pelle, i temperini che convertivano l'ostilità di convenzione in ostilità vera, e le antipatie in furore, e le ragazzate in fatti gravi e in occasioni di affanni alle famiglie. Spesso gli assaliti diventavano assalitori, e l'esercito del ginnasio di Brera, che aveva la riserva formidabilissima degli studenti di disegno, armati di squadra e compasso, trasportavan la guerra fuori del proprio nido, e inseguivano i nemici fin nelle loro sedi come gli antichi Romani. La contrada del Fieno e la piazza dell'Albergo Imperiale parlano ancora di queste guerre, a chi sa interrogarle, come i campi di Zama e di Cartagine. Noi stessi poi ci ricordiamo come alcuni scolari di retorica, che avevano appartenuto a quei tempi gloriosi, guardassero a noi, scolari novizj di prima classe, con quell'aria di pietà e di dileggio con cui un veterano di Waterloo guardava ai molli giovani cresciuti dopo la restaurazione.

Codesta pericolosa consuetudine, di che a' nostri tempi fanciulleschi non era rimasto che la ricordanza, ricordanza che qualche rara volta provocava lo spirito d'imitazione, ora, per fortuna, è scomparsa affatto; ma invece trovavasi nel suo massimo vigore nel secolo passato. Quanto più era rigoroso e quasi tirannico il regime casalingo de' nostri padri, tanto più i giovanetti reagivano a quel rigore, allorchè eran fuori della vista paterna e materna. Non potendo respirare in casa ragionevolmente, perchè il terribile papà, colla parrucca di Filicaja o col topè di Scannabue, li fulminava con lo sguardo, si sfogavano irragionevolmente fuori di casa, e con tanto più intensa, quasi diremmo, rabbia fanciullesca, quanto minore era il tempo di libertà a loro concesso. - Cattivo il sistema d'educazione, pessime le conseguenze. - Però avveniva talvolta che le nature giovanili più vivaci e generose prorompessero peggio delle altre in atti d'insubordinazione e di disordine. limitavansi a quelle battaglie tra loro; ma talvolta quando durava la tregua, siccome avevano degli spiriti esuberanti da versar fuori, tanto più esuberanti quanto più, siccome dicemmo, venivan compressi in casa dal folto sopracciglio paterno e in iscuola dall'arcigna canizie del frate professore gesuita o barnabita, così si sfogavano sui passeggieri, su qualche figura barbogia e ridicola, su qualche vecchia che vendesse i libretti della cabala e avesse odore di sortilega, press'a poco, come non è gran tempo, potemmo vedere qualche sucida vecchiarda inseguita a dileggi e a fischiate dall'irrompente folla della fanciullesca marmaglia.

Qualche volta però, uniti in formidabile truppa, segnatamente gli scolari già adulti della rettorica, si dilettavano anche a far qualche atto di giustizia sommaria, a fare scherzi e dileggi a coloro che per verità li avevano provocati, scherzi e dileggi che non mancavano di spirito, e mettevano di buon umore tutta la città. Ora avvenne il seguente fatto. Alcuni allievi del ginnasio di Brera, delle classi superiori, giovinetti dai quindici ai sedici anni, finite le scuole, uscirono un in truppa dalla porta maggiore del palazzo, e di traendo per le contrade, si dilettarono a metterle a rumore, trattenendosi di tanto in tanto a far celie e dispetti ai passanti, ai bottegaj, alle vecchie portinaje, alle livree passamantate di qualche casa, ai cocchieri, ai lacchè, ecc., ecc.; quando, un di loro, proponendosi qualche soperchieria più saporita, rivolto ai colleghi di scuola, così disse: - Andiamo a vedere il nuovo guardaportone del senator Goldoni. Invece di quel bell'uomo che aveva prima, il Marchese ha voluto seguir la moda, e s'è provveduto di un nano, ma il più brutto e laido nano che m'abbia mai visto; non patisce che nessuno si fermi a guardarlo, e sfido a vincere la tentazione. A chi gli ride in faccia, ringhia come un cane, e scaglia invettive a tutti, e qualche volta mena anche a tondo la lunga canna d'India, che a chi gli tocca il pomo nelle gambe non è un servizio. Il senator Goldoni sa tutte queste cose, e va superbo di questo bel mobile; e quando sa che il suo nano ha fatto cadere il pomo del bastone su qualche testa o qualche schiena, gli doppia giornata e doppio pranzo. - Ora, fatto tesoro di queste parole, i compagni mossero tutti e di gran lena, senza nemmeno far precedere una consulta, alla volta del palazzo Goldoni. Giunti di faccia al quale, e visto che il nano guardaportone era tronfio e pettoruto, e con un faccione protervo e provocatore e ghignoso, tosto si schierarono in semicerchio innanzi a lui, e si misero a cantare in coro una villotta allora in voga, dove c'erano delle celie che parevan pensate e messe in musica apposta per esso. Non è a dire la furia a cui montò il nano, e come tosto facesse succeder le brutte parole e le minaccie e i fatti; e come, all'ultimo, secondo il suo costume, si desse a far girare su quella schiera il suo lungo e pesante bastone senza modo misura. Ma il nano era solo, e la schiera era giovane e fitta e forte e baldanzosa, onde fattiglisi intorno, lo disarmarono, lo avvoltolarono come un palèo, e così raggirandolo a spintoni, a calci, a schiaffi, gli fecero fare il giro di tutta la città, fra le risate universali, ottenendo, quel che oggi si direbbe, un vero successo d'entusiasmo.

Il tumulto crebbe al punto, e i guaiti del nano, infuriato e percosso da tanti pugni, furono tali, che, come avviene di consueto in queste faccende, accorse la sbirraglia. Allora gli studenti abbandonarono il nano e tentarono la fuga; ma la folla stipatissima essendo stata d'inciampo ai loro passi, gli sbirri s'impadronirono de' più adulti, lasciando andare la ragazzaglia minuta, mentre il nano mezzo pesto fu ricondotto al suo portone. I quattro giovinetti, che tale riuscì il numero dei disgraziati, vennero tratti al capitano di giustizia ammanettati come ladri. - Se quel nano fosse stato un povero del volgo, esercitante qualche professione, forse gli sbirri avrebber dato una mano agli scolari di Brera; ma avendolo conosciuto pel nano del senator Goldoni, si fecero un paléo, di difenderlo con devozione di vassalli, e di accompagnarlo a casa con tutti i riguardi dovuti a un alto personaggio. E se gli sbirri si comportarono di questa maniera, non stettero indietro i giudici, gli auditori, i notaj, gli scrivani del Capitano di Giustizia, allorchè, maravigliando e quasi inorridendo del gravissimo insulto, guardarono a quei quattro giovinetti scellerati, che ebbero tanta audacia di percuotere il Guardaportone del senator Goldoni. Ma la cosa non doveva fermarsi qui. All'annuncio di quanto era avvenuto, quel senatore, pallido d'ira e giurando di trarre una terribile vendetta, la quale fosse a lezione ed a sgomento della plebe, si recò, abbandonando il pranzo e lasciando i convitati in gran trambusto e cordoglio, al palazzo dell'eccellentissimo presidente del Senato, il quale non meno stupito e convulso d'ira del marchese Goldoni, quasi che si trattasse della patria in pericolo, convocò extraordinariamente il Senato, ingiungendo che facesse parte dell'adunanza il Capitano di Giustizia e il suo Vicario, come praticavasi nelle bisogne d'urgenza. A chi considera oggi tali fatti, la storia pare bugiarda, chè la ragione si rifiuta ad ammettere tanta demenza, più quasi che ferocia, in uomini gravi, costituiti in autorità. Ora il Capitano, avendo già esaminati i giovinetti, lesse in Senato il costituto, esponendo il fatto come un atto manifesto di pubblica sedizione, ed anche, subordinatamente, pronunciando il voto per la massima pena da infliggersi ad essi. Sebbene la maggior parte de' senatori, per la vertigine provocata dall'orgoglio di corporazione, giudicassero quella colpa gravissima, e, smarrito ogni lume di ragione, non sapessero tener conto menomamente dell'inesperienza inconscia e non responsabile di quegli adolescenti, e però non credessero di derogare alla proposta del Capitano di Giustizia, pure non mancò in quel consesso di giudici iracondi qualche voce pietosa; e forse quella voce avrebbe potuto stornare la carneficina; poichè, essendosi letti a quel consesso i nomi de' giovinetti, fece senso a tutti quello di don Giovanni Pietra, figlio del conte Francesco Brunon-Pietra, e fece senso non per altro che perchè era il nome di un nobile. Questo incidente bastò a fare aggiornar la sentenza; ma tutto, purtroppo, fu inutile. Una soperchieria infantile doveva esser causa di un'ingiustizia, e questa doveva provocar poi un atto inumano e veramente inaudito, atto inumano che, a primo aspetto, avrebbe potuto aver sembianze di una virtù somigliante all'inesorabile giustizia della patria potestà di Roma antica; chè il dopo, il segretario del Senato, lesse in pieno consesso uno scritto sottosegnato dal conte Francesco Brunon-Pietra, col quale ei supplicava che non si avesse riguardo nessuno alla nobiltà del suo casato, quando fosse stato d'impaccio al corso della giustizia; perchè, riferiamo le sue stesse parole, "l'obbedienza alle leggi e il rispetto all'autorità e segnatamente il culto dell'alta maestà del Senato doveva andar innanzi a tutto." Le voci pietose che s'eran fatte sentire il giorno prima, si fecero riudire ancora, ma in segno di dolorosa meraviglia, inculcando che si dovesse considerare come non ricevuto uno scritto in cui la devozione all'autorità faceva tacere l'umanità, e offendeva le leggi più antiche e più irrepugnabili di natura, ma tutto fu indarno. - I giovinetti vennero condannati a morte.

Or che indole d'uomo era quel conte Francesco Brunon-Pietra, e come e perchè aveva potuto inviare al Senato quel terribile scritto? Noi abbiamo fatte molte e lunghe e non facili ricerche per scoprirne le cagioni, e alla fine, tenuto scrupolosamente conto di tutto, ci riuscì di cavarne quanto segue.

Quel conte Brunon-Pietra era stato assai famigerato in Milano per le sue galanterie donnesche, per la sua vita disordinata e facinorosa; e soprattutto per aver consumato nella prima gioventù l'intero patrimonio, che era di qualche milione di lire milanesi, e ingoiate poi, l'una dopo l'altra, quattro eredità laterali. Fu allora che, ridotto quasi al verde, seppe così ben fare e comportarsi nella casa dei marchesi Incisa, che una graziosa e virtuosissima giovinetta di quel casato, ricchissima di un'eredità legatale da un suo padrino, tirata ad arte nelle insidie, finì ad invaghirsi perdutamente di lui, ed a concedergli la mano di sposa. - Da questo matrimonio nacquero, ne' primi due anni, un figlio maschio e una fanciulla che non conobbero la madre, perchè, vittima delle furibonde ingiurie maritali, morì tre mesi dopo il secondo parto. Pare che le cagioni di quelle ingiurie e di quella morte immatura sieno state delle tresche scandalosissime con una contessa Ferri, nata Alfieri; poichè, non ancora compiuto il lutto vedovile, il conte Brunon, senza riguardo alcuno, la sposò, e n'ebbe poscia un figliuolo. - Intanto che il primogenito e la fanciulla del primo letto, eredi della ricchezza materna, erano tuttora in cura delle nutrici, il figliuolo del secondo letto cresceva in casa, e la nuova moglie del conte, che aveva preso sul marito quell'impero ch'egli in addietro aveva sempre esercitato sulle donne, gli comunicò un tale amore per quel fanciullo, ch'esso, al pari della matrigna, sentì avversione pei primi due, e tutto l'incomodo e il peso della loro esistenza. - Questo non apparì manifestamente in principio, ma quando i fanciulli avanzarono in età, trapelarono al di fuori le intenzioni del conte, tanto che i parenti della defunta marchesa Incisa, fecero reclami per avocarne a la tutela; ma invano, perchè il conte, astutissimo e versipelle, seppe condursi così bene, che furono respinti i reclami e a lui data piena soddisfazione. - Se non che d'allora in poi il conte, affinchè i figliuoli non si lamentassero, finse di trattarli bene. La fanciulla, che era donna Paola, fu messa educanda, com'era di consuetudine, in un monastero che fu quello di Santa Radegonda, il fanciullo fu tenuto in casa; e siccome egli era naturalmente acuto e vivacissimo, e si sentiva come il padrone in casa, e non poteva soffrir la matrigna, vedea molto di buon occhio il fratellastro, il conte Brunon, per non averlo contrario, e perchè non gli uscisse di mano l'amministrazione delle sue sostanze, si diede ad accarezzarlo, ad assecondare ogni suo capriccio. - Quali disegni poi si volgesse in testa non si sa..., ma forse, senza che lo sapesse spiegare a medesimo, meditava di addensar pericoli al giovinetto, perchè avesse o tosto o tardi a rimanerne travolto. Ed or la mente vorrebbe respingere l'idea di un tanto accordo tra il destino e i desiderj di quel padre scellerato.

Prima che si eseguisse la pena capitale contro que' sventurati giovani, si commosse tutta la città, impietosita e di loro e dei parenti desolati; e nei giorni d'intervallo molte pratiche si tentarono per smuovere l'autorità del Senato da tanta efferatezza. - Or non è a dire la dolorosa meraviglia di tutti, nel sentire quel che era stato scritto al Senato dal conte Francesco, il quale solo, per la sua nobiltà e per quella del figliuolo, avrebbe potuto, se avesse voluto fermamente, impedire quella carneficina e salvare col proprio figliuolo altri giovinetti complici.

Ma la costernazione generale, se fu sincera e profonda, non fu coraggiosa, perchè non par vero che lo spettacolo di così scellerata, ripetiamo demenza, non abbia fatto insorgere tutta la città, per strappare quelle giovani vite dalla mano del carnefice, con tali dimostrazioni solenni dell'ira pubblica, che valessero ad inspirare al Senato stesso quello sgomento che insegna la pietà.

Il conte Francesco potè dunque veder lieta l'infernal moglie per quel primogenito spento, e spento, gli parea quasi - tanto sono assurdi i sofismi dell'iniquità - per un ordine provvidenziale; ma restava la fanciulla, educanda in Santa Radegonda, la giovinetta donna Paola Teresa, che già toccava i sedici anni, e doveva fra poco tempo uscire di per accasarsi convenevolmente, essendo ricca di buona parte della ricchezza materna. Ora quella figliuola, superstite al fratello, turbò la gioia del connubio infernale. Il conte Francesco ereditava dal figlio i due terzi della sostanza che aveagli lasciata la marchesa Incisa; - ma questo non bastava alla sua seconda moglie, la quale, eccitata da un affetto smodato pel proprio figlio, le parea che fosse rubato a lui quello che potea pure diventar suo, se donna Paola Teresa, o scomparisse come il fratello infelice, o giacchè era in convento, vi rimanesse professa per sempre. - Ma la fanciulla non avea mai dato segno di vocazione alla vita claustrale. Ricca e bella e, per soprappiù, avendo sortito dalla natura una grande virtù per la musica e pel canto - virtù fatta poi mirabile dagli insegnamenti della celebre suor professa Rosalba Guenzani, cantatrice e suonatrice d'organo nel monastero appunto di Santa Radegonda - aveva già potuto presentire le attrattive del mondo; chè ogni qualvolta usciva di convento, a stare un giorno col padre, nella qual occasione recavasi anche a far visita a' parenti, veniva accolta da tutti come in trionfo; e già le era stato toccato di qualche cospicuo matrimonio; di modo che, per modesta e virtuosa che fosse - ed era virtuosissima, tanto da esser l'idolo, non solo della sua maestra suor Rosalba Guenzani, ma delle altre suore e delle amiche colleghe - ogni qualvolta ritornava in convento, sebbene le fossero care e la maestra e le amiche, pure non desiderava altro che di lasciare quelle meste mura del chiostro e di uscire all'aperto. Or venne il tempo in cui, finita la sua educazione, doveva infatti uscire. - Ma fu allora che il conte Francesco, messo innanzi il pretesto d'un viaggio, cominciò ad insinuare alla fanciulla di rimanervi fino al suo ritorno; ed ella vi rimase. - Di poi, quando non valse più quel pretesto, ne cavò fuori altri molti per poterla dimenticare colà; ed ella pazientò senza lamentarsi, ma con grande suo affanno. Infine il padre un le fece motto della convenienza ch'ell'avrebbe avuto di abbracciar la vita monastica. La fanciulla stupì a quella proposta, e rispose con sdegno, e risolutissimamente negò. Allora il padre finse di non adirarsi e di trovar giusta quella fermezza di risoluzione; onde levatala dal convento, la condusse in casa. Se non che, dopo alcuni giorni, il portone del palazzo Pietra stette chiuso, perchè tutta la famiglia erasi recata in campagna in un luogo tra i monti valtellinesi. Passarono così due mesi, finchè corse la voce che tutta la famiglia era tornata, ed anche la fanciulla donna Paola. - Ma con grande meraviglia di tutti, essa venne ricondotta dal padre nel convento di santa Radegonda, dove la madre abbadessa sentì dalla bocca stessa di lei che voleva farsi monaca. La poveretta in que' due mesi erasi per tal modo disfigurata, che pareva una larva di fanciulla strappata per miracolo alla morte dall'arte medica. Che cosa del resto sia avvenuto in quel luogo del valtellinese, con che atti di crudeltà siasi trattata la giovinetta in quel tempo, non si sa; onde è libero il campo alle congetture. Quello che pur troppo avvenne si fu, che, dopo un anno, donna Paola Pietra si professò monaca in Santa Radegonda. - Ma, dice il frate di S. Ambrogio ad Nemus, in quella sua succinta relazione:

"In quello stesso momento in cui la fanciulla non da un solo timore riverenziale, ma da una manifesta violenza, fu costretta fare nel suddetto monastero la solenne professione de' voti, protestò nell'interno del suo animo a Dio di non concorrere colla volontà ad un atto, a cui era trascinata dall'altrui volere." Paga d'aver di ciò chiamato Dio stesso in testimonio, si persuase di poter conservare intera quella libertà che Dio stesso le avea data. Tuttavia, fosse prudenza o un resto del timore onde ella erasi lasciata obbligare all'atto solenne, non confidò che assai tempo dopo, a fide e virtuose persone, gl'interni suoi sentimenti; e come se fosse presaga di quanto doveva poi veramente succedere, nella dolorosa solitudine del chiostro si consolava colla speranza di dover un giorno romper quei lacci che la violenza degli uomini le avevan posto. A tale effetto conservò per molti anni un suo abito secolare, di cui credea fermamente di doversi servire. - Pure in qual modo ella avesse ad uscirne non poteva nemmeno immaginarselo, ben conoscendo che era impresa impossibile il tentarlo per le solite vie giuridiche. Ma la straordinaria virtù del suo canto, come l'aveva già esposta, quand'era ancora educanda, all'ammirazione generale, doveva additarla, monaca, all'altrui pietà. - Già abbiam detto che tutta la città di Milano accorreva nella chiesa di santa Radegonda a sentirvi le migliori produzioni della musica per canto ecclesiastico. - Il maestro Prediani, bolognese, che allora era in Milano, soleva, per così dire, stare in giornata su tutto quello che producevasi in Italia in questo genere, e appena venisse in luce qualche composizione squisita, era sollecito di mandarla alla celebre suor Rosalba, affinchè ella la facesse conoscere ed apprezzare con quel magistero ch'ella aveva nel toccar l'organo e nel cantare, e perchè specialmente, se trattavasi di pezzi a due voci, veniva squisitamente assecondata da suor Teresa Paola Pietra. - L'Ave maris stella di Leo era uscito di fresco in que' giorni.

Il ceto distinto della città, che allora tenea dietro a tutte le novità musicali, e s'interessava anche della musica di chiesa, veniva informato dal maestro Prediani, che dava lezioni nelle principali case, del quando si doveva eseguire qualche gran pezzo istrumentale in Duomo, o qualche canto in Santa Radegonda, onde accorse per sentire quella nuova composizione. La folla, come suol dirsi, si portava a que' trattenimenti, tanto che l'arte faceva dimenticare la devozione; e però, in proposito, erano uscite alquante pastorali contro l'uso e l'abuso della musica sacra. - Ora, tra quella folla stipatissima, si trovò un Inglese, che si chiamava lord Crall, uomo straordinario e cavalleresco, e portato naturalmente all'entusiasmo. Egli sentì quella musica e sentì la voce commossa della monaca giovinetta, la quale, ripetendo quel canto divino, vi trasfondeva tutta l'intensità dei proprj affanni, e con tal fascino, che tutti, mentre atteggiavano il volto al sorriso per la soavità della melodia, pur si sentivano irresistibilmente inondati di lagrime.

Quel gentiluomo dunque, più commosso ed esaltato di tutti, chiese di quella monaca, e udita la storia del fratello di lei e del tristo padre, e com'ella fosse venuta renitente ai voti; tanto si interessò di essa che, d'una in altra ricerca, venne a conoscere i segreti suoi pensieri, ed eccitato dalla pietà e dall'entusiasmo per tanta virtù e sventura, si offrì di liberarla e di farla sua sposa. La forza di codesta tentazione fu sì gagliarda sulla monaca giovinetta, che il pericolo della fuga, i disastri d'un lungo viaggio, l'abbandono della patria, la diversa religione del gentiluomo, e i mille sentimenti di pietà e d'onore che doveano sostener la sua ragione, se la tennero per qualche tempo in grande sospensione d'animo, pur non valsero a soggiogarla; poichè, all'ultimo, ella si faceva imperterrita nell'idea d'esser libera innanzi a Dio, e di potere col matrimonio serbare inviolato il proprio onore. - Rispetto ora al gentiluomo che aveva promesso di liberarla, giova sapere com'egli nascesse da una famiglia illustre inglese passata in Francia, e come il padre suo, pel celebre editto fulminato da Luigi XIV contro gli Ugonotti, nel 1685, siasi trovato costretto a tornare in Inghilterra; dove morì lasciando due figlie ed un maschio, che fu poi questo lord Crall.

Custodivansi le chiavi del monastero nella stanza dell'archivio, a cui si entrava per una bussola chiusa da una piccola serratura; fatta per ciò la prova di diverse chiavi, ne fu trovata una che l'apriva. Dopo di che, fissato il giorno e l'ora per l'uscita, licenziatosi pubblicamente il cavaliere dagli amici, partì da Milano; ma trattenutosi segretamente in un casino poco distante dalla città, vi fe' ritorno pochi giorni appresso, nella stessa notte stabilita per la fuga. - Giunta l'ora in cui la si dovea eseguire, accaddero nel monastero alcuni piccoli e curiosi accidenti che non mette conto di riferire, i quali parea avessero ad impedirla, ma invece l'agevolarono.

Il cavaliere si trovò, con altri, ben armato alla porta del monastero, ed una carrozza stava preparata in vicinanza alla chiesa di S. Paolo; prima d'uscire depose la fanciulla la veste religiosa, e comparve in sott'abito da uomo. - Alla presenza di testimonj si rinnovarono allora ambidue la fede ed il giuramento di sposi, di cui il cavaliere avea prima fatto dichiarazione in iscritto; e, senz'altro contrattempo, lasciarono la città.

La notizia di codesta fuga fece un tal rumore e provocò tanti parlari, che per molto tempo circolarono scritture in proposito e poesie di vario tenore; nelle quali, o lo sdegno dell'ascetismo esaltato condannava altamente quella risoluzione della giovane monaca, o la pietà spontanea di una ragione più libera protestava in sua difesa; ma più di tutti levò grido e si diffuse rapidamente ed ebbe migliaja di copie manoscritte un sonetto ch'ella medesima scrisse in propria difesa: ed è questo, che, sebbene scorretto e tutt'altro che prezioso in faccia all'arte, è preziosissimo in faccia a più gravi ragioni:

Donde n'entrai, m'involo alla ventura,

Porto meco l'onor, la nel core.

Benchè questo rassembri un grande errore,

Pianger dovrà chi lo mio mal procura.

So che al mondo non v'è leggedura,

Ch'obblighi un cuore ad un sforzato amore.

Amo il decoro e son dama d'onore,

Onde vincer saprò la mia sventura.

Qual combattuta nave in mezzo all'onde,

Oggi imploro dal ciel soccorso, aìta

Per arrivar le sospirate sponde.

Se fortuna o periglio a me s'impetra,

Sia noto al mondo come fui tradita,

Se ben ebbi nel seno un cor di Pietra.

Ma da Milano i due fuggiaschi viaggiarono sollecitamente a Venezia, dove si trattennero parecchi giorni in una casa vicina a quella d'altri Inglesi, nonostante lo strepito che presso la Repubblica faceano il ministro cesareo e il nunzio del papa. Se non che, essendo stati avvisati che non avrebbero potuto fermarsì colà più lungamente senza pericolo, la donna, vestita, come sempre era stata, da uomo, fu condotta di notte sopra un vascello inglese che stava alla rada; mentre il cavaliere, dopo averla consegnata al capitano, per una maggior cautela, passò in altro bastimento olandese. E bene erano stati avvisati in tempo, perchè il giorno dopo, per ordine del Magistrato, si fece la ricerca della fuggitiva in quella medesima casa donde poche ore prima era uscita. Dalla rada di Venezia passato il vascello inglese a Zante per farvi provvigione di vino per l'equipaggio, non potè fermarsi colà quanto bisognava, perchè recatosi di notte al suo bordo il nipote del Console inglese in quell'isola, avvisò il capitano che suo zio aveva accordata al governatore la permissione di far la visita al vascello, per toglierne una religiosa trafugata. Il capitano, levate allora le ancore, si allontanò dall'isola, apprestandosi alla difesa, nel caso che lo si fosse attaccato. La mattina seguente si mostrò infatti una marciliana con altra nave. Ma quella, avendo scorto che l'equipaggio era sotto l'armi, ed essendo il vento poco favorevole per tentare l'abbordaggio del vascello, dopo averlo per qualche tempo inseguito, dovette abbandonarlo. Donna Paola intanto era stata, per maggior sicurezza, nascosta dal capitano nel fondo del vascello, dove ebbe a trattenersi parecchie ore. Cessato il pericolo, all'uscire di quella sepoltura, fu salutata con grandi evviva da tutto l'equipaggio, già informato delle avventure della medesima. Il vino che dovea provvedersi a Zante, fu provveduto in altro porto; e dopo un viaggio non molto lungo, il vascello approdò felicemente a Londra. Qui donna Paola venne accolta dalle due sorelle del cavaliere e ritrovò preparata l'abitazione. Il cavaliere intanto, che per maggior cautela s'era trattenuto alle spiaggie di Venezia, venne poi con abito mentito ad Ancona, donde, attraversata per terra l'Italia, giunse a Livorno, dal cui porto con altro vascello passò in Inghilterra, dove sbarcò poco dopo l'arrivo di donna Paola.

Sparsasi per tutta Londra la novella di codesto fatto straordinario, tosto l'arcivescovo di Canterbury, con proposte onorevoli, tentò l'animo della donna ad abbracciare la religione anglicana; ma la donzella fermissimamente dichiarò che, non essendo passata in Inghilterra per motivo di religione, ella non era in istato in volontà di cangiarla; dichiarazione che ripetè poscia alla regina medesima, quando, con maggiore grandezza di offerte, essa le mandò lo stesso invito dell'arcivescovo. La sola cosa che bramava donna Paola era di convalidare il suo matrimonio colla presenza d'alcuni parroci cattolici di Londra; ma questi avendo ricusato di assisterla finchè Roma non avesse decretata invalida la sua professione religiosa, ella inviò una supplica al pontefice allora regnante. Ma o non fosse stata la supplica debitamente concepita, o fosse stata mal diretta, non ne ottenne risposta veruna; per cui deliberò di condursi in Francia insieme col cavaliere, e di , bisognando, anche a Roma, per implorare personalmente ciò che non s'era potuto ottenere per lettere.

Giunti in una città di quel regno, il vescovo, a cui era noto il fatto già pubblico in tutta Europa, penetrando il loro arrivo, fece qualche passo per assicurarsi della religiosa. Ma essi, avutone sentore, sollecitamente si ritiraron in Ginevra, dove dall'istesso magistrato furono, poco tempo dopo, segretamente avvisati perchè si guardassero dall'uscirne, essendo attesi ai confini; e qui uno stratagemma servì loro di scorta, e preso altro cammino, dubitando di nuovi incontri, se ne tornarono in Inghilterra. Colà, senza nessun avvenimento notevole, visse donna Paola fino all'anno 1732, con quella tranquillità che le potea permettere la sua specialissima condizione, e il rimordimento che di tanto in tanto la infestava d'essersi fatta giustizia da stessa, quantunque pur sempre si confortasse della protesta fatta in suo segreto a Dio, e della insistenza e diligenza assidua ond'ella erasi adoperata e s'adoperava per riconciliarsi colla Chiesa. Quando finalmente la sua fortuna volle che ritrovasse un mercante cattolico di Londra, il quale prese l'impegno di scrivere ad un suo corrispondente in Roma, uomo che si assunse l'incarico con religioso calore; e a servir meglio e l'amico e la coppia virtuosa, recossi a ragguagliarne il cardinal di Sant'Agnese, di cui aveva la protezione, il qual cardinale era un Giorgio Spinola di Genova. Questi, riflettendo alla gravezza dell'affare, ne parlò tosto al Santo Padre, ed al cardinale Vincenzo Petra penitenziere, dal quale, coll'assenso pontificio, fu per mezzo dello stesso mercante spedito sollecitamente a Londra il solito breve assolutorio col salvacondotto, affinchè la donna nel termine di sei mesi si portasse a Roma. A tale uopo furon dati gli ordini a banchieri di varie città pel somministramento del denaro e di tutto quello che nel viaggio potea bisognare alla medesima.

All'arrivo di questi ricapiti, benchè fosse il cuor dell'inverno, partì donna Paola da Londra con un cameriere cattolico; ed attraversata la Francia sotto altro nome, giunse a Marsiglia, non senza gravi patimenti cagionati dalla stagione, e il giorno 8 febbraio 1733 entrò in Roma. Il cardinal di Sant'Agnese, avvisato preventivamente dell'arrivo, fe' che le movesse incontro una matrona di esemplare saviezza, in casa della quale donna Paola si trattenne segretamente alquanti , trascorsi i quali, per ordine del pontefice, passò al convento del Bambino Gesù, sotto apparenza di dama fiamminga, per ivi addurre le sue ragioni contro la profession de' voti.

La prima determinazione del papa fu di deputare un congresso di cardinali, dal quale si esaminasse se una tal causa dovea agitarsi nella Congregazione del concilio o nel tribunale della sacra Penitenzieria. Le gravi e particolari circostanze che, a primo aspetto, si videro in quest'affare, fecero abbracciare il secondo partito. Per operar tuttavia con più cautela, a' giudici della Penitenzieria furono aggiunti cinque cardinali, fra' quali lo stesso prefetto della Congregazione del concilio.

Da lungo tempo non eravi stata in Roma una causa più intralciata di simil materia. Tre volte, in tempi diversi, radunossi la Congregazione, e si tennero altresì molti Congressi. Non potè sapersi quel che in essi s'andasse di volta in volta determinando: ma quello che si può dire è, che le prove delle violenze da principio accennate, furono, dopo quasi tre anni, poste in sì chiaro lume che, non potendosene dubitare neppur da' giudici più austeri, finalmente, nel mese di settembre dell'anno 1735, a pieni voti venne fatto dalla Congregazione il decreto: Constare de nullitate professionis. Il papa confermò il decreto, e, dopo risolute altre dipendenze, fu data a donna Paola la libertà d'uscire dal chiostro, in cui aveva dimorato per tutto quel tempo con universale edificazione.

Donna Paola Pietra, toccato così il supremo suo intento, a cui incessantemente era stata fida, più, quasi diremmo, per un'ostinazione della mente che si esaltava nell'idea di aver per il diritto e la giustizia, che per la probabilità della riuscita, lasciò Roma, sicurissima di medesima, poichè s'era come veduta espressamente protetta dalla provvidenza; e ritornò in Inghilterra a ricongiungersi con colui che l'aveva tratta in salvo, e che sempre le si era mantenuto religiosamente fedele. Abbandonata poi l'Inghilterra, venne con esso a Roma dove solennemente ei la sposò. Ma la fortuna non volle permettere che tanta felicità fosse duratura, e, dopo tre anni di convivenza maritale, il virtuosissimo gentiluomo venne a morte, lasciandola madre di due figli. Donna Paola per qualche tempo se ne stette nelle vicinanze di Roma, poi, nel 1743, dopo tredici anni di assenza, ritornò a Milano a fermarvi stabile dimora. Un tale ritorno gettò lo sgomento in coloro che l'avevan voluta sagrificare, sapendola così efficacemente protetta dal santo padre; ma provocò un tripudio universale, tanto che le diverse maestranze della città la vollero festeggiare con notturna luminaria. Ed ella, se magnanima disprezzò tutte le vili paure di chi l'aveva voluta opprimere, non mostrando nemmeno di ricordarsi di loro; volle corrispondere efficacemente a quella pubblica estimazione con atti di carità viva, col farsi consolatrice degli altrui dolori, col metter pace nelle trambasciate famiglie; più spesso, col difendere contro l'attentato de' tristi l'innocenza che non si guarda; tra i molti suoi atti meritorj aveva destato gran rumore un viaggio che fece appositamente per ottenere da Maria Teresa la grazia della vita per un giovane, colpevole d'aver ucciso un cavaliere che avea fatto contumelia alla sua fidanzata. Naturalmente dotata di acuto intelletto, fortificata dall'esperienza, virtuosa senza rigidezza, benefica senza ostentazione, era essa richiesta di consiglio anche da persone di gran riguardo.

Quand'ella recavasi a passeggiare lungo le pubbliche vie, era segno agli sguardi di tutti quel suo grave aspetto, in cui serbavansi tuttavia i resti di una maestosa bellezza; aspetto grave di quella placida mestizia che viene dalle angoscie passate, dalla memoria di una perdita irreparabile, dalla severa considerazione della vita; ed ella, che nell'animo avea tanta pietà per altrui, ne destava poi altrettanta in tutti coloro che la guardavano, conoscendo il suo passato; poichè facea senso quel perpetuo suo lutto vedovile, il quale attestava un dolore che non poteva aver riposo nella vita; e faceva senso quel suo comparire in pubblico assiduamente accompagnata dai due suoi figliuoli già quasi adulti, e come lei vestiti a lutto, e severi e mesti al par di lei. - E davvero che il gruppo di quelle tre figure, che si staccava come un simbolo di dolore sul fondo vivace e variopinto e giocondissimo di quel tempo, giungeva a compungere di gravi pensieri quella società così spensierata e vana, la quale, ignara delle fiere lotte che l'aspettavano, non attendeva che a darsi buon tempo, come chi spende e getta e scialacqua le ultime ricchezze, e tuffa nell'ebrietà il pensiero del domani.

Era dunque stato un felice pensiero della contessa Clelia, quello di voler recarsi da questa donna Paola Pietra, e per richiederla di consiglio in un affare dilicatissimo e serio, e che poteva aver conseguenze luttuose, quantunque vestisse le apparenze di un amore galante; e per versare nel cuore di colei le ambascie, che ormai non potevano più esser contenute nel suo.




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