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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO SECONDO
    • II
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II

Codesti curiosi mortali che, dotati d'intelligenza eccedente la sfera comune, non poteano trovarsi bene nel loro tempo e ne sentivano la pesantezza, non sapeano ancora, al punto in cui siamo con questa storia, quel che si volessero. Assomigliavano a chi, fornito di fibra delicata e straordinariamente eccitabile, si sente dominato da un mal essere che non sa spiegare, e volendone assegnare la causa all'aria, alla stagione, a qualche cosa insomma, si vede invece contraddetto dal limpido sole e dalla serenità del cielo e dall'allegria di quanti lo circondano, i quali si lodano e del tempo e del sole e dell'aria. Tale era la condizione in cui versava la maggior parte delle intelligenze squisitamente acute che vivevano alla metà del secolo passato. Del resto, nemmeno Voltaire sapea precisamente quel che si volesse, quantunque fosse il più maturo di tutti; nemmeno Diderot, che si agitava in un'assidua contraddizione e, se parlava chiaro negli intimi sfoghi cogli amici, smarriva il coraggio quando trattavasi di stampare quel che pensava; nemmeno Rousseau, il quale non faceva che accusare un gran dolore senza saper indicarne il luogo. Al pari di costoro, che, per l'ardimento sin colpevole delle loro opere, dovevan poi salire al più alto fastigio della rinomanza, un numero non piccolo d'uomini ignoti e dalle circostanze condannati all'oscurità perpetua discutevano e si disfogavano ne' parlari privati; anzi era codesta massa di uomini ignoti che somministravano la materia, e venivano a determinare i propositi di quelli chiamati a capitanarli. Ed uno di tali uomini, che nel sentire e nel considerar le cose, non era inferiore a quegli ingegni predestinati all'immortalità, era Lorenzo Bruni, che forse avrebbe potuto spiccare sul fondo del suo tempo fra i pensatori più audacemente liberi, se invece di suonare il violino in tutte le orchestre delle principali città di Europa, avesse atteso agli studj con volontà costante, e avesse avuto pazienza di sopportare il burbero padre.

Lasciata Parigi, quando finirono i suoi obblighi contratti coll'impresario, e ritornando in Italia, Lorenzo conobbe a Venezia la Margherita Gaudenzi ancor fanciulla, rimasta due anni addietro orfana del padre, stato ballerino grottesco e morto d'una contusione per un salto mortale mal calcolato; e poi anche della madre, perita nell'incendio del teatro di Sinigallia, la quale, esercitando la professione di figurante ed essendo stata una bella donna, avea sempre fatto le parti d'una qualche dea, quando non si trattava di agire di danzare; e nelle pantomime che finivano coll'Olimpo illuminato, costantemente era stata incaricata di sedere in qualità di Giunone accanto a Giove Tonante. La fanciulletta, quando rimase orfana, era già tanto innanzi nell'arte, da eccitare la meraviglia di quelli della professione. Allorchè Lorenzo Bruni la vide per la prima volta a ballare sulle scene del teatro di San Moisè, ne fu anch'esso maravigliato, insieme col pubblico che accorreva da tutte le parti della città per ammirare quel piccolo portento; tuttavia, rincrescendogli che anch'ella, come voleva il pessimo gusto di allora, si lasciasse andare alla danza grottesca, e ricordevole delle lunghe discussioni tenute a Parigi con Rousseau stesso, sull'origine e sullo scopo del ballo, nell'occasione che al teatro del Re aveva ballato la celebre Guzzani; e abborrendo al pari del Ginevrino, quella danza che non può al bisogno, suggerire movenze e pose e contorni e linee al pittore ed allo statuario, e non sapendosi contenere nei limiti di una casta eleganza, si abbandona frenetica e lasciva, a inconditi movimenti, in cui non si cerca che di superare strane difficoltà; dispiacendogli dunque tutto ciò, volle conoscere quella fanciulla, colla quale tanto disse e tanto fece, che senz'esser ballerino e solamente guidato dal buon gusto e dal bisogno che sentiva di riformar tutto, la ridusse ad un sistema di danza allora insolito, ma che pure destò ovunque un insolito entusiasmo; tanto è vero che v'è un bello assoluto, il quale trionfa anche ne' più corrotti periodi dell'arte! Basta solo avere il coraggio di promulgarlo.

Era dunque stato in gran parte per merito di Lorenzo Bruni, se la Gaudenzi aveva potuto riuscire un'eccezione gloriosa tra le danzatrici più celebri del suo tempo. - Ma siccome la fanciulla aveva obbedito, fosse per naturale pieghevolezza, fosse per un felice istinto, alla volontà di Lorenzo, e questi compiacevasi del frutto dei proprj consigli; così venne stringendosi tra di essi una spontanea dimestichezza, che stava però ne' rapporti di un maestro colla scolara, d'un tutore colla pupilla; il qual tutore, guidato da una grande onestà naturale, e sollecitato da quel suo spirito irrequieto e originalissimo che lo metteva sempre in contraddizione colle opinioni più generali; volle, aiutando la custodia vigile della zia della fanciulla, far vedere al mondo come la virtù potesse conservarsi intera anche in seno a quella professione che, comunemente, era creduta il varco della perdizione. Suonatore di violino, aveva seguìto così la fanciulla, da quell'ora in poi, di teatro in teatro, facendole sempre da padre e da tutore e da maestro. Se non che il padre e il tutore, man mano che la fanciulla cresceva, e l'adolescenza diventava giovinezza, sentì in petto qualche cosa che non era più calma di affetto paterno, severità di precettore. Gradatamente insomma e inconsapevolmente s'era innamorato della fanciulla; ma se non aveva mai voluto confessar ciò nemmeno a stesso, non è possibile che volesse manifestarlo alla giovinetta Margherita, la quale di qualunque benchè minimo sospetto non aveva neppur gli elementi in stessa, onde continuò con ingenuità e con obbedienza a non riguardarlo che come padre e tutore. Se taluno de' nostri lettori è così mal andato di salute da rifiutarsi a credere ciò che diciamo, non getteremo il tempo il fiato per cercare argomenti a persuaderlo. Non si crede veramente se non ciò che si sarebbe capaci di fare.

Di teatro in teatro, eran venuti ambidue la prima volta al Ducale di Milano, nel 1748, dove erano stati confermati per il carnevale dell'anno 1750. Godeva il Bruni dei trionfi della sua, diremo dunque, pupilla; godeva a sentirla lodata dappertutto dell'onesta virtù onde conservavasi ornata; perchè, anche ne' tempi del più indulgente galateo morale, e del più rilasciato costume, la virtù è sempre applaudita e rispettata, al pari del vero bello artistico che trionfa ognora, pur nel mezzo delle deviazioni del gusto. Pensi ora adunque il lettore che pugnalata al cuore di Lorenzo dovette essere la prima voce che gli giunse all'orecchio del sospettato amore di Margherita con Amorevoli e, più che dell'amore, della notturna tresca. Per verità che non prestò fede neppur un istante a quella bugiarda voce, e tanto più che, quando entrò nel camerino della Margherita a dirle di che trattavasi, le vide l'innocenza in volto e s'accorse d'un'ingenuità fin quasi stolta in quel suo ridere spensierato. Ma che fa l'esistenza delle virtù se nessuno ci crede?

Lorenzo, pur mettendo da canto ogni altro affetto, sentiva l'entusiasmo della vittoria nel poter dire: - Cosa mi diventano tante dame superbe che tutti i giorni cambiano il cicisbeo come la camicia? cosa mi diventano al confronto di questa povera figliuola di un grottesco e di una figurante? - E una voce sinistra, che in un baleno era corsa per tutta la città, aveva bastato a distruggere tutto, e a far succedere parole turpi e scherni inonesti al rispetto di prima! Perchè ben è vero che gli applausi della sera trascorsa eran saliti fin al velario per festeggiar la Gaudenzi; ma eran gli applausi di quella parte di pubblico che avea goduto nello scoprire che la intemerata colomba, cui bisognava rispettare per forza, era pur essa iniziata ai misteri d'amore tanto allora in voga.

- Cara mia, disse dunque Lorenzo alla Margherita, quando questa, ridendo, gli domandò se stava bene di salute; voi ridete, ma vogliatemi credere che non c'è da ridere.

La Margherita si fece allora un po' seria, e soggiunse :

- Caro Lorenzo, non vi comprendo; in fin de' conti la verità è una sola... e quando avrà parlato, perché so parlar alto anch'io, vedete, quand'è necessario, ogni sospetto sarà dileguato.

- Cioè volete dire che non avrete più citazioni in Pretorio, e nessuno potrà insultarvi impunemente, se non vorrà essere passato da una parte all'altra, perchè di scherma io so giocar tanto bene, quanto suonare un a-solo di violino. Ma tutto ciò non vuol dir nulla... e fino a tanto che non esca il nome di colei per la quale il tenore dev'essere venuto in queste vicinanze, a nessuno potrà esser tolto dalla testa che voi eravate l'oggetto delle sue visite notturne.

- Ma perchè io e non altre! Domandate a Zampino, il quale stamattina è venuto per le solite cose del teatro, quante donne furono chiamate a comparire... N'è vero, zia?

- È vero, disse questa, ma la compagnia non vi fa molto onore... Una è la moglie d'un gabelliere che sta dirimpetto... L'altra sta lassù al quarto piano e si diletta di far la cucitrice. Belle e giovani tanto l'una che l'altra, ma della loro onestà non mi parlate. Chiedetene qualcosa alla Gilda che ci serve, e sentirete... Ben v'è la moglie d'un pittore che gode buonissimo nome, e la bella figliuola d'un mercante... della quale non c'è chi dica male... Ma in conclusione, voi vedete, signor Lorenzo...!

- Ma! - esclamò egli strabuzzando gli occhi; e stette un momento silenzioso, poi soggiunse: - In Pretorio v'accompagnerò io stesso, Margherita, e chiederò io stesso di parlare al signor giudice. Fate adunque di esser pronta fra un'ora, ch'io sarò a pigliarvi in carrozza.

L'ora passò, Lorenzo venne colla carrozza, e la Margherita accompagnata dalla zia, vi salì tosto. - Giunsero tutti e tre verso mezzodì al Pretorio, dove s'accorsero che una folla di curiosi stava aspettando nel cortile. Quando la Gaudenzi ascese lo scalone e corse la voce della sua venuta per tutti gli ufficj del Pretorio, molti calamaj macchiarono d'inchiostro atti e processi e libelli, tanta fu la fretta e la furia degli impiegati per giungere in tempo a vederla. Notaj, auditori, uscieri, scrivani, colla penna nell'orecchio e i paramanica di bambagina verde, facean capolino dagli usci e dalle finestre; altri uscivan sul corridoio per dove la Gaudenzi aveva a passare, fingendo un'incumbenza di premura. Altri le s'attraversavano al passo per guardarla in faccia ben bene, con gran dispetto di Lorenzo. - Ma questi potè confortarsi quando, all'annuncio della Gaudenzi, il giudice, ch'era giovane e di maniere squisite, le mosse incontro, dicendole alquante cose cortesi, e concedendo sì alla zia di lei come a Lorenzo di assistere all'esame, e di essere interpellati in proposito.

Le domande del giudice, le risposte della fanciulla Gaudenzi, le osservazioni di Lorenzo, le appendici della zia rachitica costituiscono un dialogo da empire quattro facce di processo verbale, dialogo che noi abbiam qui, e che per molti rispetti non è indegno d'una lettura, ma che potrebbe anche provocar gli zitti di quella parte di pubblico che preferisce la musica veloce di Verdi a tante altre musiche; onde, senza riportarlo, ci limiteremo a dire che le sue risultanze furono tali, quali ciascun lettore poteva aspettarsele. Il tenore Amorevoli, interrogato prima dal giudice sul fatto della Gaudenzi, aveva parlato e protestato in modo da impedirgli una soverchia insistenza nell'ordine delle domande da farsi alla Gaudenzi stessa. E il giudice, quando ebbe praticate tutte le indagini iniziatrici, come voleva il suo ufficio, accorgendosi che le cose prendevano una piega ostinata, risolse di non farne altro, e di passare al criminale il processo così incoato. Ma Lorenzo non fu pago per nulla di quell'esame, perchè, si apponesse o no, gli parve che il giudice, il quale aveva lasciato andar qui e qualche epigramma e qualche scherzo gentile, non fosse del tutto persuaso dell'innocenza della Gaudenzi; e ciò ch'è peggio, allorchè, dopo ricondotta al suo alloggio la Margherita, egli si gettò ne' pubblici ritrovi della città, a sentire come generalmente la si discorresse, dovette fremere più d'una volta alle parole che udì, e più d'una volta fu per venire a qualche atto violento, onde, se si contenne, fu un miracolo.

Almanaccando così mille cose, e pensando al modo di far saltar fuori la complice, se ne tornò in quel giorno verso il quartiere dove era la casetta della Gaudenzi, il palazzo del marchese F... e quello della contessa V... Entrò dai portinaj e nelle botteghe presso, interrogò serve e servitori e lacchè e barbieri, esplorò porte, cancelli e finestre; chiese conto dei signori padroni del giardino dov'era stato còlto Amorevoli, e quando sentì a nominare la contessa Clelia, e dire ch'era giovane e bella, egli che non sapeva nulla del suo carattere austero, della sua dottrina astronomica, disse tosto fra : - Ma perchè, la si lasciò da parte costei?... Ma perchè? - Nessuno de' cittadini milanesi, i quali erano compresi della fama di quella donna intemerata, nemmen per ombra avean potuto fare un sospetto su di lei... ma Lorenzo, il quale era di fuori, e non era stato a Milano che due stagioni, e, se conosceva pittori e poeti e accademici, non conosceva tutta quanta la nobiltà, nel suo sospetto non fu arrestato neppur da un dubbio; e sdegnato di que' privilegj manifesti e segreti che si accordavano ai grandi signori, quasi fu per recarsi dal giudice; ma, pentitosi di quel partito, che poteva aver aspetto di denuncia, giurò di venirne a capo in altro modo, e quello che si avvisò di fare e che fece, nessuno se lo potrebbe imaginare in mille anni...

Ma e la contessa Clelia?... Ah pur troppo che non ebbe il coraggio di metter tosto in atto il consiglio di donna Paola Pietra, come sentiremo poi; e volendo lasciar passare gli ultimi tre giorni di carnevale, per istornare uno scandalo che, secondo lei, sarebbe riuscito rumoroso in mezzo alla folla dei teatri, delle feste, delle mascherate, aveva pensato di aspettare il primo giorno di quaresima per adempire al dovere... Ma precisamente quegli ultimi giorni di carnevale le dovevano esser fatali.

 




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