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Giuseppe Rovani
Cento anni

IntraText CT - Lettura del testo

  • LIBRO SECONDO
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III

Lasciando per ora da un lato l'infelice contessa, che in ventiquattr'ore è già dimagrata; e dovendo infingere col conte marito, colla cameriera, col parrucchiere seccatore e venditor di frottole instancabile, colla sarta, che in quel le portò fin quattro vestiti, l'uno più bello dell'altro, per farne sfoggio in teatro e alle feste, infingersi con tutti quanti l'avvicinavano, i quali erano invasi dall'allegria del secolo e dalla pazzia della stagione; quasi era per morire dello sforzo violento che faceva onde chiudersi in petto la passione. - Ci conviene inoltre lasciare nella solitudine del suo camerino in Pretorio il tenore Amorevoli, pentito e strapentito d'essersi impigliato in quel terribile vischio; e che, a dar sfogo al dispetto che lo rodeva e a passare il tempo della giornata lunghissima, solfeggiava a voce distesa, onde tener la gola preparata per la sera, e talora cantava alcuna cabaletta o dell'Artaserse, o della Semiramide riconosciuta, o dell'Olimpiade, e si concitava nell'esprimere:

Se cerca, se dice

L'amico dov'è ......

L'amico ........

E come se fosse in teatro, quando era alla cadenza, dove azzardava, per non esser al cospetto del pubblico, i passi e le volate più audaci, sentiva le voci e gli applausi di un altro pubblico, lo scarso pubblico inquilino insieme con lui de' locali del Pretorio, voci maschie e anche voci femminine; ladri di mezzo carattere, e tagliaborse novizj, e debitori insolventi e donne di Pafo che s'attaccavano all'inferriata a strillare il loro bravo, appannato dalla raucedine e dall'accento del vernacolo di Cittadella; e a cantare anche, come per corrispondergli un complimento, una di quelle canzoni da orbo, che in que' scriveva Pietro Cesare Larghi:

Imparate, o peccator,

Con la stanga del dolor

A sarà la porta granda

Che a l'inferno la ve manda.

Amorevoli taceva, si guardava i calzoni di raso azzurro colle stelle d'argento e diventava malinconico, indignandosi d'essere stato messo con quella gente; chè, pur troppo, se non ci si è provveduto oggidì, tanto meno a quel tempo s'era pensato ad un'opportuna segregazione tra le diverse qualità d'imputati, e tra gl'imputati e i rei. - Ci convien dunque lasciare alle sue pene il tenore Amorevoli. E dobbiam privarci della compagnia edificante di donna Paola Pietra, e tutto ciò per seguire il signor Lorenzo Bruni in san Vicenzino, nella casa che, movendo dalla contrada de' Meravigli, è anche oggi la quarta a dritta.

In quella casa, a piano terreno, verso il giardino, teneva il suo studio il giovane Francesco Londonio, e più forse che studio di pittura, vi teneva accademia sempre aperta di allegria, e fabbrica operosissima di scherzi e matterìe; e ritrovo, a una cert'ora, di tutti i pittori e scultori ottimi, buoni e grami che allora possedeva Milano; e in que' giorni di carnevale, quartier generale della compagnia dei Foghetti, di cui esso era il capitano.

Lorenzo, che già altre volte erasi recato a quello studio, vi si diresse difilato; e indugiatosi un momento all'ingresso, prima di bussare, sentiva il suono d'una voce che parlava, la quale veniva susseguita, di tratto in tratto, da una risata unissona di più persone. E codesta risata pareva come un intercalare obbligato alle pause che faceva il parlatore. Quando tra una mano di persone v'è una grande allegria e una gran vena di motteggio, riesce penoso, non si sa bene perchè, il farsi tra di loro non chiamato: e Lorenzo, che pur conosceva que' compagnoni, stette un momento in forse per tornare indietro, ma si fece poi animo e bussò forte. - Avanti, avanti, avanti, - gridarono più voci ad una; ed egli entrò...

- Oh!! benvenuto, signor Lorenzo...

- Benvenuto.

- Benvenuto... signor capitano degli archetti; le presento qui, nel nostro pittore Gazzetta, un buon suonatore di violino, il quale giacchè le fabbricerie lo lasciano senza lavoro, vorrebbe ritrovarsi in orchestra.

Chi parlava era il giovane Londonio, la cui figura dovendo comparire a più riprese, in mezzo alle tante che popoleranno il nostro quadro centenario, è bene si sappia quello che ancora non è stampato in nessun libro, come cioè, nato in Milano nel 1723 (e fin qui ci arriva anche il Ticozzi nel suo Dizionario de' pittori), fosse discendente di una famiglia originaria spagnuola, che si chiamava Londognos, feudataria di Ormilìa, un ramo della quale s'era stabilito in Lombardia al tempo della dominazione spagnuola, quando per la prima volta vi capitò un cadetto, in qualità di generale delle truppe spagnuole. Questo Francesco Londonio, quantunque non avesse che 22 anni quando ricevette la visita del signor Lorenzo Bruni, era già noto come pittore di soggetti campestri; ma ciò che allora ne costituiva davvero la rinomanza nelle società alte e basse, era la sua amenissima giovialità, per la quale avrebbe sparsa l'allegria anche tra le file di un mortorio; pensatore di bellissimi trovati, a chi ne faceva, a chi ne prometteva, onde se egli era un amico carissimo, qualche volta riusciva pure un amico molesto; ma quanto era temuto, altrettanto era cercato, e si moriva di noja senza di lui, in tutti quei convegni dov'era solito praticare.

In quel momento stava adunata nel suo studio quasi tutta la confraternita dei pittori milanesi.

V'era il maestro di lui, Ferdinando Porta, figlio di Andrea, scolaro del Cerano e del Legnanino; v'era il giovane pittor De Giorgi, allievo del pittor Del Cairo; v'erano gli esordienti Bergami e Pagani, scolari del pittor Frasa e del Lucini; v'era Angelo Mariani e Zucchi Carl'Antonio già provetti, scolari l'uno del Fiori, l'altro del Sant'Agostino, scrittore di cose d'arte, e che s'era dimezzato tra il Procaccini e il Crespi Daniele. V'erano Lucini e Fabbrica e Clavelli e Zaccaria Rossi e il Crivellone, pittore di trote e di aragoste. V'era il fanciullo Biondi, che attendeva allora a macinar colori: nomi la maggior parte di pittori ignoti a tutti, sin anco ai Milanesi, e che non sono registrati in nessuna storia dell'arte; e de' quali taluno sarebbe forse celebre se fosse nato a Bologna, a Venezia, a Firenze; tanto questa nostra città in talune cose è trascuratissima, fino alla barbarie; così che quei che volesse far la storia delle arti milanesi, potrebbe bene invecchiar nelle ricerche, pur colla pazienza straordinaria di Muratori, ma non venirne a capo mai di farla completa.

Ma, che noja! Ci par di sentir a dire; ma che strana idea di regalarci qui una pagina lacera dell'elenco della confraternita de' pittori del 1750? - Ma perchè farci camminare fino a san Vicenzino, in traccia di persone nuove, mentre vorremmo stare colle conosciute? In quanto alla noja, rispondiamo dunque, che, dal momento che la si prova, è inutile dire che c'è a torto; pure dobbiamo far notare che bisognava passare per di qui, poichè se al lettore noi dicessimo che, dall'umile studiolo d'uno dei pittori che si trovavano presso il Londonio, e da un disegno grazioso e da pochi colori stemperati su di una tavolozza, dovrà uscire un risolvente drammatico più possente di quanti ne uscirono dal laboratorio chimico di Dumas, il lettore non crederebbe. - Ma dal momento che il signor Lorenzo, che non era uno sciocco un buontempone, pur in quell'affanno in cui versava, erasi recato a far visita al Londonio, dove sapeva che di solito si riuniva una congrega di pittori, bisogna bene che ne abbia avuto la sua ragione. - Stiamo dunque attenti a tutte le sue parole, e non perdiamo la traccia de' suoi passi.

 




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