III
Lasciando per ora da un lato l'infelice contessa, che in
ventiquattr'ore è già dimagrata; e dovendo infingere col conte marito, colla cameriera,
col parrucchiere seccatore e venditor di frottole instancabile, colla sarta,
che in quel dì le portò fin quattro vestiti, l'uno più bello dell'altro, per
farne sfoggio in teatro e alle feste, infingersi con tutti quanti
l'avvicinavano, i quali erano invasi dall'allegria del secolo e dalla pazzia
della stagione; quasi era per morire dello sforzo violento che faceva onde
chiudersi in petto la passione. - Ci conviene inoltre lasciare nella solitudine
del suo camerino in Pretorio il tenore Amorevoli, pentito e strapentito
d'essersi impigliato in quel terribile vischio; e che, a dar sfogo al dispetto
che lo rodeva e a passare il tempo della giornata lunghissima, solfeggiava a
voce distesa, onde tener la gola preparata per la sera, e talora cantava alcuna
cabaletta o dell'Artaserse, o della Semiramide riconosciuta, o dell'Olimpiade,
e si concitava nell'esprimere:
Se cerca, se dice
L'amico dov'è ......
L'amico ........
E come se fosse in teatro, quando era alla cadenza, dove
azzardava, per non esser al cospetto del pubblico, i passi e le volate più
audaci, sentiva le voci e gli applausi di un altro pubblico, lo scarso pubblico
inquilino insieme con lui de' locali del Pretorio, voci maschie e anche voci
femminine; ladri di mezzo carattere, e tagliaborse novizj, e debitori
insolventi e donne di Pafo che s'attaccavano all'inferriata a strillare il loro
bravo, appannato dalla raucedine e dall'accento del vernacolo di Cittadella; e
a cantare anche, come per corrispondergli un complimento, una di quelle canzoni
da orbo, che in que' dì scriveva Pietro Cesare Larghi:
Imparate, o peccator,
Con la stanga del dolor
A sarà la porta granda
Che a l'inferno la ve manda.
Amorevoli taceva, si guardava i calzoni di raso azzurro
colle stelle d'argento e diventava malinconico, indignandosi d'essere stato
messo là con quella gente; chè, pur troppo, se non ci si è provveduto oggidì,
tanto meno a quel tempo s'era pensato ad un'opportuna segregazione tra le
diverse qualità d'imputati, e tra gl'imputati e i rei. - Ci convien dunque lasciare
alle sue pene il tenore Amorevoli. E dobbiam privarci della compagnia
edificante di donna Paola Pietra, e tutto ciò per seguire il signor Lorenzo
Bruni in san Vicenzino, nella casa che, movendo dalla contrada de' Meravigli, è
anche oggi la quarta a dritta.
In quella casa, a piano terreno, verso il giardino, teneva
il suo studio il giovane Francesco Londonio, e più forse che studio di pittura,
vi teneva accademia sempre aperta di allegria,
e fabbrica operosissima di scherzi e matterìe; e ritrovo, a una cert'ora, di
tutti i pittori e scultori ottimi, buoni e grami che allora possedeva Milano; e
in que' giorni di carnevale, quartier generale della compagnia dei Foghetti, di
cui esso era il capitano.
Lorenzo, che già altre volte erasi recato a quello studio,
vi si diresse difilato; e indugiatosi un momento all'ingresso, prima di
bussare, sentiva il suono d'una voce che parlava, la quale veniva susseguita,
di tratto in tratto, da una risata unissona di più persone. E codesta risata
pareva come un intercalare obbligato alle pause che faceva il parlatore. Quando
tra una mano di persone v'è una grande allegria e una gran vena di motteggio,
riesce penoso, non si sa bene perchè, il farsi tra di loro non chiamato: e
Lorenzo, che pur conosceva que' compagnoni, stette un momento in forse per
tornare indietro, ma si fece poi animo e bussò forte. - Avanti, avanti, avanti,
- gridarono più voci ad una; ed egli entrò...
- Oh!! benvenuto, signor Lorenzo...
- Benvenuto.
- Benvenuto... signor capitano degli archetti; le presento
qui, nel nostro pittore Gazzetta, un buon suonatore di violino, il quale
giacchè le fabbricerie lo lasciano senza lavoro, vorrebbe ritrovarsi in
orchestra.
Chi parlava era il giovane Londonio, la cui figura dovendo
comparire a più riprese, in mezzo alle tante che popoleranno il nostro quadro
centenario, è bene si sappia quello che ancora non è stampato in nessun libro,
come cioè, nato in Milano nel 1723 (e fin qui ci arriva anche il Ticozzi nel
suo Dizionario de' pittori), fosse discendente di una famiglia originaria
spagnuola, che si chiamava Londognos, feudataria di Ormilìa, un ramo della
quale s'era stabilito in Lombardia al tempo della dominazione spagnuola, quando
per la prima volta vi capitò un cadetto, in qualità di generale delle truppe
spagnuole. Questo Francesco Londonio, quantunque non avesse che 22 anni quando
ricevette la visita del signor Lorenzo Bruni, era già noto come pittore di
soggetti campestri; ma ciò che allora ne costituiva davvero la rinomanza nelle
società alte e basse, era la sua amenissima giovialità, per la quale avrebbe
sparsa l'allegria anche tra le file di un mortorio; pensatore di bellissimi
trovati, a chi ne faceva, a chi ne prometteva, onde se egli era un amico
carissimo, qualche volta riusciva pure un amico molesto; ma quanto era temuto,
altrettanto era cercato, e si moriva di noja senza di lui, in tutti quei
convegni dov'era solito praticare.
In quel momento stava adunata nel suo studio quasi tutta la
confraternita dei pittori milanesi.
V'era il maestro di lui, Ferdinando Porta, figlio di Andrea,
scolaro del Cerano e del Legnanino; v'era il giovane pittor De Giorgi, allievo
del pittor Del Cairo; v'erano gli esordienti Bergami e Pagani, scolari del
pittor Frasa e del Lucini; v'era Angelo Mariani e Zucchi Carl'Antonio già provetti,
scolari l'uno del Fiori, l'altro del Sant'Agostino, scrittore di cose d'arte, e
che s'era dimezzato tra il Procaccini e il Crespi Daniele. V'erano Lucini e
Fabbrica e Clavelli e Zaccaria Rossi e il Crivellone, pittore di trote e di
aragoste. V'era il fanciullo Biondi, che attendeva allora a macinar colori:
nomi la maggior parte di pittori ignoti a tutti, sin anco ai Milanesi, e che
non sono registrati in nessuna storia dell'arte; e de' quali taluno sarebbe
forse celebre se fosse nato a Bologna, a Venezia, a Firenze; tanto questa
nostra città in talune cose è trascuratissima, fino alla barbarie; così che
quei che volesse far la storia delle arti milanesi, potrebbe bene invecchiar
nelle ricerche, pur colla pazienza straordinaria di Muratori, ma non venirne a
capo mai di farla completa.
Ma, che noja! Ci par di sentir a dire; ma che strana idea di
regalarci qui una pagina lacera dell'elenco della confraternita de' pittori del
1750? - Ma perchè farci camminare fino a san Vicenzino, in traccia di persone nuove,
mentre vorremmo stare colle conosciute? In quanto alla noja, rispondiamo
dunque, che, dal momento che la si prova, è inutile dire che c'è a torto; pure
dobbiamo far notare che bisognava passare per di qui, poichè se al lettore noi
dicessimo che, dall'umile studiolo d'uno dei pittori che si trovavano là presso
il Londonio, e da un disegno grazioso e da pochi colori stemperati su di una
tavolozza, dovrà uscire un risolvente drammatico più possente di quanti ne
uscirono dal laboratorio chimico di Dumas, il lettore non crederebbe. - Ma dal
momento che il signor Lorenzo, che non era uno sciocco nè un buontempone, pur
in quell'affanno in cui versava, erasi recato a far visita al Londonio, dove
sapeva che di solito si riuniva una congrega di pittori, bisogna bene che ne
abbia avuto la sua ragione. - Stiamo dunque attenti a tutte le sue parole, e
non perdiamo la traccia de' suoi passi.
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