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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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IV Lorenzo dunque era tutto preoccupato del suo gran pensiero, il quale aveva due intenti: quello di far sfolgorare all'aperto l'intatta onestà della sua Gaudenzi, e quello di tirare in campo una gran dama, di mettere in pubblico quel che era successo in segreto, di tal maniera che, nè per protezioni, nè per deferenze, nè per privilegi nè per sotterfugi, non riuscisse più possibile di salvare da uno scandalo solenne i due blasoni del casato lombardo della contessa, e del casato ispano del conte colonnello. Costretto pertanto a fermarsi là, tra quegli allegri compagnoni del pittor Londonio, e ridere insieme cogli altri dei piacevolissimi racconti di lui, si tormentava del tempo che passava inutilmente, e che era preziosissimo per la natura del suo disegno. - Egli aveva bisogno di trovarsi un momento a solo col Londonio, e, non volendo dar nell'occhio, gli conveniva aspettare che quella compagnia si sciogliesse. Buon per lui che il Londonio entrò a dire: - Orsù, amici, a momenti sarà qui a pigliarci il carrozzone per andare al corso di porta Romana; non v'è tempo a perdere e bisogna vestire la divisa dei Foghetti, perchè mi preme la riputazione. Dopo il corso pranzeremo, se vorrete, tutt'insieme; dopo si andrà all'opera, dopo alla festa in maschera. Quante faccende in un sol giorno!... domani poi, se non volete andare alle vostre case per dormire un pajo d'ore... potete dormir qui tutti da me... perchè domani è un altro giorno pieno zeppo di faccende... e ci converrà non perderci di vista... - A dormir qui, va bene, entrò a dir uno, ma non si vorrebbe che ci trattassi come hai fatto col podestà di Chioggia: perchè siamo ancora in febbraio. - Che cosa ha fatto al podestà? domandarono allora tutti ad una voce. - Ma come? non la sapete? - Io no. - Nemmeno io. - Racconta. - Raccontate. - È un fatto molto semplice; fu l'anno scorso, quando ho passato quegli otto giorni, al carnevale di Venezia... che gli alberghi erano zeppi al punto, che a trovar un letto era come trovar un tesoro. Io però ne avevo trovato uno allo Scudo di Francia, sebben mi costasse un occhio. Ora sentite questa. Voi sapete il dispetto che provo a trovarmi a tu per tu con una persona non conosciuta; figuratevi poi quando si viaggia, e si è in una camera da letto. - Ebbene, a una cert'ora, quando l'albergo era tutt'occupato dal primo all'ultimo piano, dalla prima all'ultima stanza, viene da me l'oste. Forse perchè io era il più giovane di quanti eran là e gli avevo ciera da buon figliuolo, e mi dice: - Signore, è arrivato il podestà di Chioggia, e vuole alloggio. - Buon pro gli faccia, gli dico, doveva arrivar prima il podestà. Cerchi una gondola e dorma la sua notte sotto il felze. - Va bene, ma io gli ho promesso... insisteva l'oste, e in quella entra il signor podestà in persona, e tanto fa e tanto insiste, che io non posso dire di no. Voi sapete che, per quanta ira uno possa avere in petto, in certi momenti non si trova il modo di scacciare un seccatore. Ma quando fummo soli, non potendo resistere all'idea di dover dormir con un altro, con un podestà... e tondo e grasso qual era colui di Chioggia... non so se voi lo conosciate (diceva rivolto al Bruni), pensava al modo di disfarmene, perchè aveva anche un gran sonno, per aver ballato tutta la notte al ridotto di san Moisé, e così nel pensare, guardando il soffietto che pendeva da lato del camino, mi viene un'idea, e tosto, rivolgendomi all'amico, sì gli dico: - Signor podestà? - Cosa mi comanda? - Ho a farle mille scuse anticipate. - Di che? - Di questo, che vado soggetto a un grave incomodo. - Ed è? - Una febbre acuta, la quale mi ha messo in fin di morte sin da fanciullo, mi lasciò un vizio, un gran vizio. - Ebbene? - Vo soggetto a quelli che si chiamano i venti freddi. - Nuovissima, e chi ha la disgrazia di dormire con me ci soffre, ma assai. - Ora che cosa avreste fatto voi se foste stati il podestà? - Darvi la buona notte, e andar via. - Così pare almeno; ma il podestà fu di un altro parere, e metà credulo e metà no, entrò per il primo in letto. Allora io non feci altro che seguirlo, e, così mezzo vestito, mi cacciai sotto coltre, armato di soffietto, e spensi il lume. Lasciai che il podestà dormisse della grossa, e poi misi in movimento il mantice... Tirava un vento, cari miei, che il letto pareva il Cenisio, onde il podestà si risvegliò spaventato, e non potè trattenersi dal dire dopo qualche momento: - Ah! è veramente orribile la vostra malattia, signor mio, per carità, accendete il lume, ch'io vo a gettarmi in laguna, piuttosto che dormire con voi. Io obbedii, accesi il lume. Egli si alzò, non parlò più; soltanto borbottò tra' denti, ed uscì chiamando l'oste a tutta voce. Il resto della notte la dormii così assai placidamente. Or non temete che io voglia oggi estendere a maggiori proporzioni l'esperimento di Venezia. Voi non siete nè sconosciuti, nè podestà, nè ostinati, e v'invito io. Su lesti, dunque, e vestiamoci. La carrozza è qui... sentite. - Poi, voltosi al Bruni: - Dovreste venire anche voi, gli disse. Qui c'è riserva di vesti e maschere per tutti gli amici che capitano... purchè sien tutti artisti, non importa se di pennello o di scalpello o di arco o di fiato o di gola o di rima. Stupisco anzi che non sia venuto oggi il segretario Larghi, il più caro scrittor di villotte che si conosca; e bisogna sentir lui stesso a cantarle! ma lo sentiremo alla festa del teatrino. Risolvetevi dunque. Volete esser Pantalone o Brighella? - Caro mio, nè l'uno nè l'altro, rispose Lorenzo: e còlto il momento che gli altri attendevano a vestirsi, così gli disse: - Son venuto da voi per un affar di premura. - Cattivo giorno, ma non importa. - Ho bisogno dell'opera di un pittore... ma di tale che sia e valente e improvvisatore, e conosca l'arte di colorir le maschere ad uso di Parigi. Ne ho già chiesto altrove, e so che a Milano ve n'è uno bravissimo. - Siete fortunato... eccolo là... È il pittor Clavelli... Ma... E dicendo questo, il Londonio crollò la testa. - Ma... che cosa? - Ma non sapete che, se l'anno passato tali maschere eran tollerate, quest'anno sono proibite, dopo il lagrimevole fatto della vedova del Duca di Choiseul?... - Ma qui non si tratta di far piangere, ma di far ridere, soggiunse il Bruni. - Fate voi... non so che dire; quel giovine lì vi servirà bene; d'altra parte, è in così povere acque, che certo deve aver più paura della bolletta, che delle ordinanze di sua eccellenza. Or lo chiamo e mettetevi d'accordo. Badate però ch'io non so nulla. - Fate conto ch'io non v'abbia mai interpellato su di ciò. Per altro non è e non sarà che uno scherzo. Il giovine pittore Clavelli fu chiamato, il Bruni gli parla, il pittore mise innanzi quella difficoltà che sappiamo; ma sentendo che si trattava di guadagnar bene, acconsentì, e promise al signor Bruni che si sarebbe lasciato trovare al caffè del Greco, mezz'ora prima che incominciasse il teatro. Così stretto il contratto col signor Lorenzo, finì il pittore di adattarsi i due gobbi di Pulcinella, chè tale era la sua maschera, e si mise in ischiera cogli altri, i quali vestivano ciascuno il costume d'uno dei Zanni, allora tanto in voga, i quali eran come i deputati rappresentanti delle principali città d'Italia. Il pittore Londonio, nella sua qualità pur di confratello onorario della badia de' facchini e nella sua qualità di pittore campestre, vestiva la maschera di Beltrame di Gaggiano, maschera che di quel tempo sussisteva ancora, quantunque avesse dovuto cedere il primo posto a quella del Meneghino, inventata già dal Maggi, lo splendor di Milano, come lo aveva chiamato il Redi, e che fu l'Allighieri del dialetto milanese. Così tutti discesero e salirono, meno il Bruni, nel carrozzone carico di munizione per la battaglia del giovedì grasso: fiori, confetti, coriandoli, melaranci, pomi, ova; e di buon trotto si gettarono nel fitto del combattimento, sul corso di porta Romana, a percuotere e a rimaner percossi dalla pioggia de' pomi, a imbrattare e a rimaner imbrattati dalle ova, che si rompevan sulle parrucche incipriate a farvi strani empiastri e lorde miscele di tuorli e di cipria. Ora, senza perdere il tempo a descrivere il corso del giovedì grasso dell'anno 1750, perchè noi siamo nemicissimi delle descrizioni, segnatamente se siano state fatte da cento altri scrittori; ci limiteremo a dire, a coloro che volessero pur farsene un'idea, che a gettare tutti i colori dell'iride, con tutte le loro infinite gradazioni, su quelle ottanta o centomila figure allora stivate lungo il corso di porta Romana, e a raddoppiare il frastuono, come se quelle centomila persone avessero due gole enfiate per ciascuna; e a lasciare alle carrozze, ai padovanelli, ai calessi, ai birbini, ai carri convertiti in forma di barche e di vascelli il permesso di muoversi a loro beneplacito e di produrre per conseguenza un disordine molto simile a quello di un corpo di truppe che sia piuttosto in fuga che in ritirata; e a portare a un tre quarti buonamente della popolazione colà affollata il numero delle maschere d'ogni forma, d'ogni foggia, di ogni paese e d'ogni colore; a far insomma colla mente tutte queste operazioni, ne può uscire, chiudendo gli occhi e lavorando d'imaginazione, lo spettacolo d'un corso carnevalesco di quel tempo. Ma noi, che non abbiam voglia di attendere a ciò, lasceremo passar l'ora del corso, per recarci invece in piazza del Duomo al caffè del Greco, dove il pittor Clavelli a un'ora di notte stava aspettando il sig. Lorenzo Bruni, che venne di fatto a pigliarlo puntualmente, e a condurlo al teatro Ducale. - Vi basterà osservar dalla platea, disse il Bruni al pittore, nel far la via, o sarà necessario salire sul palco scenico? - Farà bisogno della platea e del palco scenico, perchè, a condurre la cosa in modo che l'arte si confonda colla realtà, conviene pigliar tutte le misure. - Andrete dunque in platea e sul palco scenico. Conoscete i fratelli Galliari, quelli che dipingon le scene? - - Li conosco benissimo; ma se non mi vedranno, vi sarò obbligatissimo. - Perchè? - Perchè è bene che la cosa stia fra voi e me; so quel che dico... l'ordinanza parla chiaro; e fu gran tracollo per me, vedete, quella benedetta ordinanza! fate conto che ne' carnevali passati io arrivassi a guadagnar sino a cento zecchini veneti, tanto che avevo lasciato da una parte la pittura di chiesa, che è la gran pittura, per dir la verità; ma col pane non si scherza... e questi curati di campagna credono di sciupare il pane dei poveri a dar da mangiare a' pittori, segnatamente se son giovani e non han nome. - Abbiate coraggio, amico, e se mi servirete bene, farete poi il ritratto intero della ballerina Gaudenzi. - Oh che fortuna sarebbe! sento che è una gran bellezza! una bellezza famosa! Se il ritratto mi riuscisse, tutte le dame di Milano verrebbero da me... sono le occasioni che fanno l'uomo. Cosa credete voi... che tanti pittori famosi sarebbero riusciti tali, se non avessero avuto le occasioni? Che, per esempio, il cavaliere Del Cairo, che fu il maestro del mio maestro, fosse davvero un gran pittore? Non lo credete; ha avuto il vento in poppa; opere di qui, ritratti di là, zecchini a staja, e poi l'ordine di san Maurizio. Ma, per colpa sua e di qualch'altro, s'imbastardò la maniera lombarda cogli innesti della scuola di Bologna; e poi col pigliare qualcosa da Roma, qualcosa da Firenze, qualche cosa da Venezia, ne uscì una mescolanza tale, che non siam più nè di qui nè di là... Ma quando un paese ha avuto la fortuna di possedere un Leonardo, e poi un Luino, e poi quello spavento del Crespi... il Crespi del San Brunone... Non so se voi abbiate visto quel lavoro a fresco? Quello è un a fresco!... Domando io dunque, se c'era bisogno di andar altrove a far gli accattoni? Ma la moda fa tutto; ed io che parlo, son guasto più degli altri, e col far quello per cui voi m'avete chiamato, mi son guasto la mano, e poi mi son messo al punto di guastarmi anche la saccoccia. Se, per esempio, domani taluno mi desse a dipingere una Deposizione, farei le tre Marie col guardinfante. Così vanno le cose. In questa entrarono nel teatro già affollato, e nel punto che già cominciavan le dame a sedere ai loro posti nei palchetti. - Vedo che in platea non c'è luogo, disse il Bruni, troveremo dunque un posto comodo in orchestra, dove senza dar nell'occhio, potrete gittar giù sulla carta qualche segno. Quando poi vi bisognerà d'andar tra le quinte, me lo direte. Lorenzo Bruni si recò allora col pittor Clavelli in orchestra; messo a sedere l'amico, si mise anch'esso al posto, che i suonatori erano già tutti sulle loro sedie, e già attendevano ad accordar gl'istrumenti. Il teatro era zeppo, già faceva quel mezzo silenzio che precede l'alzata del sipario; tutti i palchetti erano occupati; Lorenzo girò gli occhi lungo le file, e il caso volle che fosse, nel momento che il conte V... e la contessa si ponevano a sedere l'uno rimpetto all'altra. Allora sul volto di questa, egli, dal suo basso scranno, tenne fisso uno sguardo lungo e indagatore. Alla bellezza abituale della contessa Clelia, di cui nessuno erasi prima infervorato, per l'eccesso della sua medesima perfezione, si era sovrapposta una velatura leggiera nel colore, e talune indescrivibili impressioni nella superficie, le quali, togliendole quella, quasi diremo, pompa orgogliosa della beltà nudrita dalla salute e dalla calma, vi aveva soffuse le traccie del patimento e di un certo languore di stanchezza, languore prezioso (per la poesia, intendiamoci bene, non per la realtà), il quale essendo appunto la prima volta che compariva su quella faccia, vi produceva un contrasto ineffabile e la rendeva oltre ogni dire attraente a tutti gli sguardi. Tanto è ciò vero che, quasi a un punto stesso, da tutti coloro che la osservarono quand'ella girò gli occhi intorno, si fecero queste medesime osservazioni a di lei riguardo. - Ma come s'è acconciata stasera la contessa V...? - Davvero che mi pare un'altra. Se si sapesse ch'ella ha una sorella, si direbbe ch'è la sorella a punto. - È però sempre bella. - Per me, dirò anzi, che è più bella del solito. - Ah, è un gran peccato che l'abbiano inzuppata nella scienza, e fatta così indurire come quel legno che diventa marmo stando nell'acqua! Ma se molti in quel punto la guardavano fuggitivamente, Lorenzo teneva gli occhi sempre fissi in lei; e da quel palchetto non li abbassò che per volgersi e girarli torvamente sulla platea, così parlando fra sè: - Balordi che siete!... si trova un bel giovane in un giardino, di quelli che s'innamorano per professione, lo sorprendono al piè del palazzo e della stanza dove sta una donna che ha quella faccia lì... e si va a turbar la pace di cinque o sei case per trovar la donna de' suoi sospiri... Balordi voi e balordo il giudice, quando non vi sia di peggio... perchè pare impossibile... una bellezza di quella sorte... che... in conclusione ... qual è la più bella di tutte queste duchesse e contesse e marchese e marchesine che stan qui?... E nessuno è arrivato a pensare che ai tenori, segnatamente quando toccan di quelle grosse paghe che ognun sa, piacciono i buoni bocconi, e, se furono cullati sul letto di paglia, aspirano ai moschetti di drappo. Ma pazienza fossero tutte Vestali le donne di Milano, tutte Lucrezie, tutte Cornelie... Ma no... perchè, anche senza far torto a questa città... si sa ch'è la malattia del secolo, che più si sale e più si pecca... che si è sempre fatto così... Ah sciocchi e balordi... c'è da scavar vicino... ed essi, no... voglion correr mezzo miglio per le ortaglie, e far fatica a trovar l'accesso alla casetta di quella povera ragazza... che è pura come l'acqua... E tutti a intestarsi che debba davvero essere la Gaudenzi... come se non ci fosse stato tutto il tempo e tutto il comodo, supposta una simpatia, d'intendersela sul palco scenico!... Ma non piace al signor pubblico ciò che è naturale e semplice... siam sempre alla storia del teatro... bisognava che il tenore Amorevoli, per essere un caldo amante, saltasse muri, saltasse siepi, si lacerasse tra i pruni la seta dei gheroni, corresse pericolo di rompersi l'osso del collo salendo per qualche scala di seta... allora va bene... allora il signor pubblico è contento... E così avrebbe seguito il corso de' suoi pensieri chi sa sin dove, se un gran colpo d'archetto del primo violino non gli avesse tagliati i pensieri in due. Gettò allora gli occhi sulla musica, mise il violino alla ganascia, e stette pronto. Il sipario si alzò, e avvenne tutto quello che era avvenuto la notte addietro. Uscì il tenore Amorevoli tra un subisso d'applausi, i quali poco ormai lo confortavano, perchè, se lo si lasciava andar in teatro, v'era accompagnato in cocchio dal tenente e dal guardiano del Pretorio, che stavan con lui in camerino perchè non parlasse con nessuno; uscivan con lui, e lo accompagnavano all'orlo del palco scenico e lo aspettavan tra le quinte. Queste cose si sapevano dal pubblico, che le disapprovava, quantunque a torto. E venne l'ora del ballo, e il momento in cui usciva la Gaudenzi divina. Ma che è questo? che novità? che segreto? Cos'è successo?... Ah! noi non sappiam cosa dire, ma il fatto è così precisamente, lettori miei. La Gaudenzi venne accolta da un bisbiglio ostile, intercalato da una dozzina di fischi portentosi, indarno respinti da pochi battimani, che si ritirano tosto, quasi vergognosi d'essersi compromessi. Da che dunque poteva dipendere questo inaspettato cambiamento delle teste del pubblico? Da un fatto assai semplice: da ciò che, essendosi egli ostinato nel credere agli amori della Gaudenzi con Amorevoli, e avendo sperato, quando sentì ch'essa era stata citata a comparire in Pretorio, volesse confessare ciò che generosamente e cavallerescamente il tenore aveva taciuto; gli venne un fiero dispetto di quell'aspettazione delusa, e più ancora della supposta ipocrisia della fanciulla, che si pensò non avesse voluto corrispondere alla delicatezza dell'amante, per continuare a godere in faccia al mondo di quella gran fama d'onestà, usurpata a troppo buon mercato; la quale onestà, in quella universale rilassatezza del costume, era così eccezionale e strana, segnatamente se la si applicava al teatro, che se molti avean prima potuto apprezzarla, altri l'avean sopportata di mal animo, come un'ostentazione; e questi altri, i quali s'eran compiaciuti della scoperta che la Gaudenzi fosse pur essa infine una donna da teatro come tutte le altre, si rivoltarono senza ritegno contro al preteso sforzo che, secondo essi, ella avea fatto per proseguire ad ingannare il mondo. Talvolta un'idea, un'opinione, una credenza s'impadronisce di un'intera massa di gente in un modo irresistibile. E gli uomini di buon senso e di spirito equo, che volendo esaminare prima di condannare, azzardano qualche difesa e qualche osservazione, sono quelli precisamente che danno le mosse al temporale. - Cane d'un pubblico, scrisse il conte Rostopchin nel proprio epitafio, in attestato del suo profondo disprezzo all'opinione pubblica; e Cane d'un pubblico, disse Lorenzo fra sè e sè fremendo, quando da un collega d'orchestra sentì la spiegazione di quell'improvviso malumore della platea; ma ciò che più di tutto gli fece salire il sangue alla testa, e lo raffermò nel suo proposito di vendetta, fu l'aver visto lo stesso signor conte V... a degnarsi di uscire dalla sua orgogliosa gravità per zittire anch'esso. - Anche tu, pensò tra sè, anche tu, bufalo bardato di Catalogna! ma non sai quel che ti attende? E quando calò il sipario, tutto convulso si avvicinò al Clavelli, per chiedergli se gli occorreva d'andar sulla scena. - Ho visto bene, e già ho qui il profilo che non ne scatta un pelo, tanto che in un bisogno potrebbe bastare. Ma un'occhiata attenta e ben dappresso e tra le quinte gli farà nascere il gemello... - Altro che in tempo! abbiamo due giorni. - Quando fosse pronto per sabbato a mezzanotte, è anche troppo. - Io vi avrò servito per mezzodì, - e Lorenzo accompagnò il pittore Clavelli sul palco scenico, collocandolo presso una quinta; e, prima di discendere in orchestra, andò nel camerino della Gaudenzi, la quale piangeva dirottamente. - Il pubblico di Milano, esclamò allora Lorenzo, scoppiando dall'ira e dalla commozione, potrà versare a' tuoi piedi tutto l'oro che costa il suo Duomo... ma faccia conto d'averti veduta per l'ultima volta. Del rimanente aspetto sabbato...
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