V
Ad un savio, non ci rammenta più nè quando nè dove, fu
domandato: quale può essere la cosa più fatta per addensare la tristezza nel
cuore di un uomo sentimentalmente intellettuale? - Forse la vista di un campo
santo, ha egli risposto, nelle ore notturne, con cielo profondo, e luna pallida
e stelle tremule e fuochi lambenti e strigi volanti? No. - Forse la cima
inaccessa delle Alpi, dove il cacciatore rimane percosso dal mortale solengo? O
in una campagna abbandonata e brulla durante il bigio novembre, la vista di uno
stagno, sull'opache acque del quale incumba immobile, da un ramo che vi peschi,
un decrepito airone? O la solitudine infinita del mare ghiacciato, dove
Alfieri, poeta e viaggiatore, potè scoprire com'è tremendo il silenzio quando
sta nel suo regno desolato? No. - Forse una camera anatomica, dove il coltello
dell'investigatore chirurgo sprigioni i gas più letali e più putridi da un
cadavere umano? No. - Che luogo dunque? - Una festa da ballo. - Così rispose
quel savio, con incredulo stupore di tutti; ma per quanto potesse essere uno
strano pensatore, noi dividiamo perfettamente la sua opinione. Se fosse
possibile scrivere un compendio della storia dei dolori, dei disastri, delle
tragedie, degli odj, delle vendette, dei delitti di cui il primo filo, più o
meno avvertitamente, fu gettato nel rigurgito abbagliante della luce notturna,
nel vortice fracassoso delle danze, nella polvere sollevata, nella gioja,
nell'orgia, negli scherzi vellicanti, nel motteggio malizioso, nell'epigramma
ambidestro, nella schiuma dello sciampagna, nell'allegria saltante, nelle grida
incondite, nell'ebbrezza, nella stanchezza, nella dormiveglia di una festa da
ballo in maschera; quel compendio sarebbe più voluminoso delle più voluminose
enciclopedie condensatrici dell'umana sapienza. - Chi non vuol credere, non
s'incomodi; ma la nostra opinione è questa.
Quante volte dalla bocca vermiglia di una faccia di cera
uscì la folgore muta di una parola sola, ma che, sola, bastò a scomporre per sempre
la felicità di due vite; che potè esaltare in un marito il cieco furore d'una
gelosia omicida; e persuadere un troppo credulo fidanzato a respingere quella
che indarno fu insidiata da qualche turpe amatore. Quante volte
dell'effervescenza del senso, protetto dalla maschera e liberato per lei dal
vigile pudore, Mefistofele approfittò per gettar la trama d'un futuro
infanticidio! Quante volte una mendace accusa fu portata in alto dalla
maschera, a cui nulla è inaccesso, per far percuotere un innocente odiato! e
l'iniquità, resa inoffensiva dalla viltà nativa, diventò di colpo e audace e
micidiale, celandosi dietro un volto di cera! Quante volte l'effimera virtù si
disciolse tutta in sudore al contatto di quel volto stesso... e la ferma virtù
vacillò... e cadde a un tratto chi avea potuto resistere a lungo. Per dio la
maschera ci fa spavento! sicchè riputiamo che sarebbe un bel passo della
civiltà se scomparisse per sempre dalla faccia
degli uomini; e tanto più che è già una maschera la faccia naturale. - E dopo
di ciò una festa da ballo è luogo di mestizia anche senza i volti finti! -
Quante infelici passioni vi s'infiammano, quante felici illusioni scompajono;
quanta gara funesta di perfide vanità; quanti gentili tessuti affranti dalla
danza frenetica! Chi ha assistito coll'occhio investigatore e colla riflessione
a quel punto in cui la prima luce del sole entra a mescolarsi in una gran sala
colla fiamma decrepita dei doppieri consunti, e un raggio vivo di quella luce
va a percuotere le faccie di un gruppo di giovinette che, vaghe, poche ore
prima, delle più fresche rose della salute e della gioja, nell'abbattimento sorgiunto,
nella stanchezza, nel repentino avvizzire, nella pupilla fuggita, nel livido
pallore, lasciano già indovinare il processo con cui la dissoluzione
s'impadronirà col tempo dei loro corpi, e dietro a quella che è quasi larva di
gioventù e di bellezza, lasciano travedere con raccapriccio la futura vecchia e
il cadavere futuro: ci saprà dire in confidenza, se si può raccogliere allegria
da una festa da ballo! Ma abbandoniamo le inutili digressioni, e facciamoci con
chi deve recarsi alla festa da ballo in maschera del sabbato grasso.
Pochi minuti prima della mezzanotte di quel sabbato, ossia
circa quarant'otto ore dopo che la dea Gaudenzi venne fischiata dal pubblico,
lasciatosi trascinare da quella infesta precipitazione di giudizj che ha sul
collo tante vittime; Lorenzo Bruni, un po' colle dolci parole, un po' colla
finta collera, un po' colla vera, stava distogliendo da un ostinato proposito
la Gaudenzi, che, abbigliata con tutto lo sfarzo di una regina, nel punto che
stava per salire in carrozza alla festa del teatro Ducale, d'improvviso, come
una puledra che adombri, erasi fermata, e, risalendo la scala, avea cercata la
sua stanza, giurando che sarebbe morta, piuttosto che mostrar la propria faccia
a coloro che aveano potuto insultarla senza ragione.
Avvezza fin dalla prima infanzia alle carezze de' genitori,
alle gentilezze di tutti; e, fatta adulta, alle lodi, all'ammirazione, agli
applausi, alle adulazioni, ai trionfi; quel primo insulto la trapassò di una
profonda ferita, e in modo che la vescichetta del veleno, ci si permetta questa
espressione, del veleno onde la natura non manca mai di provvedere anche la più
soave e mite creatura, s'era dischiusa con uno squarcio repentino, tanto che lo
avea schizzato con veemenza d'intorno a sè, al punto da mettere nella più seria
costernazione la vigile zia e Lorenzo. All'invito ch'egli le avea fatto il
giorno prima di recarsi all'ultima festa da ballo in maschera, ella aveagli
risposto con isdegnosa ironia; alle dolci persuasioni opponendo una fierezza
fin quasi selvaggia, di cui ella sino a quel punto non avea sospettato neppure
la possibilità, e che aveva dato da pensare all'esperimentato Bruni. Bene, a
poco a poco, s'era venuta placando, e piangendo e chiedendo perdono con
carezzevoli blandizie, avea promesso di far il suo desiderio e s'era lasciata
ornare dalla sollecita zia di fiori, di perle, di brillanti; ma la vescica del
veleno le si riaprì, come abbiam veduto, nel punto di salire in carrozza.
- Senti, Margherita, hai tu fiducia in me? le diceva Lorenzo.
- Non mi fido più di nessuno; gli uomini son come i gatti;
oggi leccano, domani graffiano...
- Ma puoi tu dire ch'io t'abbia mai fatto un torto...
- Chi v'ha detto questo? rispose acremente la Gaudenzi.
Voglio dire che... - ma qui diede in uno scoppio di pianto. Il pensiero
dell'insulto ricevuto, riassalendola, non le concedeva pace.
- Dammi retta, Margherita; se ciò che è avvenuto ti affanna
tanto, e n'hai troppe ragioni, l'unico tuo desiderio deve esser quello di
confonder tutti quanti, dando modo alla verità di mostrarsi intera; ed è ciò
appunto a cui ho pensato.... Tu sai che non t'ho mai consigliato cosa che non
dovesse portare il tuo bene... Potrei dunque eccitarti a venire stanotte in
teatro, se non fossi certo che all'alba del domani, ne uscirai vendicata da
quegli stessi che ti hanno offesa?...
- Ma se è vero quel che mi dite... perchè dunque mi fate
mistero del modo?...
- Il perchè lo saprai... ed io pretendo d'aver diritto alla
tua fiducia... Suvvia, alzati, e andiamo.
- Suvvia, soggiungeva la zia, torna buona come prima, e
obbedisci chi vuole il tuo bene...
La Gaudenzi non rispose, si alzò, mosse lentamente verso
l'uscio, e Lorenzo la seguì.
- Andiamo, disse il Bruni, a pigliare il padre della prima
donna, che s'è incaricato di farti il bracciere alla festa; - e partirono.
Ma intanto che Lorenzo Bruni e la Gaudenzi salivano in
carrozza, dopo un'ora di contrasto, in casa V..., quasi che da un medesimo filo
dipendessero i successivi movimenti di due congegni, continuava ancora un
contrasto incominciato dopo. - La contessa Clelia, la quale mille volte s'era
pentita di non aver tosto messo in atto il consiglio di donna Paola Pietra, e
alle fischiate onde si volle punire la Gaudenzi aveva provato un cruccio, un
affanno, un'inquietudine particolare; e però non desiderava altro, fuorchè
spuntasse la prima domenica di quaresima per recarsi in Pretorio, o per
iscrivere al giudice, contenta di affrontare affanni peggiori ma di tagliare
quel nodo una volta per sempre e finirla;
sazia della festa del giovedì grasso e d'un pranzo incomodo di sessanta coperti
e d'un'accademia del venerdì e del trovarsi sempre
in mezzo a tanti uomini e donne, in ciascuno de' quali e delle quali ella
vedeva i suoi denigratori spietati, quando la gran notizia fosse scoppiata in
piazza; e affranta per di più da un tedio convulso che la faceva stare di
malissima voglia, aveva risoluto di non intervenire altrimenti in quella notte
alla festa da ballo in maschera del teatro Ducale. Ma non avesse mai fatto una
simile proposta al conte marito! La contessa, nelle più comuni circostanze
della vita, poteva in casa far tutto quello che voleva, lo abbiamo già detto;
ma in certe occasioni speciali, guai ad omettere una pratica, una consuetudine,
un cerimoniale. Allora il conte, rispettosamente ammiratore della contessa,
diventava il suo despota e il suo tiranno; e per dare, a modo d'esempio,
il permesso alla moglie di non intervenire all'ultima festa del carnevale, dove
tra le dame più cospicue si compiva l'ultima e più fiera battaglia di eleganza
e di ricchezza, bisognava che la moglie fosse stata assalita, per lo meno, da
una encefalite fulminante. Il conte era della famiglia di quel tale che,
piuttosto che infrangere un cerimoniale, volle morire asfissiato da un
braciere.
Fatto adunque il viso più severo che per lui fosse possibile
alla moglie, e pronunciate quelle parole più irrevocabilmente di ferro che per
lui si potevano, passò nella sala dov'era la madre della contessa, una sorella
e un fratello; e tutto aspro:
- Donna Gertrude (disse alla madre), la si compiaccia di
recarsi un istante da sua figlia, la quale pare che abbia volontà
d'inquietarmi.
- Che cosa?... Che è avvenuto? rispose donna Gertrude,
maravigliata di veder così a rovescio il conte, il quale per consueto, sebbene
un po' duramente, le si era sempre dimostrato
cortese; ma in quella entrava la contessa.
- Preghi il conte, mamma, a permettermi di non uscire;
perchè sto male, male assai.
Il colonnello non seppe allora più contenersi, e strepitò,
senza però mancare alla sua gravità.
Ma in quel punto il fratello di donna Clelia si alzò, e di
queto le disse non so che parole all'orecchio.
A quelle parole piegaronsi i ginocchi alla contessa, e si
gettò a sedere.
La madre e la sorella si guardavano... Il conte
passeggiava... Il fratello taceva.
Trascorsi alcuni momenti, la contessa Clelia si levò e:
- Andiamo, disse, non voglio che per sì poco il conte si
affanni.
Una mezz'ora dopo, preceduta dal conte marito e dalla sorella,
la contessa discendeva lo scalone, rallentando il passo per essere raggiunta
dal fratello. Quando questi le fu vicino:
- Chi ti ha detto...? gli disse la contessa.
- È un bisbiglio che corre per la città... La tua assenza
avrebbe potuto accrescere i sospetti.... Or pensa a te...
A piedi dello scalone, tra le torcie di due lacchè, la
contessa, attonita, salì in carrozza; il conte lieto e sorridente sedette
vicino a lei; la portiera si chiuse, e via di trotto. Il conte fratello e la
contessina tennero lor dietro in altra carrozza.
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