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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO SECONDO
    • VI
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VI

Un'ora dopo, la festa da ballo al teatrino era già all'apogeo dello splendore, della folla, della vivacità, del frastuono. Così in quel tempo, come oggidì, il palco scenico si congiungeva alla platea per mezzo di una gradinata divisa in tre scompartimenti. Gl'intervenuti salivano al palco per quello di mezzo, e discendevano in platea pei due laterali. - Essendo il teatro più piccolo, l'orchestra veniva collocata in una galleria espressamente eretta sul palco. - Del resto, noi uomini della civiltà e del progresso, che abbiamo fatto le meraviglie quando il Fetonte degli impresarj introdusse per la prima volta il tappeto verde in teatro, dobbiamo sapere che, nel 1750, i più ricchi tappeti di Gand a rosoni variopinti coprivano tutt'intero il pavimento in occasione delle feste, e tutto era di conformità con quella ricchezza; dimodochè, se la sala tenevasi, come dicemmo, alquanto oscura durante lo spettacolo, pel migliore effetto ottico della scena e delle vedute architettoniche e campestri dei fratelli Galliari, le fiamme inondavano il teatro di luce quando si convertiva in festa da ballo. Ciascuna fila de' palchetti era rigirata da trenta lumiere di cristallo, portanti cadauna sei torcie di cera; dalla vòlta pendevano otto grandi lumiere pur di cristallo, e dall'interno de' palchetti usciva un'altra luce ausiliaria. Siccome poi da ciascun davanzale cadevano sui parapetti ricchissimi arazzi e ricami d'oro e d'argento, o di broccato tutto d'oro tempestato di pietre d'ogni colore e di luccicanti berilli, così l'effetto che allora produceva lo spettacolo interno del teatro Ducale era di gran lunga superiore a quello d'ogni più sfarzosa festa da ballo in maschera d'oggidì. E se il lusso e lo splendore era tanto in platea e sul palco, le sale del ridotto costituivano davvero un Olimpo di ricchezza e di luce in mezzo a cui sfolgoravano le deità terrene; chè le dame più cospicue s'addensavano tutte colà, o adagiate in apposita sala, su scranne dorate, a beare di loro presenza chi le adocchiava; o in altra sala, aggirantisi in quelle danze passeggiate che si chiamavano minuetto e perigordino. è da credere che le sale del ridotto fossero accessibili soltanto alle dame; tutt'altro. La divisione che tra ceto e ceto era ancora ben determinata, nel secolo passato, in tutte le relazioni della vita, e la distanza che tra patriziato e borghesia e plebe era mantenuta inesorabilmente da cento prammatiche e distinzioni e cerimonie, scomparivano affatto in quelle feste del carnevale. Era una continuazione modificata del medio evo, quando il feudalismo dei padroni e dei servi potè costituire quasi due nature diverse; quando per una legge di compenso, a Milano, nelle notti fescennine del famoso san Giovannino alla Paglia, tutti quanti si mescolavano in istrane dimestichezze. Ma quei giorni di eguaglianza eccezionale erano in ragione della disuguaglianza legale e consuetudinaria; tanto che, mitigandosi e trasmutandosi la seconda, grado grado la prima si limitò, e di svolgimento in isvolgimento si pervenne al punto che ambedue scomparvero e si confusero, come vediamo oggidì, in una cosa sola, e tolti gli argini, le acque si riunirono. Ma non preveniamo i tempi, e non esponiamo al pubblico intempestivamente il dietro le scene del nostro libro.

In mezzo a quell'Olimpo lucente delle più belle dame milanesi comparve, a una cert'ora, la Gaudenzi accompagnata dal signor Casserini, il marito della prima donna, quella che faceva la parte di Semiramide riconosciuta. Ma appena fu vista dalla folla de' cicisbei curvati in vari atteggiamenti sulle dame sedute, come statue, che facessero gruppo convenzionale con altre statue, si alzò un bisbiglio ostile. Lorenzo Bruni, che, tutto coperto dal domino nero e dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla, quando la vide indietreggiare perplessa, la spinse ad adagiarsi su d'una sedia. La Gaudenzi obbedì, ed egli si indugiò un momento. Seduta tra la contessa Marliani e la contessa Borromeo del Grillo stava la contessa Clelia. - Ferveva un incessante cicalìo tra la folla incessante. - Maschere d'ogni generazione passavano davanti alle dame per avventar loro motti e scherzi e complimenti. - Il villottista cantava il nome e cognome a ciascuna, e le loro qualità fisiche e morali in accozzamenti strani di idee e di rime; di tratto in tratto fermavasi loro dinanzi un arlecchino, un brighella, un pulcinella, un dottorazzo bolognese, a dir lunghe filastrocche nel dialetto della città rappresentata dalla loro maschera. - Intanto sentivasi la musica del minuetto, la quale, con poche variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggidì, con altre poche variazioni, rifece Verdi nell'introduzione del suo Rigoletto. - Tra quella musica e lo strisciar lento dei piedi e il ronzìo continuo, s'udiva strillato, con accompagnamento di chitarra, qualche strambotto d'una maschera curiosa, che s'intitolava il Tasca e parlava un dialetto composto, mescuglio di veneziano, milanese e bolognese:

Nol , nol pi mondo

De viver all'antiga,

Chi no truffa e no intriga

Resta in fondo.

Tanto la zente destomegae,

Che pi no l'ha favor la veritae.

Chi negozia col vero

El fallio de botto;

Se domanda Zinzero

El merlotto,

Vedo la lealtae scalza e confusa

Perchè tutti la loda, e pochi l'usa.

E altrove gridava Meneghino una filastrocca del Maggi in quel dialetto che, dopo cent'anni, ha potuto alterarsi tanto:

 

 

Ferr e strasc, cardeghee,

Rivendirœu, postee,

Conch, e tajee e messò,

Garzonscii de sartô,

Canaja che vivii

De menuder guadagn,

E criee per i strad cont i cavagn,

Ciovirœu de san Sater,

Tucc compagnon de better,

El vost car Meneghin

El va in lontan paes;

Se pu no s'vedaremm, a revedes.

 

Mortadell di tri Scagn,

Busecca de la Gœubba,

Passerit di trii Merla,

Moscatel di trii Re,

Montarobbi del Gall,

Malvasia d'offelee,

Tutt cose de tesoree,

El vost car Meneghin

El va in lontan paes;

Se pu no s'vedaremm, a revedes.

E ad un certo punto entrò nella sala una frazione della compagnia de' Foghetti. - Il pittor Londonio, in costume di Beltrame di Caggiano, mostrava nella lanterna magica alcune sue bizzarre composizioni, le quale facevano sghignazzar tutti quanti e abbassar gli occhi ad alcune dame che s'indispettivano di non poter comprimere il riso. - E subito dopo Cesare Larghi, ch'era segretario soprannumerario di governo, in costume di contadino brianzolo, accennando di voler cantare una delle sue villotte con accompagnamento di ribeba, imponeva silenzio a quanti eran , i quali gridavano ai suonatori e ai ballerini, basta, zitto, silenzio; - e Cesare Larghi, vista la Gaudenzi, e indispettito col pubblico del modo ond'erasi comportato secolei, si pose precisamente innanzi ad essa, a cantare quella veramente poetica villotta dettata in dialetto contadinesco... e che fu stampata nella collezione de' poeti vernacoli milanesi:

I to oggitt me paren bei stelli

Che hin pu lusurient de la lusnava,

E quij to ganassitt ch'hin de sgioncava,

E hin inscì svernighenti e tanto belli.

Famm vedè, cara ti, quii to bocchini

Tanto streccit che paren facc col fuso,

Che fan ol pover Togn deslenguà in giuso

E van disend a tucc: femm di basini.

La cantilena soavemente campestre onde si esprimevano quelle poetiche parole, la bella voce e l'accento e il garbo onde il Larghi la cantava, in prima avean messo un silenzio così profondo in quelle sale, che si sarebbe sentito a volare una mosca; e provocarono poi un tale scoppio d'applausi, che di più non avrebbe potuto ottenere lo stesso Amorevoli.

Come il Larghi ebbe finito, quella dozzina di socj della compagnia de' Foghetti si presentarono alle dame, e le invitarono a ballare un minuetto. Poche vi si rifiutarono, ma tra queste vi fu la contessa Clelia, che accusò di star male. Cesare Larghi invitò la Gaudenzi, la quale, ringraziandolo della cortesia, non si fece pregare. - Si rimise allora lo schiamazzo nelle sale, si rinnovarono le grida, l'orchestra tornò a suonare; e dodici coppie strisciarono la danza con mille scontorcimenti leziosi della testa e delle braccia che sporgevano rose nel punto che fingevano involarle, e sulla punta delle dita deponevan baci incaricati di volar sul volto delle dame danzanti. Lorenzo Bruni che aveva seguito per poco la Gaudenzi nella sala da ballo, ritornò dove s'era trattenuta la contessa Clelia, e girandole dietro le spalle, le accostò la bocca della maschera nera all'orecchio, e, parlandole con voce sottomessa e alterata, l'invitò a danzare.

- Signore, ho già rifiutato un altro gentile invito, perchè sto male.

- Signora, devo parlarvi. - Si tratta di un affar grave... Favorite ad accettare un ballo; avremo agio a stare insieme senza sospetto altrui.

La contessa sentì scorrersi un brivido per l'ossa, e non trovò parola per rispondere; chè quanto aveale detto il fratello l'aveva messa in gravissima apprensione; onde si alzò allora e, detto alla sorella che le sedeva presso:

- Aspetta qui; e, pregata la contessa del Grillo a tenerle compagnia: - Vengo, soggiunse poi alla maschera, la quale offrendole il braccio, la accompagnò nella sala da ballo.

Si posero così tra le figure danzanti, e fecero un giro; indi, quando le dodici coppie si ritirarono per dar luogo alle altre, la maschera trasse la contessa a sedere nel vano di un finestrone.

- Signora, sapete voi chi sono?

- No.

- In mille anni mai più vi apporreste.

- Spiegatevi. Che volete dire?

- Che vi avrei creduta generosa come siete bella...

- Ma chi siete voi?

La maschera aspettò che molte persone si fermassero presso, e colse il punto che uno degli ispettori del palco scenico, il conte Pertusati, gli passasse dinanzi. Allora parlò e gestì in modo da attirar l'attenzione altrui; poi di tratto, balzando in piedi, disse ad alta voce:

- Non meritate, no, ch'altri vi abbia riguardo... Vedete ora dunque chi sono; e togliendosi la maschera nera, scoprì la maschera bianca. - Balzò fuori allora, come per arte d'incanto, la figura del tenore Amorevoli. - Sua la faccia, sua la statura, suo tutto. Quanti erano il riconobbero, e la contessa non potè comprimere un grido, e cadde.

La maschera si ricoprì tosto.

- Ora, voi tutti che siete qui, esclamò, potete attestare qual fu la donna per cui Amorevoli fu arrestato; e, detto questo, s'involò tra la folla, e scomparve.

Noi crediamo che il lettore avrà, presso a poco, compreso da un pezzo in che doveva consistere la trama onde Lorenzo Bruni aveva pensato, con un mezzo per verità illecito, di far uscire la verità allo scoperto.

Era da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in pubblico persino otto balli alla settimana, si era introdotta la perversa invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da pittori esperti e da plasticatori, rendevano al vivo la sembianza di chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si copriva con un'altra maschera qualunque, la quale, levata con destrezza, lasciava intravedere il volto imprestato che stava sotto, e che ricoprivasi tosto, onde impedire si potesse conoscere l'inganno. Questa moda dalla Francia si diffuse tosto in Italia, e segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì altamente. Giovani scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a ingannar donne e donzelle inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e mariti, traevano in insidia donne e amanti creduli, dal che derivarono vendette e delitti.

E due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa di Choiseul, che, rimasta vedova, s'era invaghita d'un giovane cavaliere, con atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il marito defunto, ond'ella ne prese tale raccapriccio e sgomento, che, caduta ammalata, morì poi di consunzione. Perciò nella Francia stessa s'eran pubblicati editti e pene gravi contro questa invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di Venezia, e nel marzo dell'anno 1749 era uscita pure a Milano, in conseguenza di gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la seguente ordinanza:

"L'eccellentissimo governatore, avendo, con sua gravissima indignazione sentito il pessimo e colpevole uso che si è fatto da taluni male intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere ritratti, ha ordinato che ne sia assolutamente vietata ed interdetta la fabbrica e l'introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni di carcere, da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con male suggestioni l'esecuzione, come a chi vi prestasse l'opera dell'arte e della mano per danaro o per qualunque altro compenso. Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali, al pretorio e ai giusdicenti.

Milano, 12 marzo 1749."

Al grido, alla caduta, allo svenimento della contessa si fermarono le danze, fu fatta tacere l'orchestra, accorsero ad onde uomini e donne da tutte le parti, accorsero le dame dalla sala vicina e la sorella della contessa e la del Grillo; e tosto il fratello, i parenti, gli amici, ultimo il conte V..., la comparsa del quale compresse a tutti la parola in bocca, sicchè fu il solo che, per il momento, non seppe nulla, e potè così ajutare la contessa, quando si riebbe, a recarsi in palchetto. - Scoppiarono allora le dicerie come una eruzione vulcanica. Da quel punto del ridotto all'ultimo angolo del teatro si propagò, colla rapidità della luce, la notizia che il tenore Amorevoli era in teatro; si propagò la notizia ch'era venuto per vendicarsi della contessa V...; che le tresche del tenore erano impegnate con lei e non con la Gaudenzi; e insieme colla notizia corsero e serpeggiarono e s'intersecarono gli stupori; le incredulità, le osservanze, le testimonianze, le persuasioni, le ire, le ingiurie contro quella donna che, dicevasi, alla superbia insopportabile aveva potuto congiungere anche una detestabile ipocrisia; e colle nuove ire e le nuove ingiurie versate contro la nuova vittima, cominciarono i pentimenti d'aver a torto fischiata la ballerina, la vittima di due sere prima, e i propositi di rimettere in piedi quell'idolo stato rovesciato, e d'andare a cercarla e di portarla a casa in trionfo.

E intanto quella notizia era giunta all'orecchio del signor giudice del Pretorio, che si trovava precisamente nel palchetto del signor segretario del Senato. - Còlto come da un colpo di fulmine, e balzato in piedi al sentire che il tenore Amorevoli era venuto in teatro, chiamò un de' tenenti che sopravvegliavano al pubblico, e lo mandò ad assumere informazioni, mentre il segretario del Senato, indarno trattenuto dal signor giudice, che voleva prima verificar la cosa e aveva paura d'una solenne sgridata, si recò, pago di farsi apportatore d'una straordinaria novella, nel palchetto dell'eccellentissimo governatore, dove trovavasi il presidente del Senato. Essi erano già informati di tutto, e facevan chiose e commenti, e già avean mandato a domandare il giudice stesso del Pretorio, che diffatto venne, pochi momenti dopo, tutto confuso a protestare com'egli aveva lasciato il tenore Amorevoli sotto buona custodia. - Tutti stettero perplessi ad aspettare il tenente ch'era corso al Pretorio, il quale, sollecito e ansioso, era salito dal custode delle prigioni, e con esso era entrato nel camerino dove Amorevoli giaceva sdrajato sul letto tra un mezzo sogno e una mezza veglia. E il tenente ebbe l'ingenuità di interrogarlo se mai fosse uscito per recarsi al teatro, per il che il tenore sospettò avesse quel zelantissimo ufficiale dato di volta al cervello.

Allora il tenente, felice che non si fosse verificato lo scandalo d'un prigioniero fuggito, si trovò d'aver gambe velocissime al pari d'un lacchè, e giunto tutto trafelato al teatro, fu introdotto al palco delle loro eccellenze ad annunciare, con gran contento del giudice, ma con nuovo stupore di tutti, che il tenore Amorevoli non era mai uscito dalla sua cella e che quei del ridotto dovevano aver preso uno strano abbaglio. Fu chiamato pertanto il conte Pertusati, uno de' cavalieri ispettori del palco, il quale si maravigliò che il governatore dubitasse della sua asserzione; e furono fatti venire testimonj più di parecchi: tutti si misero la mano al petto, protestando di aver la vista perfetta e la testa sulle spalle. Governatore, presidente, giudice almanaccarono a lungo. Che è? Che non è? Cosa può essere stato? Pensa, ripensa e torna a pensare... Ma, quasi contemporaneamente, nella testa del presidente del Senato e del giudice del Pretorio sorse quel sospetto, che poteva spuntare anche più presto, perchè l'uso delle maschere-ritratti non era che del carnevale passato, e l'ordinanza non gli era posteriore che di nove mesi. Appena messo fuori quel sospetto, fece tosto presa nella testa del governatore conte Pallavicini, il quale fattolo diventar certezza, sentì il diritto di salire in furore, e d'ordinare al signor giudice che praticasse tosto e in tutti i modi possibili le più rigorose indagini per scoprire i contravventori dell'ordinanza.

Quando il giudice uscì dal teatro, la primissima luce bigia dell'alba si confondeva già colle torcie dei lacchè che attendevano, presso le carrozze, i loro padroni. In una parte era uno schiamazzo assordante di evviva; in un'altra, vicino a una carrozza, ferveva un alterco vivacissimo tra due gentiluomini su cui si projettava la luce delle torcie dei lacchè.

Il giudice domandò che significasse quel rumore da un lato e quel contrasto dall'altro, e gli fu risposto come alcuni giovinotti accompagnavano a casa, colle torcie a vento, la Gaudenzi in trionfo; e che l'alterco era tra il conte V... e suo cognato, perchè non s'era più trovata in nessun luogo del teatro, in palchetto altrove, la contessa sua moglie, e, mandato il lacchè a vedere al palazzo, nessuno l'aveva vista ritornare. Il giudice che aveva il pensiero ai contravventori, non badò a tal fatto più che tanto, e s'affrettò al Pretorio, dove spiccò tosto gli ordini, perchè si mandassero a chiamare tutti i pittori della città di Milano senza perder tempo. E anche noi senza perder tempo diremo, che non batteva il mezzodì, che già il pittore Clavelli, semplice e schietto, invitato a comparire e interrogato, confessò la cosa, e nominò il violino per il ballo del teatro Ducale. Questi, non trovato in casa, come si seppe che praticava presso la ballerina Gaudenzi, colà appunto fu cercato e trovato ed arrestato, con nuovo dolore e spavento e lagrime della Gaudenzi, la quale, pur troppo, cominciava ad essere visitata dalla sventura.

Così nell'ora trista del tramonto di quella tristissima prima domenica di quaresima, il destino di cui abbiam veduto a scintillare in alto l'occhio beffardo, potè contemplare a un punto solo quattro scene dolorose: una sala del palazzo V... in cui il conte passeggiava innanzi e indietro, rapidissimo, mentre il furore che lo divorava per la scoperta dell'infedeltà di quella che aveva riputata irreprensibile, gli si svolgeva in cuore e gli si tramutava in un sentimento spasmodico di pietà e di costernazione, all'idea che la contessa era scomparsa e non si sapeva dove come, onde mille orridi timori gli straziavano l'animo; e nella sala stessa, la contessa madre sedeva immobile, coll'occhio impietrito e spaventato, intanto che la contessina piangeva dirottamente, e il conte fratello stava ritto in gran pensiero, guardando macchinalmente da un finestrone nella via sottoposta. Altrove poi, la povera Gaudenzi teneva appoggiato il bel volto sulle spalle della zia che, costernata, osservava la nipote costernata, mentre più lontano, in una povera casupola di legno, una vecchia, la madre del pittor Clavelli, pareva fatta stupida, all'annunzio che l'unico figliuolo era stato trattenuto prigioniero; e nella casa in contrada Borromeo, donna Paola Pietra, tenendo una lettera spiegazzata sulle ginocchia, volgeva gli occhi al cielo, esclamando con un sospiro profondo: Ahi sventurata!

E tutto ciò per un muricciolo saltato... e colui che era stata la cagione prima e sola di tanto disordine, attendeva placido in quel punto, ne' suoi vasti latifondi, ad esaminare un prospetto di conti presentatogli dal maggiordomo, di cui la somma totale veniva a dire che l'entrata dell'illustrissimo signor conte era di lire milanesi duecent'ottanta mila, a non contare due diritti d'acqua, che potevano fruttare altre lire venti mila annue.




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