VI
Un'ora dopo, la festa da ballo al teatrino era già
all'apogeo dello splendore, della folla, della vivacità, del frastuono. Così in
quel tempo, come oggidì, il palco scenico si congiungeva alla platea per mezzo
di una gradinata divisa in tre scompartimenti. Gl'intervenuti salivano al palco
per quello di mezzo, e discendevano in platea pei due laterali. - Essendo il
teatro più piccolo, l'orchestra veniva collocata in una galleria espressamente
eretta sul palco. - Del resto, noi uomini della civiltà e del progresso, che
abbiamo fatto le meraviglie quando il Fetonte degli impresarj introdusse per la
prima volta il tappeto verde in teatro, dobbiamo sapere che, nel 1750, i più
ricchi tappeti di Gand a rosoni variopinti coprivano tutt'intero il pavimento
in occasione delle feste, e tutto era di conformità con quella ricchezza;
dimodochè, se la sala tenevasi, come dicemmo, alquanto oscura durante lo
spettacolo, pel migliore effetto ottico della scena e delle vedute
architettoniche e campestri dei fratelli Galliari, le fiamme inondavano il
teatro di luce quando si convertiva in festa da ballo. Ciascuna fila de'
palchetti era rigirata da trenta lumiere di cristallo, portanti cadauna sei
torcie di cera; dalla vòlta pendevano otto grandi lumiere pur di cristallo, e
dall'interno de' palchetti usciva un'altra luce ausiliaria. Siccome poi da
ciascun davanzale cadevano sui parapetti ricchissimi arazzi e ricami d'oro e
d'argento, o di broccato tutto d'oro tempestato di pietre d'ogni colore e di
luccicanti berilli, così l'effetto che allora produceva lo spettacolo interno
del teatro Ducale era di gran lunga superiore a quello d'ogni più sfarzosa
festa da ballo in maschera d'oggidì. E se il lusso e lo splendore era tanto in
platea e sul palco, le sale del ridotto costituivano davvero un Olimpo di
ricchezza e di luce in mezzo a cui sfolgoravano le deità terrene; chè le dame
più cospicue s'addensavano tutte colà, o adagiate in apposita sala, su scranne
dorate, a beare di loro presenza chi le adocchiava; o in altra sala,
aggirantisi in quelle danze passeggiate che si chiamavano minuetto e
perigordino. Nè è da credere che le sale del ridotto fossero accessibili
soltanto alle dame; tutt'altro. La divisione che tra ceto e ceto era ancora ben
determinata, nel secolo passato, in tutte le relazioni della vita, e la
distanza che tra patriziato e borghesia e plebe era mantenuta inesorabilmente
da cento prammatiche e distinzioni e cerimonie, scomparivano affatto in quelle
feste del carnevale. Era una continuazione modificata del medio evo, quando il
feudalismo dei padroni e dei servi potè costituire quasi due nature diverse;
quando per una legge di compenso, a Milano, nelle notti fescennine del famoso
san Giovannino alla Paglia, tutti quanti si mescolavano in istrane
dimestichezze. Ma quei giorni di eguaglianza eccezionale erano in ragione della
disuguaglianza legale e consuetudinaria; tanto che, mitigandosi e trasmutandosi
la seconda, grado grado la prima si limitò, e di svolgimento in isvolgimento si
pervenne al punto che ambedue scomparvero e si confusero, come vediamo oggidì,
in una cosa sola, e tolti gli argini, le acque si riunirono. Ma non preveniamo
i tempi, e non esponiamo al pubblico intempestivamente il dietro le scene del
nostro libro.
In mezzo a quell'Olimpo lucente delle più belle dame
milanesi comparve, a una cert'ora, la Gaudenzi accompagnata dal signor
Casserini, il marito della prima donna, quella che faceva la parte di
Semiramide riconosciuta. Ma appena fu vista dalla folla de' cicisbei curvati in
vari atteggiamenti sulle dame sedute, come statue, che facessero gruppo
convenzionale con altre statue, si alzò un bisbiglio ostile. Lorenzo Bruni,
che, tutto coperto dal domino nero e dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla,
quando la vide indietreggiare perplessa, la spinse ad adagiarsi su d'una sedia.
La Gaudenzi obbedì, ed egli si indugiò là un momento. Seduta tra la contessa
Marliani e la contessa Borromeo del Grillo stava la contessa Clelia. - Ferveva
un incessante cicalìo tra la folla incessante. - Maschere d'ogni generazione
passavano davanti alle dame per avventar loro motti e scherzi e complimenti. -
Il villottista cantava il nome e cognome a ciascuna, e le loro qualità fisiche
e morali in accozzamenti strani di idee e di rime; di tratto in tratto
fermavasi loro dinanzi un arlecchino, un brighella, un pulcinella, un
dottorazzo bolognese, a dir lunghe filastrocche nel dialetto della città
rappresentata dalla loro maschera. - Intanto sentivasi la musica del minuetto,
la quale, con poche variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella
festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggidì, con altre poche variazioni,
rifece Verdi nell'introduzione del suo Rigoletto. - Tra quella musica e lo
strisciar lento dei piedi e il ronzìo continuo, s'udiva strillato, con
accompagnamento di chitarra, qualche strambotto d'una maschera curiosa, che
s'intitolava il Tasca e parlava un dialetto composto, mescuglio di veneziano,
milanese e bolognese:
Nol xè, nol xè pi mondo
De viver all'antiga,
Chi no truffa e no intriga
Resta in fondo.
Tanto la zente xè destomegae,
Che pi no l'ha favor la veritae.
Chi negozia col vero
El xè fallio de botto;
Se domanda Zinzero
El xè merlotto,
Vedo la lealtae scalza e confusa
Perchè tutti la loda, e pochi l'usa.
E altrove gridava Meneghino una filastrocca del Maggi in
quel dialetto che, dopo cent'anni, ha potuto alterarsi tanto:
Ferr e strasc, cardeghee,
Rivendirœu, postee,
Conch, e tajee e messò,
Garzonscii de sartô,
Canaja che vivii
De menuder guadagn,
E criee per i strad cont i cavagn,
Ciovirœu de san
Sater,
Tucc compagnon de
better,
El vost car Meneghin
El va in lontan paes;
Se pu no s'vedaremm, a revedes.
Mortadell di tri Scagn,
Busecca de la Gœubba,
Passerit di trii Merla,
Moscatel di trii Re,
Montarobbi del Gall,
Malvasia d'offelee,
Tutt cose de tesoree,
El vost car Meneghin
El va in lontan paes;
Se pu no s'vedaremm, a revedes.
E ad un certo punto entrò nella sala una frazione della
compagnia de' Foghetti. - Il pittor Londonio, in costume di Beltrame di
Caggiano, mostrava nella lanterna magica alcune sue bizzarre composizioni, le
quale facevano sghignazzar tutti quanti e abbassar gli occhi ad alcune dame che
s'indispettivano di non poter comprimere il riso. - E subito dopo Cesare
Larghi, ch'era segretario soprannumerario di governo, in costume di contadino
brianzolo, accennando di voler cantare una delle sue villotte con
accompagnamento di ribeba, imponeva silenzio a quanti eran là, i quali
gridavano ai suonatori e ai ballerini, basta, zitto, silenzio; - e Cesare
Larghi, vista la Gaudenzi, e indispettito col pubblico del modo ond'erasi
comportato secolei, si pose precisamente innanzi ad essa, a cantare quella
veramente poetica villotta dettata in dialetto contadinesco... e che fu
stampata nella collezione de' poeti vernacoli milanesi:
I to oggitt me paren dò bei stelli
Che hin pu
lusurient de la lusnava,
E quij to ganassitt ch'hin de sgioncava,
E hin inscì svernighenti e tanto belli.
Famm vedè, cara ti, quii to bocchini
Tanto streccit che paren facc col fuso,
Che fan ol pover Togn deslenguà in giuso
E van disend a tucc: femm di basini.
La cantilena soavemente campestre onde si esprimevano quelle
poetiche parole, la bella voce e l'accento e il garbo onde il Larghi la
cantava, in prima avean messo un silenzio così profondo in quelle sale, che si
sarebbe sentito a volare una mosca; e provocarono poi un tale scoppio
d'applausi, che di più non avrebbe potuto ottenere lo stesso Amorevoli.
Come il Larghi ebbe finito, quella dozzina di socj della
compagnia de' Foghetti si presentarono alle dame, e le invitarono a ballare un
minuetto. Poche vi si rifiutarono, ma tra queste vi fu la contessa Clelia, che
accusò di star male. Cesare Larghi invitò la Gaudenzi, la quale, ringraziandolo
della cortesia, non si fece pregare. - Si rimise allora lo schiamazzo nelle
sale, si rinnovarono le grida, l'orchestra tornò a suonare; e dodici coppie
strisciarono la danza con mille scontorcimenti leziosi della testa e delle
braccia che sporgevano rose nel punto che fingevano involarle, e sulla punta
delle dita deponevan baci incaricati di volar sul volto delle dame danzanti.
Lorenzo Bruni che aveva seguito per poco la Gaudenzi nella sala da ballo,
ritornò dove s'era trattenuta la contessa Clelia, e girandole dietro le spalle,
le accostò la bocca della maschera nera all'orecchio, e, parlandole con voce
sottomessa e alterata, l'invitò a danzare.
- Signore, ho già rifiutato un altro gentile invito, perchè
sto male.
- Signora, devo parlarvi. - Si tratta di un affar grave...
Favorite ad accettare un ballo; avremo agio a stare insieme senza sospetto
altrui.
La contessa sentì scorrersi un brivido per l'ossa, e non
trovò parola per rispondere; chè quanto aveale detto il fratello l'aveva messa
in gravissima apprensione; onde si alzò allora e, detto alla sorella che le
sedeva presso:
- Aspetta qui; e, pregata la contessa del Grillo a tenerle
compagnia: - Vengo, soggiunse poi alla maschera, la quale offrendole il
braccio, la accompagnò nella sala da ballo.
Si posero così tra le figure danzanti, e fecero un giro;
indi, quando le dodici coppie si ritirarono per dar luogo alle altre, la
maschera trasse la contessa a sedere nel vano di un finestrone.
- Signora, sapete voi chi sono?
- No.
- In mille anni mai più vi apporreste.
- Spiegatevi. Che volete dire?
- Che vi avrei creduta generosa come siete bella...
- Ma chi siete voi?
La maschera aspettò che molte persone si fermassero lì
presso, e colse il punto che uno degli ispettori del palco scenico, il conte
Pertusati, gli passasse dinanzi. Allora parlò e gestì in modo da attirar
l'attenzione altrui; poi di tratto, balzando in piedi, disse ad alta voce:
- Non meritate, no, ch'altri vi abbia riguardo... Vedete ora
dunque chi sono; e togliendosi la maschera nera, scoprì la maschera bianca. -
Balzò fuori allora, come per arte d'incanto, la figura del tenore Amorevoli. -
Sua la faccia, sua la statura, suo tutto. Quanti erano là il riconobbero, e la
contessa non potè comprimere un grido, e cadde.
La maschera si ricoprì tosto.
- Ora, voi tutti che siete qui, esclamò, potete attestare
qual fu la donna per cui Amorevoli fu arrestato; e, detto questo, s'involò tra
la folla, e scomparve.
Noi crediamo che il lettore avrà, presso a poco, compreso da
un pezzo in che doveva consistere la trama onde Lorenzo Bruni aveva pensato,
con un mezzo per verità illecito, di far uscire la verità allo scoperto.
Era da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in
pubblico persino otto balli alla settimana, si era introdotta la perversa
invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da pittori esperti e da
plasticatori, rendevano al vivo la sembianza
di chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si copriva con
un'altra maschera qualunque, la quale, levata con destrezza, lasciava intravedere
il volto imprestato che stava sotto, e che ricoprivasi tosto, onde impedire si
potesse conoscere l'inganno. Questa moda dalla Francia si diffuse tosto in
Italia, e segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono
furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì altamente. Giovani
scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a ingannar donne e donzelle
inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e mariti, traevano in insidia donne e
amanti creduli, dal che derivarono vendette e delitti.
E due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa
di Choiseul, che, rimasta vedova, s'era invaghita d'un giovane cavaliere, con
atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il marito defunto, ond'ella ne
prese tale raccapriccio e sgomento, che, caduta ammalata, morì poi di
consunzione. Perciò nella Francia stessa s'eran pubblicati editti e pene gravi
contro questa invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di
Venezia, e nel marzo dell'anno 1749 era uscita pure a Milano, in conseguenza di
gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la seguente ordinanza:
"L'eccellentissimo governatore, avendo, con sua
gravissima indignazione sentito il pessimo e colpevole uso che si è fatto da
taluni male intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere
ritratti, ha ordinato che ne sia assolutamente vietata ed interdetta la
fabbrica e l'introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni di carcere,
da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con male suggestioni
l'esecuzione, come a chi vi prestasse l'opera dell'arte e della mano per danaro
o per qualunque altro compenso. Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali,
al pretorio e ai giusdicenti.
Milano, 12 marzo 1749."
Al grido, alla caduta, allo svenimento della contessa si
fermarono le danze, fu fatta tacere l'orchestra, accorsero ad onde uomini e
donne da tutte le parti, accorsero le dame dalla sala vicina e la sorella della
contessa e la del Grillo; e tosto il fratello, i parenti, gli amici, ultimo il
conte V..., la comparsa del quale compresse a tutti la parola in bocca, sicchè
fu il solo che, per il momento, non seppe nulla, e potè così ajutare la
contessa, quando si riebbe, a recarsi in palchetto. - Scoppiarono allora le
dicerie come una eruzione vulcanica. Da quel punto del ridotto all'ultimo
angolo del teatro si propagò, colla rapidità della luce, la notizia che il
tenore Amorevoli era in teatro; si propagò la notizia ch'era venuto per
vendicarsi della contessa V...; che le tresche del tenore erano impegnate con
lei e non con la Gaudenzi; e insieme colla notizia corsero e serpeggiarono e
s'intersecarono gli stupori; le incredulità, le osservanze, le testimonianze,
le persuasioni, le ire, le ingiurie contro quella donna che, dicevasi, alla
superbia insopportabile aveva potuto congiungere anche una detestabile
ipocrisia; e colle nuove ire e le nuove ingiurie versate contro la nuova
vittima, cominciarono i pentimenti d'aver a torto fischiata la ballerina, la
vittima di due sere prima, e i propositi di rimettere in piedi quell'idolo
stato rovesciato, e d'andare a cercarla e di portarla a casa in trionfo.
E intanto quella notizia era giunta all'orecchio del signor
giudice del Pretorio, che si trovava precisamente nel palchetto del signor
segretario del Senato. - Còlto come da un colpo di fulmine, e balzato in piedi
al sentire che il tenore Amorevoli era venuto in teatro, chiamò un de' tenenti
che sopravvegliavano al pubblico, e lo mandò ad assumere informazioni, mentre
il segretario del Senato, indarno trattenuto dal signor giudice, che voleva
prima verificar la cosa e aveva paura d'una solenne sgridata, si recò, pago di
farsi apportatore d'una straordinaria novella, nel palchetto
dell'eccellentissimo governatore, dove trovavasi il presidente del Senato. Essi
erano già informati di tutto, e facevan chiose e commenti, e già avean mandato
a domandare il giudice stesso del Pretorio, che diffatto venne, pochi momenti
dopo, tutto confuso a protestare com'egli aveva lasciato il tenore Amorevoli
sotto buona custodia. - Tutti stettero perplessi ad aspettare il tenente ch'era
corso al Pretorio, il quale, sollecito e ansioso, era salito dal custode delle
prigioni, e con esso era entrato nel camerino dove Amorevoli giaceva sdrajato
sul letto tra un mezzo sogno e una mezza veglia. E il tenente ebbe l'ingenuità
di interrogarlo se mai fosse uscito per recarsi al teatro, per il che il tenore
sospettò avesse quel zelantissimo ufficiale dato di volta al cervello.
Allora il tenente, felice che non si fosse verificato lo
scandalo d'un prigioniero fuggito, si trovò d'aver gambe velocissime al pari
d'un lacchè, e giunto tutto trafelato al teatro, fu introdotto al palco delle
loro eccellenze ad annunciare, con gran contento del giudice, ma con nuovo
stupore di tutti, che il tenore Amorevoli non era mai uscito dalla sua cella e
che quei del ridotto dovevano aver preso uno strano abbaglio. Fu chiamato
pertanto il conte Pertusati, uno de' cavalieri ispettori del palco, il quale si
maravigliò che il governatore dubitasse della sua asserzione; e furono fatti
venire testimonj più di parecchi: tutti si misero la mano al petto, protestando
di aver la vista perfetta e la testa sulle spalle. Governatore, presidente,
giudice almanaccarono a lungo. Che è? Che non è? Cosa può essere stato? Pensa,
ripensa e torna a pensare... Ma, quasi contemporaneamente, nella testa del
presidente del Senato e del giudice del Pretorio sorse quel sospetto, che
poteva spuntare anche più presto, perchè l'uso delle maschere-ritratti non era
che del carnevale passato, e l'ordinanza non gli era posteriore che di nove
mesi. Appena messo fuori quel sospetto, fece tosto presa nella testa del
governatore conte Pallavicini, il quale fattolo diventar certezza, sentì il
diritto di salire in furore, e d'ordinare al signor giudice che praticasse
tosto e in tutti i modi possibili le più rigorose indagini per scoprire i
contravventori dell'ordinanza.
Quando il giudice uscì dal teatro, la primissima luce bigia
dell'alba si confondeva già colle torcie dei lacchè che attendevano, presso le
carrozze, i loro padroni. In una parte era uno schiamazzo assordante di evviva;
in un'altra, vicino a una carrozza, ferveva un alterco vivacissimo tra due
gentiluomini su cui si projettava la luce delle torcie dei lacchè.
Il giudice domandò che significasse quel rumore da un lato e
quel contrasto dall'altro, e gli fu risposto come alcuni giovinotti
accompagnavano a casa, colle torcie a vento, la Gaudenzi in trionfo; e che
l'alterco era tra il conte V... e suo cognato, perchè non s'era più trovata in
nessun luogo del teatro, nè in palchetto nè altrove, la contessa sua moglie, e,
mandato il lacchè a vedere al palazzo, nessuno l'aveva vista ritornare. Il
giudice che aveva il pensiero ai contravventori, non badò a tal fatto più che
tanto, e s'affrettò al Pretorio, dove spiccò tosto gli ordini, perchè si
mandassero a chiamare tutti i pittori della città di Milano senza perder tempo.
E anche noi senza perder tempo diremo, che non batteva il mezzodì, che già il
pittore Clavelli, semplice e schietto,
invitato a comparire e interrogato, confessò la cosa, e nominò il violino per
il ballo del teatro Ducale. Questi, non trovato in casa, come si seppe che
praticava presso la ballerina Gaudenzi, colà appunto fu cercato e trovato ed
arrestato, con nuovo dolore e spavento e lagrime della Gaudenzi, la quale, pur
troppo, cominciava ad essere visitata dalla sventura.
Così nell'ora trista del tramonto di quella tristissima
prima domenica di quaresima, il destino di cui abbiam veduto a scintillare in
alto l'occhio beffardo, potè contemplare a un punto solo quattro scene
dolorose: una sala del palazzo V... in cui il conte passeggiava innanzi e
indietro, rapidissimo, mentre il furore che lo divorava per la scoperta
dell'infedeltà di quella che aveva riputata irreprensibile, gli si svolgeva in
cuore e gli si tramutava in un sentimento spasmodico di pietà e di
costernazione, all'idea che la contessa era scomparsa e non si sapeva nè dove
nè come, onde mille orridi timori gli straziavano l'animo; e nella sala stessa,
la contessa madre sedeva immobile, coll'occhio impietrito e spaventato, intanto
che la contessina piangeva dirottamente, e il conte fratello stava ritto in
gran pensiero, guardando macchinalmente da un finestrone nella via sottoposta.
Altrove poi, la povera Gaudenzi teneva appoggiato il bel volto sulle spalle
della zia che, costernata, osservava la nipote costernata, mentre più lontano,
in una povera casupola di legno, una vecchia, la madre del pittor Clavelli,
pareva fatta stupida, all'annunzio che l'unico figliuolo era stato trattenuto
prigioniero; e nella casa in contrada Borromeo, donna Paola Pietra, tenendo una
lettera spiegazzata sulle ginocchia, volgeva gli occhi al cielo, esclamando con
un sospiro profondo: Ahi sventurata!
E tutto ciò per un muricciolo saltato... e colui che era
stata la cagione prima e sola di tanto disordine, attendeva placido in quel
punto, ne' suoi vasti latifondi, ad esaminare un prospetto di conti
presentatogli dal maggiordomo, di cui la somma totale veniva a dire che
l'entrata dell'illustrissimo signor conte era di lire milanesi duecent'ottanta
mila, a non contare due diritti d'acqua, che potevano fruttare altre lire venti
mila annue.
|