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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO SECONDO
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VII

Dobbiamo saltare alcuni giorni dal tempo in cui avvennero le cose che noi raccontiamo; per ora non son che giorni, ma in seguito ci accadrà di saltar mesi ed anni e olimpiadi e lustri, e non è del tutto improbabile che si debbano saltar via anche decenni. Egli è a questo modo che il lettore potrà farsi capace della possibilità di passar in rivista gli avvenimenti di cento anni in un sol anno; perchè, se dovessimo continuare a tener dietro ai giorni colla fedeltà di un calendario, converrebbe venire a patti colla morte, tanto a chi scrive come a chi legge; la qual cosa, quand'anche fosse possibile, non sarebbe certo un buon affare... parliamo per noi; de' lettori non sappiamo. Tornato ora a' nostri personaggi, a quelli segnatamente che vennero arrestati, il tenore Amorevoli, Lorenzo Bruni, il pittore Clavelli, erano stati trasferiti al capitano di giustizia; di modo che il primo, dopo cinque giorni, e gli altri dopo ventiquattro ore, avean lasciato il Pretorio in santa Margherita. - Diciamo in santa Margherita, non già nell'odierno locale della Direzione di Polizia, perchè a quel tempo qui sussisteva ancora il convento delle monache Benedettine. Del rimanente codesto fatto del trovarsi il Pretorio nella contrada di santa Margherita, in quell'anno o in quel torno, noi lo abbiamo ricavato da alcune ordinanze e avvisi a stampa che abbiamo sott'occhio, ordinanze di quella classe, che, applicabili al momento fuggitivo, non v'è per consueto chi ne tenga conto, onde si perdono senza venir raccolte a fermare ne' libri una notizia stabile di un accidente passeggiero. E da tali ordinanze e avvisi abbiam potuto congetturare appunto, come nel locale assegnato pel Pretorio vi fossero pure delle celle suppletorie pei detenuti. Ognuno sa poi, che l'antico Pretorio non era che l'attuale palazzo dell'Archivio nella piazza dei Mercanti, e che erano i sedili per il Podestà, pei due giudici, così detti del cavallo e del gallo, i quali rendevan ragione nelle cause civili e criminali; infine pel giudice dei dazj e pel vicario, ecc. Ma tali ordini di cariche e di località, modificate, sebben lentamente, col tempo hanno fatto trasportare il Pretorio altrove, e, forse, per un provvedimento provvisorio, nella contrada di santa Margherita. E pare inoltre, che, alla metà del secolo passato, il Pretorio non serbasse tutte le sue antiche attribuzioni, ma ne avesse invece in gran parte di simili a quelle dell'odierna pretura urbana, con una sezione per le cause criminali.

Colà si instituivano i primi esami e si assumevano le prime informazioni, per passarle poi al capitano di giustizia; sebbene ci siano documenti pe' quali è provato che, anche solo dietro relazione definitiva del giudice pretore, o dei giudici del cavallo o del gallo, si passasse alla condanna degli accusati.

Ora, lasciando da parte cotali questioni che non hanno che qualche lieve rapporto colla natura de' fatti che noi raccontiamo, e desiderando solo voglia taluno stendere una descrizione della città nostra, che completi e continui quella del Lattuada, che si ferma al 1735; diremo che, se Lorenzo Bruni aveva tanto fatto per mettere a nudo la verità, e ben potea dire d'esserci riuscito nel modo il più trionfante, sebbene illecito, come que' capitani che vincono una battaglia per avere saputo ridersi del diritto delle genti; la verità, appena comparsa, fu trattenuta indietro a viva forza, e persino si tentò di farla scomparire, tanto che Lorenzo non aveva altra certezza se non questa, d'aver saputo trovar la maniera d'andar in prigione e di trarsi dietro il povero Clavelli, senza aver trovato poi quella di farne uscire Amorevoli. - Avendo esso, al primo interrogatorio, per le sue buone ragioni, confessato il fatto senza titubanza, e in conseguenza di ciò, essendo stato inviato, benchè in carrozza, perchè pagata da lui, al palazzo del capitano di giustizia, quando colà ebbe a subire il secondo interrogatorio, la sua condizione si venne terribilmente peggiorando. Fin dalle prime parole che gli rivolse l'attuaro, Lorenzo potè accorgersi, acuto com'era naturalmente e penetrativo e scaltrito dall'esperienza, che chi lo esaminava gli aveva una singolare avversione; perchè non era quella consueta severità del giudice verso il reo, ma una severità speciale, trovata e adoperata espressamente per lui, rinfocata dalla natura speciale di quella da lui commessa contravvenzione alla legge, e più che mai dall'intento di quella contravvenzione stessa.

La madre della contessa Clelia aveva un fratello senatore, la sorella del senatore era la moglie del marchese Recalcati, in quell'anno regio capitano di giustizia, uomo integerrimo e giurisperito profondo. Il marito della contessa aveva un fratello, il quale, avendo provato che la sua illustre casa erasi stabilita a Milano da più di un secolo, aveva potuto entrare nel collegio dei nobili dottori. Ora questo dottor collegiale era intrinseco del vicario di giustizia, carica corrispondente a quella che, se non oggi, alquanti anni or sono, chiamavasi di vicepresidente del tribunale criminale. Ognuno può imaginarsi quanto alla contessa madre e al conte marito e a tutto il parentorio premesse, se non l'innocenza di donna Clelia (ormai improbabile, perchè la di lei fuga aveva chiuse le porte a tutte le speranze), almeno l'apparenza di quella. Nei primi giorni adunque dopo la sua scomparsa, se calde e affannose e insistenti e continue furono le ricerche praticate dappertutto per poter scoprire dove ella si fosse ridotta; ricerche che, sino a quel punto, non avevano fatto altro che accrescere il dolore e la desolazione; furono calde e affannose del pari le pratiche, le preghiere, le insinuazioni che la sorella adoperò col fratello, che il cognato senatore fece pesare gravemente sulle spalle del cognato capitano, che il dottor collegiale, mediatrice l'amicizia, fece penetrare nelle ossa del vicario; e siccome eran tutta gente di legge, ossia gente avvezza, in mancanza d'un codice preciso e determinato, a giuocar di testa e d'acume e di sofismi e di cavilli nel labirinto inestricabile delle leggi statutarie, così non affaticarono a conchiudere, che, dopo tutto quello che era successo, non era ancora provato che donna Clelia fosse quel che si voleva che fosse; perchè dal suo labbro non era uscita confessione nessuna, essendo caduta in deliquio; che Lorenzo Bruni poteva, anzi doveva essere un briccone matricolato, e Dio sa quale scopo abbominevole aveva potuto proporsi, e forse della stessa scomparsa di lei poteva essere l'autore egli medesimo. È a notare però, che il senatore, il capitano, il vicario non avean fatto che ascoltare, e con aspetto di sapienza e di prudenza respingere le insinuazioni de' parenti e degli amici, terminando sempre i discorsi coll'intercalare obbligato: non si farà che la pura giustizia, e cogli intercalari accidentali: bisognerà vedere, bisognerà sentire; non si può aver riguardo a nessuno fosse il padre, fosse la madre. Ma in conclusione s'eran lasciati penetrare; perchè gli uomini bisogna che paghino il tributo degli uomini, e nelle questioni di sangue e di parentado e di ceto e d'onore, quando le instituzioni non sono imposte da una giustizia che sia veduta da tutti i lati e in pubblico, il sentimento provoca il sofisma, e il sofisma l'arbitrio, e tutto a nome del giusto e del retto, e tutto senza che l'onestà dell'uomo prevarichi, perchè non è sempre questione di cuor guasto, ma di testa conturbata.

Crediamo sia inutile di dire come, nel secolo passato, nel sistema della giurisprudenza pratica, e segnatamente del così detto processo criminale, non si fosse fatto alcun passo oltre il secolo XVII. (Ci riferiamo a questo secolo, perchè i lettori, nella disquisizione legale di Manzoni intorno alla colonna infame, avran potuto farsi una idea della condizione della giurisprudenza a quel tempo). Non v'era un codice scritto ben discusso, ben formulato e ben determinato in nessun paese. Le leggi statutarie e il diritto romano e le varie interpretazioni dei legisti costituivano tutto il capitale giuridico tanto di un dottor collegiale, come di un senatore. Ed era da quattro secoli che ciò continuava, senza che nessuno si accorgesse che quel sistema fosse irrazionale; irrazionale del pari e assai meno popolare di quello che avea a lungo durato nel feudale medio evo. Diciamo assai men popolare, perchè prima del secolo XIII le cause criminali si trattavano in pubblico, onde, come dice Sclopis, manifesta era l'accusa, pubblico l'esame de' testimoni, aperta e libera così l'interrogazione come la difesa del reo. Ma nel secolo XIII l'eresia suggerì nuove forme d'inquisizione, e, all'uso de' tormenti preparatori, che fu il crudele sistema di prove introdotto dallo studio delle leggi romane (il quale, del resto, per tutte le altre parti era stato così benefico), s'accoppiò il segreto nell'orditura del processo. Che se in prima il processo segreto era invalso soltanto nelle questioni ereticali e in via di eccezione, col tempo si diffuse e si allargò a tutte le cause civili e criminali, e come regola costante. In Mario Pagano, in Meyer, in Sclopis ognuno può vedere tutte le forme originate da questo principio, e come, essendosi voluto corroborare la coscienza morale del giudice colla così detta coscienza giuridica sottoposta al calcolo della probabilità, si fosse edificato un corpo di dottrina falso e pieghevole ad ogni maniera di assurdi e di arbitrj. Per queste cose, tanto nelle cause criminali, come anche nella trattazione delle cause civili, se il giudice o l'avvocato o il patrocinatore che sosteneva un assunto o lo contrastava, era dotto, acuto e dialettico, e se per avventura tra la dottrina, l'acume e l'eloquenza lavoravano la passione, l'ostinazione o l'errore implacabile del giudizio, allora la legge statutaria, il diritto romano, e l'interpretazione dei giuristi facevan la figura e subivan la sorte delle tre palle sotto al bossolo del giocoliere. Per il che ognuno può considerar com'eran degni di pietà coloro dalla cui parte era la ragione. Se poi una tale pratica di giurisprudenza era comune a tutt'Italia e a tutt'Europa, ciascuno Stato vi recava alcune sue forme proprie addizionali, e alcune sue proprie modificazioni di vita e di costumi, le quali rendevano ancor più inestricabile il labirinto degli arbitrj. Per fermarsi a Milano, nel secolo XVIII, oltre al sistema del processo segreto invalso dappertutto, e al diritto romano, e ai commenti dei legisti, la città si regolava ancora cogli statuti e colle costituzioni criminali di Carlo V; ma v'era un fatto che, quand'anche il sistema generale fosse stato ottimo e gli statuti di Carlo V i migliori possibili, era tale da mettere ogni cosa in disordine; ed era che il campo della giurisprudenza giudiziaria era tenuto e padroneggiato con mano tenacissima, meno qualche rara eccezione, dal solo ceto patrizio.

Il collegio dei dottori era costituito per la maggior parte di nobili. - Da questo collegio, che era, quasi diremmo, un vivaio perpetuo di capacità giuridiche più o meno profonde, uscivano quasi sempre i giudici del cavallo e del gallo, il giudice del Pretorio, il vicario, il capitano di giustizia, i senatori, il presidente del Senato. - Abbiamo un elenco manoscritto dei capitani di giustizia dal 1750 al 1783, da cui risulta, che tutti appartenevano alle principali case della città. Si poteva pertanto quasi dire, che la giurisprudenza fosse a Milano una proprietà di famiglia. Ora, se a questo fatto si aggiunga quello de' privilegj ancora sussistenti, ognun vede come poteva camminare il vero diritto, concesso pure che quei patrizj avessero teste di bronzo e cuori pietosissimi; e potessero, per un prodigio della natura e della fortuna, aver tutti la testa, per esempio, di Farinaccio, e la carità squisita, per esempio, di san Francesco d'Assisi. Ma oltre ai legami, abbastanza forti del ceto, v'eran quelli della parentela. Bensì qualche volta s'intromettevano le rivalità e i puntigli e gli odj antichi tra casato e casato: ma questo non era già un mezzo di equilibrio, sibbene un'occasione nuova di poter offendere la giustizia in un altro modo.

Ma torniamo a' nostri personaggi.

Nella prima metà del mese di marzo, Lorenzo venne condotto dal barigello al banco dell'auditore, per essere sentito in un secondo esame. Messo a sedere innanzi al banco, il Bruni stette attendendo con impazienza che l'auditore, il quale era intento a sfogliar carte, gli rivolgesse la parola. Era ansioso di sapere se gli avevano destinato un protettore. I protettori de' carcerati (Protectores carceratorum) erano giovani causidici, che esordivano la carriera assumendo la difesa degli accusati. Eran nobili per la maggior parte anch'essi e bisognava che passassero attraverso a questa pratica per poter avere il diritto di essere ascritti col tempo al collegio dei dottori. Le difese si scrivevano in lingua latina o in lingua italiana, e così venivano presentate al capitano di giustizia per passar poi anche in Senato.

Quando l'auditore alzò la testa, volse a Lorenzo uno sguardo tale da fargli temere il peggio; poi disse:

- Persistete voi dunque nell'asserire che la causa per cui avete ricorso ad una abbominevole astuzia, al fine di trarre in insidie la nobilissima signora contessa Clelia V..., sia stato il desiderio di stornare il disonore dalla vostra protetta?

- Non posso che persistere, perchè è la pura verità.

- Vogliate però considerare che la cosa è inverosimile, e che una tale inverosimiglianza ci consiglierà gravi misure.

- La verità è una sola, rispose Lorenzo con un certo sdegno, e mi pare d'avere già esposto suffizienti argomenti per togliere ogni altro sospetto dalla testa del signor giudice. Torno a ripetere che, dal momento che la giustizia trovò d'escluder dagli esami, non so per che sue ragioni, precisamente la donna che sola era stata la cagione di trarre a mal partito il signor Amorevoli, io mi trovai in dovere di illuminarla; prima di tutto perchè trovavo ingiusto e insopportabile che una virtuosa ragazza avesse taccia di disonestà per colpa altrui; in secondo luogo perchè dal momento ch'io potei intravedere che la nobilissima signora contessa avea potuto aver la debolezza...

- Vi intimo di adoperar parole più rispettose.

Lorenzo tacque un momento, come per respingere un leggiero soprassalto d'indignazione, poi soggiunse:

- Io ho l'obbligo di difendere me stesso. È un obbligo santo come un altro, poichè ciò che mi s'ingiunse qui è di dire la verità. Però se, quand'anche con un mezzo riprovevole ma il solo tuttavia che m'era possibile, ho potuto mostrare a tutto il pubblico da che parte stesse la colpa, io non so in che modo debba nominare la signora contessa, quando per necessità devo parlare di lei.

L'auditore lo guatò bieco, senza far motto.

- Siam tutti di carne umana, soggiunse poi Lorenzo sempre più indispettito, e non è detto che una nobil dama non possa avere una qualche debolezza... il signor auditore mi perdoni la parola.

- Non è più questa la cosa di cui si tratta. Già nel primo esame avete scagliato abbastanza vituperj contro il rispettabile ceto patrizio.

- Io non ho offeso nessuno. Ho detto solo che una povera fanciulla non doveva portar la pena delle colpe altrui, e che, mi perdoni il signor auditore l'amore della verità, la giustizia non doveva avere nessun riguardo alla nobiltà della signora contessa; e dal momento che non aveva dubitato d'interrogare tutte le donne che possibilmente avean avuto parte nel fatto, non c'era nessuna ragione per cui dovesse omettersi precisamente quella, sotto alle cui finestre era succeduto l'arresto del signor Amorevoli. Se gli uomini che tengono il sacrosanto mandato di rappresentare la giustizia avessero fatto il loro dovere, io non mi sarei trovato al punto di offendere la legge. Questo solo ho detto e dovevo dire, per mostrare, d'altra parte, che se ho dovuto ricorrere a un mezzo proibito, fu per un fine retto.

- Un fine retto?... esclamò allora l'auditore rompendo le parole all'accusato; rispondete, ora a questa domanda: - Chi ha fatto scomparire dalla sala, dal teatro e dal palchetto la nobile signora contessa, di cui non si è ancora potuto scoprir traccia?

Questa domanda riuscì così improvvisa e inaspettata al povero Bruni, ch'ei ne rimase colpito, e tanto più in quanto d'un colpo d'occhio ne misurò tutta l'estensione pericolosa. Ma soggiunse poi subito:

- Cosa poss'io sapere di quel che sia avvenuto della contessa?... Dio faccia che non sia successa una disgrazia... Ma se ella è scomparsa e fuggita, il motivo ne è così chiaro, che non se ne può cercare un altro.

- Il motivo n'è tanto chiaro, che la giustizia v'intima adesso di addurre le prove onde convincerla che non siete stato voi a far scomparir dal teatro la contessa.

Lorenzo Bruni stette un momento silenzioso poi ripigliò:

- Tocca a chi mi accusa di questo fatto, per me impossibile e assurdo, a produrre le prove, non a me. Io non posso dir altro, se non che dopo lo svenimento della contessa, avvenuto per l'effetto delle mie parole e della creduta presenza del tenore Amorevoli, io non l'ho veduta più, e non seppi che alla mattina com'ella era scomparsa dal teatro e dalla casa, e non la si ritrovava in nessun luogo.

- La giustizia potrà rendervi ragione in seguito, ma per ora, essendo voi il solo interessato ai danni della nobile contessa, la giustizia è in obbligo di metter voi in istato di accusa per un tal fatto.

Lorenzo, a questo dire, si turbò forte e non trovò parole, sospettando come nell'impegno, forse assunto, di stornare il disonore della contessa e dal suo casato e da quello del marito, si era determinato di prender lui di mira in ogni modo, gettando nel pubblico false voci e false accuse.

- Cosa dunque potete aggiungere al già detto?

- Nulla... Io non posso che ripetere sempre le stesse parole. Io non vidi mai più la contessa dal momento che cadde svenuta.

- Quand'è così, voi sapete quali mezzi tiene in serbo la giustizia per fare in modo che una bocca pronunzii la verità.

E l'auditore, suonato il campanello, ingiunse al custode di ricondurre il Bruni nella sua prigione.

Partito Lorenzo, l'auditore si alzò, e prendendo il processo verbale dalle mani d'un assessore:

- Nessuno, disse, mi leverà dalla testa che costui sia un iniquo matricolato - E con tali parole sulle labbra, e coi relativi pensieri nella testa, si mosse per recarsi nell'aula dell'eccellentissimo signor capitano di giustizia. Quando fu nell'anticamera e già stava per farsi annunziare, gli mosse incontro una livrea dell'illustrissimo signor capitano marchese Recalcati, e:

- Per ora non si può entrare, gli disse.

- Perchè non si può... ?

- Perchè...

Ma in quella si fecero intorno all'auditore molti notaj e assessori e scrivani che si trovavano , e:

- Sapete, gli dissero, chi fu ammesso or ora all'udienza dell'illustrissimo signor capitano?...

- Che cosa posso saper io?... chi dunque?...

- Non lo indovinereste in mill'anni. Quella venerabile matrona che tutti conoscono, donna Paola Pietra.

- Ma che relazioni può avere una tal donna colla giustizia?

- Chi lo sa?

- Gli è molto che sta col capitano?

- Se non è di più, non è di meno di un'ora... Chi sa mai cos'è avvenuto di strepitoso?

Ma in questo punto s'udì una lunga scampanellata dalla camera del capitano, e accorse le livree ad aprir l'uscio, comparve sulla soglia donna Paola, la quale uscì, attraversando l'anticamera tra gl'inchini riverenti di quanti eran .

L'auditore allora si fece annunziare, ed entrò dal capitano con una faccia tutta giuliva.

- Ecco il processo verbale del nuovo esame a cui oggi fu assunto Lorenzo Bruni. Ho tali indizj, che mi danno la convinzione possa costui essere il colpevole del trafugamento della contessa.

A queste parole il signor capitano non fece motto, e preso il foglio dalle mani dell'auditore, contro l'aspettazione di quel giudice zelante, non disse nulla, e lo licenziò severissimo.

Ora ci rimane a sapere per qual fine donna Paola Pietra abbia domandato un'udienza al capitano di giustizia, e che cosa sia avvenuto della bella e sventurata donna Clelia.

 




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