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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO TERZO
    • V
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V

Rousseau, il quale asserì che l'uomo lasciato in balia della sua vergine natura, è una perla immacolata, e che dai bisogni fittizj inventati dalla società fu tratto ad inventare egli stesso quei delitti contingenti e convenzionali che, variando di tempo e di luogo, possono persino esser chiamati virtù, come il furto in Atene; non pare abbia voluto esaminare tutti i casi in cui l'uomo, anche nel fitto della società, si trova in pieno arbitrio della sua natura liberissima; tra le altre cose, non ha saputo applicare la sua potente riflessione ai fenomeni d'una bisca.

Una casa da giuoco è un microcosmo; in essa l'uomo appare in tutta la nudità de' suoi istinti. Nella Francia contemporanea di Rousseau, lo spettacolo di un gran re, intento a passar le notti, non animato che dalla speranza di spogliare i ciambellani e i confidenti, doveva bastare a far vedere al sublime lipemaniaco di Ginevra che non sono sempre i bisogni quelli che fanno sviluppare sulla testa umana il bernoccolo della rapacità.

Ma ciò, anche prima della storia di Francia, era provato dalla storia di Roma e dall'esempio d'Augusto che, padrone di tutto il mondo, pure si compiaceva se l'oro di Mecenate passava nelle sue mani; e dall'imperatore Claudio, che affidava ai dadi il destino perfin di quattrocentomila sesterzj, e dai patrizj romani, che, ad onta che il giuoco fosse multato d'infamia, giocavan persin nei comizj, persino in Senato; tanto è vero che l'uomo, per saziare il suo naturale istinto, combatte contro la medesima civiltà, e fa il ladro per diporto; chè non a torto ha detto un acuto scrittore inglese: Essere il giuoco un furto mascherato.

Queste riflessioni le facciamo pensando al ridotto di San Moisè in Venezia, dove, meno i giuochi d'azzardo che ad ogni momento venivan proibiti dagli illustrissimi Correttori, indizio manifesto che non eran sempre obbediti, tutto camminava di maniera da far credere che gli uomini non avessero altra destinazione a questo mondo che quella di passar la vita giuocando. Quel ridotto, che doveva diventar celebre in conseguenza de' suoi peccati, e meritare di venir soppresso, come vedremo, aveva una libreria al pari di un istituto di scienze e lettere; una libreria, intendiamoci bene, tutta di opere relative al giuoco; tra queste primeggiavano il Ludus chartarum seu foliorum, di Lodovico Vives, stampata a Parigi nel 1545; Le carte da giuoco, del P. Menestrier; La giurisprudenza del giuoco, di Lucio Marineo Siculo; Il tarocco, di Gebelin; L'invettiva contro il tarocco, di Lollio Ferrarese; i numeri del Giornale di Trévoux, dov'erano le ricerche storiche sulle carte da giuoco; il capitolo del Berni, intitolato Il giuoco di primiera; Le carte parlanti, di Pietro Aretino; Il trionfo del tresette; la Piazza universale di tutte le professioni - ed altre opere molte, che venivano consultate nei gravissimi casi dubbj.

Quel ridotto era zeppo d'illustrissimi della seconda e della terza qualità, e in mezzo ad essi, da qualche giorno, aveva fermato l'attenzione il giovane gentiluomo milanese, signor Andrea Suardi, pel coraggio onde giuocava le più grosse somme e per la sua meravigliosa virtù a vincere dieci volte su dodici. Ma come potevano quegli illustrissimi patrizj di Venezia gettar le loro notti, ed esser tuttavia parati alle gravi cure del governo, della pace e della guerra? Non confondiamo le idee: a Venezia vi avevano più qualità di patrizj, ovvero sia due qualità ben distinte quella dei tutto facenti, e quella dei nulla facenti. Dal che Gradenigo aveva decretato come statuto fondamentale - che niuno fosse mai più eletto eleggibile a sedere nel gran consiglio, da quelli in fuori che allora vi si trovavano; - che il loro privilegio sarebbe eredità ai loro discendenti in perpetuo; - che eleggerebbe dal suo corpo tutte le magistrature di Stato; dal che codesta aristocrazia s'andò sempre più concentrando in oligarchia, che persino ai figli del doge fu tolto di poter coprire ogni magistratura: lasciato alle poche famiglie vetustissime il monopolio del potere trasmissibile di padre in figlio in perpetuo, tutta la rimanente nobiltà - che era numerosa, e alla quale in Venezia non rimaneva altro scopo alla vita che l'uso e l'abuso di essa, e l'uso e l'abuso della ricchezza - dov'era gentilezza d'ingegno, ell'erasi data all'esercizio delle arti; dove no, proruppe ai godimenti, e con tanta sfrenatezza spensierata con quanta riflessiva e longanime rigidezza gli oligarchi si tenevan saldi al potere; rigidezza riflessiva, e che fomentava quel viver leggiero e svagato dei discendenti di coloro ch'erano stati chiamati uomini nuovi al tempo della prepotenza di Pierazzo Gradenigo, pel motivo che non erano più temibili quelli che per costume s'indebolivano nell'inerzia. E tanto più si erano a questa ragione di vita abituati i nulla facenti, sia che fossero discendenti degli esclusi dal gran consiglio, o figliuoli dei vetusti pantaloni, o piantaleoni nelle terre conquistate, o figli del doge esclusi dalla magistratura, quanto più, comportandosi in tal guisa, vivevano tranquilli della sospettosa vigilanza del tribunale segreto, che più del capo di Buona Speranza e del Mediterraneo abbandonato e della politica spostata, fu causa che si spegnesse la potenza espansiva di Venezia; spenta la qual potenza si troncarono di colpo gli elementi generatori della sua perpetuità. Fin da quando, dopo la forzata abdicazione di Foscari, il tribunal segreto rese amarissimo e pericoloso l'alto onore di recar servigj alla patria, da quel punto cominciò davvero la sua decadenza. Temettero i sospettosi oligarchi il possibile soverchiare del vero merito, temettero l'eccessiva potenza del doge, e l'uno e l'altro circuirono di arcane paure; ma non intravvidero la conseguenza finale di tutto ciò; non intravvidero che se i patrizj e i non patrizj, divagati agli ozj e alla voluttà, non potevano più far paura al Consiglio segreto, per la medesima ragione avrebbero cessato di far paura anche a tutta Europa, la quale non amò giammai Venezia, e la guardò sempre gelosamente; e che se ciò le poteva stornare i pericoli presenti, accumulava sovra di essa i pericoli futuri, rendendo bensì più lenta la sua caduta, ma facendola inevitabile.

Era dunque da quasi tre secoli che la vita interna di Venezia era una vita continua di godimento, che l'allegria de' suoi carnevali era divenuta proverbiale in tutt'Europa, che ai tavolini verdi delle case patrizie e dei pubblici ridotti l'oro aveva imparato a trapassare di mano in mano, con più velocità che altrove, pel decreto di una carta e della cieca fortuna. Che il giuoco poi abbia trovato accoglienza più forse a Venezia che in altri luoghi, sarebbe dimostrato da ciò, che taluno dei così detti giuochi d'azzardo fu invenzione di Veneziani; che un Giustiniani, ambasciatore della Repubblica a Parigi, vi portò per la prima volta la cognizione del giuoco della bassetta, il quale fu poi accolto trionfalmente a quella Corte, e onorato colà dagli uomini della scienza, che pubblicarono considerazioni e calcoli e intrapresero ricerche pazientissime su quel giuoco, sulle probabilità del guadagno e delle perdite.

Il Galantino aveva dunque fatto suo pro di quelle abitudini veneziane; e ricevuto al ridotto qual gentiluomo milanese da quell'ospitalità cortese che sempre distinse i Veneziani tanto d'allora che d'adesso, passava colà le sue notti. Ma siccome i giuochi che vi si tenevano non eran d'azzardo, essendo recentissima un'ammonizione dei signori Correttori; così a una cert'ora, in compagnia di molti gentiluomini, lasciava il tavoliere del tresette e il ridotto per trasferirsi al di di Rialto, nelle stanze di un umile caffè detto di Costantinopoli; e , fuori d'ogni sospetto, aperta la voragine del faraone e della bassetta, ei passava il resto della notte. Munito, quando recossi a Venezia, di molto danaro contante, il Galantino, giocatore tanto esperto che pareva aver gli occhi nelle dita, governavasi però prudentemente al ridotto, e in modo da lusingare con mille attrattive i suoi compagni di giuoco, perchè, rilasciato il freno all'avidità, non potessero andare a letto senza prima tuffarsi a piene voglie nel flusso e riflusso dell'azzardo.

Fornito d'oro, egli conduceva le cose in modo da tenere il banco di sovente; ed era un tagliatore di tanta destrezza che in pochi giorni erasi messo insieme una bella sommetta. - La notte a cui ci troviamo con questa narrazione, era la terza d'aprile, ed egli più del consueto era stato favorito dall'audacia e dalla fortuna: onde, in sull'alba, quando uscì da quell'umile caffè, dopo aver bevuto una tazza d'appio, volle assaporare il piacere d'una passeggiata solitaria, spingendo uno sguardo allegro in seno all'avvenire, e scorgendovi già, di mezzo alla nebbia rosata, prospettive di palazzi con macchiette di parassiti intorno a , e cocchi e cavalli e tutte le grandezze della vita. Se ne veniva così per ponti e per calli, guardando sbadatamente case ed altane, e sogguardando alla sfuggita le portatrici d'acqua pienotte, già in volta a quell'ora; fin che riuscito al campo Santo Stefano, volse il passo alla casa ove dimorava; ma in quel punto scorse due uomini appoggiati al muro, due uomini che non avrebbe voluto vedere, perchè eran due cappe nere del palazzo Ducale. Diede una rapida occhiata all'intorno, e vide non molto lungi due guardie che passeggiavano, facendo d'occhio di tanto in tanto alle due cappe. - Così queste come le guardie potevano trovarsi per tutt'altro, ma il Galantino sentì la certezza che aspettavano lui; gli era come quando uno si sente colto da un malore anche lieve durante un morbo contagioso; che in quel malore, provato spesso senza turbarsi, sente con isgomento il sintomo fatale. Galantino si fermò un istante su due piedi, come per fare una rapidissima consulta fra e ; poi, considerato che non c'era a far nulla, mosse difilato, sebbene con placida lentezza, verso la porta della sua casa. - Fu allora che le cappe, venutegli incontro:

- È ella, domandarono, il signor Suardi Andrea di Milano?

- Sono io per l'appunto; in che posso ubbidirle?

- Voglia venir con noi un momento a palazzo.

- Subito?

- Senza perder tempo. Questo è l'ordine.

Il Galantino, con viso calmo, con occhio blando, guardò alle due cappe, e:

- Io sono pronto, disse, quantunque non abbia dormito la notte... Ma vogliano permettere ch'io mi serva della mia gondola...

- La gondola è già pronta.

- Allora eccomi qui.

Vennero al rio; la gondola e i gondolieri avevano lo stemma di palazzo. Il Galantino fu pregato di mettersi a sedere sotto il felze; le cappe nere stettero fuori. I remi toccarono l'acqua, e via.

 




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