V
Rousseau, il quale asserì che l'uomo lasciato in balia della
sua vergine natura, è una perla immacolata, e che dai bisogni fittizj inventati
dalla società fu tratto ad inventare egli stesso quei delitti contingenti e
convenzionali che, variando di tempo e di luogo, possono persino esser chiamati
virtù, come il furto in Atene; non pare abbia voluto esaminare tutti i casi in
cui l'uomo, anche nel fitto della società, si trova in pieno arbitrio della sua
natura liberissima; tra le altre cose, non ha saputo applicare la sua potente
riflessione ai fenomeni d'una bisca.
Una casa da giuoco è un microcosmo; in essa l'uomo appare in
tutta la nudità de' suoi istinti. Nella Francia contemporanea di Rousseau, lo
spettacolo di un gran re, intento a passar le notti, non animato che dalla
speranza di spogliare i ciambellani e i confidenti, doveva bastare a far vedere
al sublime lipemaniaco di Ginevra che non sono sempre
i bisogni quelli che fanno sviluppare sulla testa umana il bernoccolo della
rapacità.
Ma ciò, anche prima della storia di Francia, era provato
dalla storia di Roma e dall'esempio d'Augusto
che, padrone di tutto il mondo, pure si compiaceva se l'oro di Mecenate passava
nelle sue mani; e dall'imperatore Claudio, che affidava ai dadi il destino
perfin di quattrocentomila sesterzj, e dai patrizj romani, che, ad onta che il
giuoco fosse multato d'infamia, giocavan persin nei comizj, persino in Senato;
tanto è vero che l'uomo, per saziare il suo naturale istinto, combatte contro
la medesima civiltà, e fa il ladro per diporto; chè non a torto ha detto un
acuto scrittore inglese: Essere il giuoco un furto mascherato.
Queste riflessioni le facciamo pensando al ridotto di San
Moisè in Venezia, dove, meno i giuochi d'azzardo che ad ogni momento venivan
proibiti dagli illustrissimi Correttori, indizio manifesto che non eran sempre
obbediti, tutto camminava di maniera da far credere che gli uomini non avessero
altra destinazione a questo mondo che quella di passar la vita giuocando. Quel
ridotto, che doveva diventar celebre in conseguenza de' suoi peccati, e
meritare di venir soppresso, come vedremo, aveva una libreria al pari di un istituto
di scienze e lettere; una libreria, intendiamoci bene, tutta di opere relative
al giuoco; tra queste primeggiavano il Ludus chartarum seu foliorum, di
Lodovico Vives, stampata a Parigi nel 1545; Le carte da giuoco, del P.
Menestrier; La giurisprudenza del giuoco, di Lucio Marineo Siculo; Il tarocco,
di Gebelin; L'invettiva contro il tarocco, di Lollio Ferrarese; i numeri del
Giornale di Trévoux, dov'erano le ricerche storiche sulle carte da giuoco; il
capitolo del Berni, intitolato Il giuoco di primiera; Le carte parlanti, di
Pietro Aretino; Il trionfo del tresette; la Piazza universale di tutte le
professioni - ed altre opere molte, che venivano consultate nei gravissimi casi
dubbj.
Quel ridotto era zeppo d'illustrissimi della seconda e della
terza qualità, e in mezzo ad essi, da qualche giorno, aveva fermato
l'attenzione il giovane gentiluomo milanese, signor Andrea Suardi, pel coraggio
onde giuocava le più grosse somme e per la sua meravigliosa virtù a vincere
dieci volte su dodici. Ma come potevano quegli illustrissimi patrizj di Venezia
gettar le loro notti, ed esser tuttavia parati alle gravi cure del governo,
della pace e della guerra? Non confondiamo le idee: a Venezia vi avevano più
qualità di patrizj, ovvero sia due qualità ben distinte quella dei tutto
facenti, e quella dei nulla facenti. Dal dì che Gradenigo aveva decretato come
statuto fondamentale - che niuno fosse mai più eletto nè eleggibile a sedere
nel gran consiglio, da quelli in fuori che allora vi si trovavano; - che il
loro privilegio sarebbe eredità ai loro discendenti in perpetuo; - che
eleggerebbe dal suo corpo tutte le magistrature di Stato; dal dì che codesta
aristocrazia s'andò sempre più concentrando in
oligarchia, che persino ai figli del doge fu tolto di poter coprire ogni magistratura:
lasciato alle poche famiglie vetustissime il monopolio del potere trasmissibile
di padre in figlio in perpetuo, tutta la rimanente nobiltà - che era numerosa,
e alla quale in Venezia non rimaneva altro scopo alla vita che l'uso e l'abuso
di essa, e l'uso e l'abuso della ricchezza - dov'era gentilezza d'ingegno,
ell'erasi data all'esercizio delle arti; dove no, proruppe ai godimenti, e con
tanta sfrenatezza spensierata con quanta riflessiva e longanime rigidezza gli
oligarchi si tenevan saldi al potere; rigidezza riflessiva, e che fomentava
quel viver leggiero e svagato dei discendenti di coloro ch'erano stati chiamati
uomini nuovi al tempo della prepotenza di Pierazzo Gradenigo, pel motivo che
non erano più temibili quelli che per costume s'indebolivano nell'inerzia. E
tanto più si erano a questa ragione di vita abituati i nulla facenti, sia che
fossero discendenti degli esclusi dal gran consiglio, o figliuoli dei vetusti
pantaloni, o piantaleoni nelle terre conquistate, o figli del doge esclusi dalla
magistratura, quanto più, comportandosi in tal guisa, vivevano tranquilli della
sospettosa vigilanza del tribunale segreto, che più del capo di Buona Speranza
e del Mediterraneo abbandonato e della politica spostata, fu causa che si
spegnesse la potenza espansiva di Venezia; spenta la qual potenza si troncarono
di colpo gli elementi generatori della sua perpetuità. Fin da quando, dopo la
forzata abdicazione di Foscari, il tribunal segreto rese amarissimo e
pericoloso l'alto onore di recar servigj alla patria, da quel punto cominciò
davvero la sua decadenza. Temettero i sospettosi oligarchi il possibile
soverchiare del vero merito, temettero l'eccessiva potenza del doge, e l'uno e
l'altro circuirono di arcane paure; ma non intravvidero la conseguenza finale
di tutto ciò; non intravvidero che se i patrizj e i non patrizj, divagati agli
ozj e alla voluttà, non potevano più far paura al Consiglio segreto, per la
medesima ragione avrebbero cessato di far paura anche a tutta Europa, la quale
non amò giammai Venezia, e la guardò sempre
gelosamente; e che se ciò le poteva stornare i pericoli presenti, accumulava
sovra di essa i pericoli futuri, rendendo bensì più lenta la sua caduta, ma
facendola inevitabile.
Era dunque da quasi tre secoli che la vita interna di Venezia
era una vita continua di godimento, che l'allegria de' suoi carnevali era
divenuta proverbiale in tutt'Europa, che ai tavolini verdi delle case patrizie
e dei pubblici ridotti l'oro aveva imparato a trapassare di mano in mano, con
più velocità che altrove, pel decreto di una carta e della cieca fortuna. Che
il giuoco poi abbia trovato accoglienza più forse a Venezia che in altri
luoghi, sarebbe dimostrato da ciò, che taluno dei così detti giuochi d'azzardo
fu invenzione di Veneziani; che un Giustiniani, ambasciatore della Repubblica a
Parigi, vi portò per la prima volta la cognizione del giuoco della bassetta, il
quale fu poi accolto trionfalmente a quella Corte, e onorato colà dagli uomini
della scienza, che pubblicarono considerazioni e calcoli e intrapresero
ricerche pazientissime su quel giuoco, sulle probabilità del guadagno e delle
perdite.
Il Galantino aveva dunque fatto suo pro di quelle abitudini
veneziane; e ricevuto al ridotto qual gentiluomo milanese da quell'ospitalità
cortese che sempre distinse i Veneziani tanto
d'allora che d'adesso, passava colà le sue notti. Ma siccome i giuochi che vi
si tenevano non eran d'azzardo, essendo recentissima un'ammonizione dei signori
Correttori; così a una cert'ora, in compagnia di molti gentiluomini, lasciava
il tavoliere del tresette e il ridotto per trasferirsi al di là di Rialto,
nelle stanze di un umile caffè detto di Costantinopoli; e là, fuori d'ogni
sospetto, aperta la voragine del faraone e della bassetta, ei passava il resto
della notte. Munito, quando recossi a Venezia, di molto danaro contante, il
Galantino, giocatore tanto esperto che pareva aver gli occhi nelle dita,
governavasi però prudentemente al ridotto, e in modo da lusingare con mille
attrattive i suoi compagni di giuoco, perchè, rilasciato il freno all'avidità,
non potessero andare a letto senza prima tuffarsi a piene voglie nel flusso e
riflusso dell'azzardo.
Fornito d'oro, egli conduceva le cose in modo da tenere il
banco di sovente; ed era un tagliatore di tanta destrezza che in pochi giorni
erasi messo insieme una bella sommetta. - La notte a cui ci troviamo con questa
narrazione, era la terza d'aprile, ed egli più del consueto era stato favorito
dall'audacia e dalla fortuna: onde, in sull'alba, quando uscì da quell'umile
caffè, dopo aver bevuto una tazza d'appio, volle assaporare il piacere d'una
passeggiata solitaria, spingendo uno sguardo allegro in seno all'avvenire, e
scorgendovi già, di mezzo alla nebbia rosata, prospettive di palazzi con
macchiette di parassiti intorno a sè, e cocchi e cavalli e tutte le grandezze
della vita. Se ne veniva così per ponti e per calli, guardando sbadatamente
case ed altane, e sogguardando alla sfuggita le portatrici d'acqua pienotte,
già in volta a quell'ora; fin che riuscito al campo Santo Stefano, volse il
passo alla casa ove dimorava; ma in quel punto scorse due uomini appoggiati al
muro, due uomini che non avrebbe voluto vedere, perchè eran due cappe nere del
palazzo Ducale. Diede una rapida occhiata all'intorno, e vide non molto lungi
due guardie che passeggiavano, facendo d'occhio di tanto in tanto alle due
cappe. - Così queste come le guardie potevano trovarsi là per tutt'altro, ma il
Galantino sentì la certezza che aspettavano lui; gli era come quando uno si
sente colto da un malore anche lieve durante un morbo contagioso; che in quel
malore, provato spesso senza turbarsi, sente con isgomento il sintomo fatale.
Galantino si fermò un istante su due piedi, come per fare una rapidissima
consulta fra sè e sè; poi, considerato che non c'era a far nulla, mosse
difilato, sebbene con placida lentezza, verso la porta della sua casa. - Fu
allora che le cappe, venutegli incontro:
- È ella, domandarono, il signor Suardi Andrea di Milano?
- Sono io per l'appunto; in che posso ubbidirle?
- Voglia venir con noi un momento a palazzo.
- Subito?
- Senza perder tempo. Questo è l'ordine.
Il Galantino, con viso calmo, con occhio blando, guardò alle
due cappe, e:
- Io sono pronto, disse, quantunque non abbia dormito la
notte... Ma vogliano permettere ch'io mi serva della mia gondola...
- La gondola è già pronta.
- Allora eccomi qui.
Vennero al rio; la gondola e i gondolieri avevano lo stemma
di palazzo. Il Galantino fu pregato di mettersi a sedere sotto il felze; le
cappe nere stettero fuori. I remi toccarono l'acqua, e via.
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