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Giuseppe Rovani Cento anni IntraText CT - Lettura del testo |
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VIII Due palazzi egualmente celebri, che portano il nome dei Pisani, vi sono in Venezia; quello a San Paolo, che ha la facciata rispondente sul Canal grande; e quello in Campo San Stefano. Il primo, appartenente a quello stile archi-acuto veneziano che ha per distintivo caratteristico il foro quadrilobato interposto agli archi, ma che nei pilastri bugnati e nel basamento accenna alle prime transazioni tra l'arte del medio evo e il ritorno dello stile romano, è lodato per l'eleganza nativa dell'ordinamento generale del primo stile e la felice libertà degli innesti del secondo. Ma il palazzo Pisani di San Stefano è bestemmiato dalla critica più recente, che lo chiamò un'insignificante montagna di pietre sagomate. Ognuno ha i suoi gusti, e noi, sebbene troviamo pessima di stile la facciata di questo palazzo, giudichiam d'altra parte degnissima di meraviglia la gigantesca grandiosità di tutto l'edificio; i cortili a molti piani di poderosa struttura, le scale, gli appartamenti, le sale che ancora oggi, pur nel tristo abbandono in cui giaciono, fanno rimpiangere allo spettatore quell'avito splendore ove al tempo nostro è infranta affatto la tradizione. Nelle opere dell'arte, segnatamente dell'architettura, la grandiosità dell'impianto e l'audacia del concetto sono elementi che non ponno essere disprezzati, bastando soli a dare importanza agli edifizj. La miscela di più forme, i giuochi di parole, i bisticci, le freddure onde pur sono offese le composizioni drammatiche di Shakespeare, non tolgono ch'egli giganteggi su tutti coloro che non straripano perchè non hanno fantasia che rigurgita. D'altra parte quella miscela ha un valore, se non per l'arte almeno per la storia di essa, almeno per le significanze ch'ella serba in molte parti della storia generale. I drammi di Shakespeare sono l'enciclopedia storica della grammatica inglese, chè cento autori portarono le diverse loro acque a quell'oceano; e il medesimo può dirsi di alcune opere dell'edilizia, fatte innalzare da più volontà e da ingegni diversi, che serbano le varie impronte dei tempi in cui hanno operato; onde se il gusto squisito, contemplando il tutto, si offende, non essendo preoccupato che delle linee e delle forme; l'intelletto abbracciando invece più elementi, non resta offeso dalle forme imperfette, perchè si lascia preoccupare dai varj significati che offre l'edificio. Nel vetusto San Marco, la meraviglia massima delle meraviglie veneziane, è una mescolanza di tutti gli stili e di tutte le idee che quegli stili, secondo alcuni, dovrebbero rappresentare - l'arte cristiana vi transige colla pagana, le incondite stranezze dell'impero basso contaminano spesso i simboli cristiani, la cupola orientale gira sugli archi latini, la colonna greca posa sulle costruzioni bizantine. - La critica inesorabile che è fida al bello assoluto e lo trova nella sola unità poderosa, s'indispettisce di tali mescolanze; ma v'è quell'altra critica più grande, più intellettuale, più liberale, che trova quell'edificio d'un valore inestimabile, per le sue varietà appunto, e perchè l'architettura essendo un libro di granito, come disse il poeta, tanto più quel libro è prezioso, quanto più fatti ricorda della storia di un popolo. Tutte queste nostre chiacchiere vorrebbero dire che anche il grandioso palazzo Pisani, imperfetto, difettoso, senza carattere deciso, ha un merito, se non in faccia alla critica dell'arte, in faccia a quella della storia, e che per ciò i Pisani che lo hanno fatto innalzare e continuare, non hanno mal speso i denari, come taluno ha detto. Cominciato alla metà del 1500 dal Sansovino, fu compiuto quasi due secoli dopo dal vicentino Frigimelica, onde codesto edificio, esaminato in tutte le sue parti, presenta tutte le vicende della grandezza veneziana negli ultimi suoi secoli, e dei trapassi del gusto, rappresentati da vari architetti. Che se anche oggi, pur nell'abbandono in cui è lasciato, serba ancora qualche significato, si figura il lettore quel che nel secolo passato dovesse parere al visitatore intelligente, in uno di quei giorni in cui la ricchezza del proprietario Alvise Pisani lo apriva alla folla dei patrizj e delle altre classi distinte; quel che dovesse parer nella notte in cui lo dischiuse per festeggiare l'arrivo del conte Algarotti, il quale in quel tempo, per straordinario beneficio di fortuna, sedeva re di tutti i regni delle scienze e delle arti. Erano le tre ore di notte; risplendevano tutte le finestre della facciata che guarda il Campo San Stefano. Le due statue oziose, che stanno a' fianchi della maggior porta, avevano avuto anch'esse in quella sera l'incarico di portare un gran fanale sulla testa; risplendeva tutto il lato del palazzo che guarda il rio; e più servi con torcie a vento stavano sulle due scalee per cui si ha accesso al palazzo da quella parte appunto; era tutta illuminata la lunga calletta per la quale il palazzo ha una comunicazione col Canal grande, sulla scalea della quale stavano pure altri servi con torcie a vento per ajutare lo sbarco dalle gondole accorrenti. Dalla parte del campo venivano a frotte di due, di tre, di quattro gentiluomini e gentildonne, preceduti dai servi col lampione. Il Canal grande, per quanto spazio misura la linea di due o tre palazzi, era tutto pieno di gondole con gondolieri schiamazzanti ad aprirsi la via, chi verso l'approdo della calletta, chi verso il rio interno. Gl'invitati che veniano dal campo, s'incontravano nell'atrio con quelli che arrivavano dal rio; e quand'erano forestieri o veneti di terra ferma, si soffermavano a guardare il leone rampante scolpito, che era lo stemma di casa Pisani, colla spada da un lato, la mazza e l'elmo dall'altro; e i fanò delle galeazze che già avevano rischiarate le vittorie del glorioso Vittor Pisani. Tutti costoro poi si incontravano nell'ultimo cortile con quanti vi approdavano dal canale, e insieme salivano lo scalone e, d'una in altra anticamera, entravano nella maggior sala, la cui vôlta, dipinta dal Guarana, è sorretta da molte colonne corinzie, oggi mostranti il gretto legno, allora tutte splendide d'oro nel capitello, nelle scanalature, nella base. In quella sala v'era uno scompartimento apposito per l'orchestra e pei clavicembali. L'accademia, dovendosi incominciare ad ora più tarda, la folla dei visitatori traeva di sala in sala ad ammirare gli sfoggi straordinarj di quel palazzo e di quegli appartamenti: i dipinti di Tiepolo, del Tiepoletto, del Canal, del Rizzi, del Cignaroli; i damaschi, i sopraricci, gli arazzi della fabbrica privilegiata, allora celebratissima, delle sorelle Dini, le quali ritraevano un assegno annuo dalla stessa Repubblica. E segnatamente si trattenevano ad esaminare a parte a parte le ricchezze d'ogni guisa che risplendevano nella così detta sala d'Apollo dipinta a chiaroscuro dall'Amigoni bergamasco. Se non ci tormentasse la noja delle descrizioni, onde amiamo dipingere a sguazzo con pennello scenografico e in istile piazzoso, piuttosto che col pennello minuto dei Fiamminghi, vorremmo riprodurre così al vivo il palazzo Pisani di dentro e di fuori in quella serata musicale, che il lettore dovrebbe confessare che oggidì per questo lato la ricchezza par miseria; e quando pure dà il caso che taluno voglia sfidare il passato per superarlo, non riesce che ad essere la scimia che imita il padrone, e provoca il riso invece della meraviglia; perchè c'è una cosa, che distingueva i nostri buoni vecchi, ed è l'armonia che univa la loro persona e i loro vestiti colle proprie abitazioni, le suppellettili, gli addobbi, le tappezzerie, gli ornati, le pitture onde si circondavano. Oggi invece il cilindro del secolo decimonono copre una testa colla barba di Carlo V, o i mustacchi a coda di topo di Tamerlano. Oggi il monotono e gretto frack di panno nero, e i calzoni attillati del marito, si smarriscono nelle volute e nelle sinuosità del guardinfante risuscitato dalla moglie ingrossata. Oggi il signore sotto i soli d'Italia porta il soprabito di guttaperca, che ci fa sentire il ribrezzo delle nebbie inglesi impregnate di filigine; mentre poi sul serpe della carrozza parigina il cocchiere reca l'impronta di una vecchiezza anticipata sotto la parrucca a tre giri del senator Tredenti; e nelle case la stessa sconcordanza perpetua, e negli addobbi e negli ornati sempre una ricchezza senza logica e che rinnova l'immagine oraziana del mostro equino. Rifacendoci coi nostri personaggi, a tre ore di notte Amorevoli portossi al palazzo Pisani, dove s'incontrò in Luchino Fabris, musico di gran merito, imitatore fortunato del celebre Egiziello. Essi eransi trovati insieme viaggiando più volte, e avevano stretta amicizia; ma, per combinazione, non eran mai stati scritturati a cantare insieme nè in un medesimo teatro nè in una città medesima, onde si conoscevano per fama, e avevano il desiderio di sentirsi a vicenda. - Ho caro assai di vederti qui, disse il Fabris ad Amorevoli, e finalmente udrò la tua voce. - Ed io avrò il dispiacere di fartela sentire in un cattivo momento, disse Amorevoli. Non sto niente di lena, e cento cose mi dan noja. - So tutto, amico mio, ma sono ingredienti quelli che non scemano punto il colorito al canto. Tu vedrai la contessa, e... Amorevoli finse di aver preoccupata l'attenzione a qualche oggetto, e non rispose. - Credo bene che la bella lombarda verrà stanotte qui, come s'è mostrata altrove in questi giorni addietro... Ma tu guardi Apollo in quadriga, e non ci senti da quest'orecchio. Pure, se tu taci, tutti parlano. Dammi dunque retta. Sento che c'è qui il marito della contessa... - Anche questo si sa? - E che mai? pretenderesti forse che del duello col giovine Emo non fosse trapelato nulla, quando cameriere e cuoco e guattero sono stati testimonj della scena? - E come si racconta la cosa? - Sta tranquillo; tu ci fai buonissima figura. Ma ora si vuol sapere come riuscì il duello... è il discorso di tutti... Non sai nulla tu? - Nulla affatto. Sono andati in Terra Ferma, fuori un tratto del territorio della Serenissima per scansare certa legge che li avrebbe colpiti. Però non se ne sa nulla ancora. Lasciamo dunque che tutto vada a beneficio o maleficio di fortuna; e dimmi chi è quel cosino là smilzo e pallido, colla collana e il medaglione e la croce in petto... Tu hai cantato per due stagioni l'una dopo l'altra a Venezia... e questa che s'innoltra sarà la terza... Devi dunque avere la città tutta quanta in sul palmo, e saper vita e miracoli di ciascuno come un barbiere. - Davvero che di questa città ormai conosco il dritto e il rovescio come se fosse la mia giubba. Ma non domandarmi chi sia colui, perchè non l'ho mai veduto nè qui, nè altrove, nè in piazza. Dicendo questo il Fabris si volse a chi gli passava presso, e chiese il nome di quel gentiluomo. - Chi è colui? rispose l'interrogato con un sorriso secco e amaro. Ma gli è forse permesso ignorarlo? Esso è nientemeno che il re della festa. - Chi? il conte Algarotti? - L'Algarotti... sì signori... plebeo di Venezia, conte di Prussia, ciambellano di S. M. il Re Federico, cavaliere del Merito, consigliere intimo del Re di Polonia, consultore del duca di Savoja, di quello di Parma, del Papa; membro di tutte le università, socio di tutte le accademie che furono, che sono e che saranno: astronomo, poeta, pittore, architetto, suonatore di violino... Di molti si suol dire che cosa è... di costui bisogna dire che cosa non è... Tuttavia quel ch'ei valga davvero, lo si conoscerà da qui a cinquanta e meglio ancora da qui a cento anni. Intanto ha la tosse, e un polmone che si rifiuta a fare il suo solito servizio. Padroni riveriti. Così dicendo, quel gentiluomo si mescolava tra folla e folla. - Che costui sia un qualche letterato o poeta, razza invidiosa e malefica? disse il musico Fabris, il quale scontrandosi in quel punto faccia faccia con un uomo tutto vestito di nero, alto e magro, ch'ei ben conosceva: - Signor abate, disse, vorrei sapere il nome di quel giovinotto lì alto e stecchito, con cui testè ho parlato e che or sorride a quella dama. - Se non amate ch'altri vi tagli i panni addosso, fate di scansarlo... Egli è il conte Carlo Gozzi, il quale ha il cervello fatto di fegato, onde se schizza fiele e bile ad ogni parola, la cosa è naturale. - Addio Luchino, e via. - Chi è questo prete? domandò Amorevoli al Fabris. - È il celebre abate Chiari. - Ma perchè non presentarmi a lui, che lo avrei ringraziato? - Di che? - Del favore che da qualche anno mi fa tutte le notti. Sullo stipo accanto al letto io tengo sempre una tazza d'acqua di gomma e un romanzo dell'abate. Prima di dormire bevo due goccie di gomma, e leggo due pagine di romanzo. La gomma mi fa morbida la gola, le pagine mi fan morbido il sonno. Se mi sveglio, bevo altre due goccie di gomma e leggo due altre pagine di romanzo; così conservo la voce e la salute, rintuzzando la veglia. Se c'incontriamo ancora in lui, ti prego di presentarmi. È un mio benefattore. - Se tu metti i suoi romanzi insieme coll'acqua di gomma, buon padrone. Ma non si fa così a Venezia; parlo delle donne e del pubblico che legge avidamente i suoi libri; che corre in folla alle sue commedie, e schiamazza d'entusiasmo; e lo supplica a dar sempre qualcosa di nuovo; e sì che l'abate sembra una fontana intermittente, che cala per crescer sempre, e annaffia tutti quanti; eppure tutti si senton arsi. A questo punto un maggiordomo della casa s'accostò al Fabris, significandogli che il signor conte padrone chiedeva di lui e dell'amico suo. Questi lo seguirono nella massima sala, dove il conte Alvise Pisani sedeva accanto al conte Algarotti, intorno al quale facevano ampia corona molte persone. V'era il Canaletto, a lui particolarmente devoto per la protezione che ne aveva avuto. Esso tornava allora dall'Inghilterra, dove aveva raccolto molto danaro; e dalla Sassonia, dov'erasi recato a portarvi due suoi quadri per interposizione appunto dell'Algarotti, il quale aveva avuto incumbenza dall'Elettore di acquistar opere ad arricchire la galleria di Dresda. Con lui stava discorrendo l'amico suo Tiepolo, quegli che di stupende macchiette gli ornava le prospettive animandole di vita e rendendole più importanti per lo studio dei costumi e delle foggie. Il Tiepolo era tornato di fresco da Milano, dove avea dipinta la vôlta della maggior sala in casa Clerici. De' letterati, v'era il Gozzi Gaspare, e il senatore Seghezzi, il quale stava in quel punto presentando all'Algarotti un fanciullo di undici anni, autore in quella così giovane età di due o tre poesie in dialetto veneziano, che aveano fatto il giro della città. Ed era quel Gritti che doveva poi riuscire nel vernacolo veneziano ciò che il Maggi era stato nel milanese. Ma di tutti mancava il primo, mancava il Goldoni, il quale era andato a Torino a mettere in iscena il Molière. L'Algarotti dava belle e graziose parole a tutti, ma con quel fare di affabilità convenzionale che, se indispettiva fieramente Carlo Gozzi, non piaceva troppo nemmeno al più mite Gaspare, che giuocava di scherma coi complimenti onde il conte gli era cortese riguardo alla fondazione di quell'accademia de' Granelleschi che, fin dal 1740 iniziata per celia e portando sempre la maschera della matta giovialità, nel fatto era però diventata il conservatorio della buona lingua italiana. - Ella, signor conte, mi dà lodi che son dovute ad altri, così diceva Gaspare Gozzi. Ecco il vero fondatore dell'accademia, il suo massimo sostegno, il suo principe perpetuo; e dalla schiera circostante, pigliando pel braccio un pretino rachitico, lo presentò al conte dicendogli: - Questi è il celebre abate Sachellari, l'arcigranellone; si provi, signor conte, a interrogarlo, e sentirà parole di sapienza. Quel Sachellari era un originale curiosissimo, pieno di goffaggine e di orgoglio. Quando parlava faceva smascellar tutti dalle risa, e più quando recitava gli stolidissimi suoi scritti. Tuttavia quello scimunito aveva data l'occasione perchè si adunassero le migliori intelligenze di Venezia. In prima era stata una gara a chi lodavalo di più con componimenti berneschi; poi da quella gara nacque la celebre accademia in cui risplendette più che mai l'ingegno, la vena poetica, il brio, lo spirito satirico di Gaspare Gozzi. - La testa di costui, caro Algarotti, è come quella de' miei detrattori. Chi diceva tali parole era il padre Carlo Lodoli, che nel convento di san Francesco della Vigna teneva aperta scuola privata a molti giovani patrizj e facoltosi, ed era stato maestro anche all'Algarotti. Istrutto in molte scienze e lingue e nell'arte architettonica, egli aveva ottenuta grande rinomanza per avere tentato di distruggere tutti i principj fin allora invalsi nell'architettura, negando obbedienza all'autorità, detronizzando Vitruvio, e introducendo quella filosofia architettonica, che turbò di sottigliezze e astruserie le menti, onde per libidine di opposizione fece poi più tenaci dell'imitazione gli architetti pratici. Del resto, quelle parole ch'esso aveva pronunciate erano dirette a due architetti là presenti: il Poleni che avrebbe battuto moneta falsa per Vitruvio, e il Temanza che aveva scritto un opuscolo contro di lui e di quelle, secondo il parer suo, dementi dottrine. Il Temanza non rispondeva, e ammiccava allo zio Scalfurotto, l'architettore di san Simone Maggiore, mentre ridevan tra loro il Massari, che stava in quel tempo edificando i Gesuati, ed il Lucchesi che eresse san Giovanni in Oleo e l'Ospedaletto di san Giovanni e Paolo. Per altro se il Temanza s'accontentava d'ammiccare e tacere e lasciar che svampasse l'iracondo e dotto frate, dipendeva da ciò, ch'ei sapea assai bene come nessuno desse ragione al suo avversario, mentr'egli era lodato ed ammirato dai più celebri architetti ed archeologhi d'Italia, ed invitato dai più facoltosi patrizj di Venezia, delle cui mense ei teneva gran conto, perchè s'egli era celebre come architetto civile e idraulico, lo era pure come insaziabile mangiatore. Ma il conte Pisani, visti il Fabris ed Amorevoli, li presentò in prima all'Algarotti, poi al P. Vallotti, il celebre maestro suonator d'organo del Santo di Padova, ed a Tartini, e disse loro: - Or tocca a voi. A momenti sarà qui il doge e il procuratore Foscarini e i signori Dieci, e converrà incominciare. Il maestro Galuppi, che in que' giorni era passato a Venezia a concertarvi l'opera in musica, si alzò, e volgendosi con grande rispetto al P. Vallotti, il quale allora era stimato nell'arte dei suoni quel che oggi il professor Bordoni è stimato nella scienza dei numeri, lo supplicò a volere esaminare i pezzi di musica da eseguirsi in quella sera. Vallotti si volse a Tartini, e: - Avete visto, voi? gli disse. - Io conosco la musica che devo eseguir io, dell'altra non so. Ma chi ha a cantare dee far quello che più gli piace. - Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla musica di camera non si mescolasse mai la musica di teatro. - Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate Stefani, disse Amorevoli. - Ecco un artista di buon senso. - Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di Vinci, e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere accontentato anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille comprendono la musica teatrale, anche perchè l'hanno sentita ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più ammaestrato dall'esperienza. - È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti. - Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la stizza del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto sopportar la lettura di quel suo trattatello sulla musica. Ma l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda opposizione, ma sorridendo blandamente: - Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual siete voi. L'Algarotti era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re filosofo, la cui filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era stato col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con tutte le altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben fare che quei grandi uomini avevano lui in conto d'uomo grandissimo. La società di mutuo incensamento non è una invenzione di questi ultimi anni. Essa fioriva anche nel secolo passato, e l'Algarotti ne poteva a buon diritto essere il presidente. Ma intanto che i signori virtuosi maschi e femmine, e i signori maestri di musica e i signori professori di violino, di viola, di violoncello, di contrabasso, di clarino, di clarone, di fluta, d'oboè, ecc., recavansi nello scompartimento a loro assegnato nella gran sala delle colonne; il maggiordomo e i camerieri facevano un giro per gli appartamenti dov'erano disperse le dame co' loro cavalieri, onde invitarle a sedere nella gran sala. E in poco tempo s'eran tutte infatti messe a seder là in più file disposte a semicerchio intorno al seggiolone del doge e della dogaressa, press'a poco come le deità dell'Olimpo intorno al Giove nel quadro d'Appiani. E per verità ch'era quello un nuovo olimpo, olimpo terrestre e palpabile, migliore assai del mitologico. Olimpo di ricchezza, di splendore, di gioventù e di bellezza. Amorevoli, che stava più in alto sulla gradinata dell'orchestra, innanzi al clavicembalo, volse lo sguardo in quella via lattea di pupille tremule; ma nella patria dei grandi occhi lucenti non vide gli occhi che cercava. La contessa Clelia non c'era. L'estro, che un momento prima lo aveva eccitato, leggendo col P. Vallotti un madrigale erotico del Clari, gli svampò in quell'infelice ricerca e chinò la testa avvilito. In quel punto entrava il doge che, girata intorno la testa e messosi a sedere vicino al conte Alvise, tosto gli domandò con grande sollecitudine: - Non avete ancora veduta la contessa Clelia V... di Milano? Or che relazioni potesse avere il doge Grimani colla contessa e qual cosa lo sollecitasse a di lei riguardo vedremo fra poco.
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