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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO QUARTO
    • IX
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IX

Se il labirinto dedaleo in cui, senza sua colpa, si trovò impigliata la contessa Clelia, non fosse un fatto incontrastabile, che fece parlar tanto i nostri buoni vecchi cento anni fa, e che una secca mano registrò in carta grossa; perchè il tempo e l'umido de' muri solitari non bastasse a distruggerla, e così potesse pervenire alle mani di un postero incapace di custodire i segreti; se tal fatto adunque non fosse una verità irrefragabile, noi gli avremmo negata ogni fede quando lo avessimo udito da uno di quegli uomini avvezzi a inventar frottole. Perchè, passi pure tutto quello che fin qui è avvenuto a Milano, passi la maledetta fortuna per cui un semplice dialogo tagliato in mezzo da un cancello e, fino ad un certo punto, anche innocente, mise in piazza i pudibondi arcani di una gentildonna; mentre più spesso quella stessa iniqua fortuna sa conservare intangibile l'aureola penelopea a chi s'intrattiene a lungo in dialoghi senza cancello; passi dunque tutto ciò, e passi la fuga, e passi il ricovero di Venezia: ma ciò che veramente ci fa intolleranti e fremebondi per quella sventurata contessa, è l'infesta combinazione della scrittura teatrale del tenore che cambiò la sede della malattia senza distruggerla, anzi aumentandola a più doppj.

Povera Clelia, seduta presso la finestra della sua camera, colla faccia mestissima e gli sguardi profondi rivolti macchinalmente al cielo, anzi alla luna, alla luna fredda e incapace d'intenerirsi per nessuno, mentre pure da tempo immemorabile si gode la fama di pietosa.

Povera infelice Clelia, gettata e trattenuta dalla fortuna tra un amante fatale e un marito funesto, in una terribile vicinanza e dell'uno e dell'altro; dell'uno e dell'altro, che pure coraggiosamente e fortemente avea fuggiti.

Almeno coloro che si picchiano il costato per ogni nonnulla, e sono inesorabili accusatori delle debolezze altrui, le vogliano tener conto, per tutto quello che potrebbe succedere in avvenire, di questa prima violenza usata contro sè stessa!

Chè anzi, nel punto ch'ella guardava la luna, stava precisamente compiendo contro sè medesima una seconda violenza. Se donna Clelia fosse cotta e stracotta dal desiderio di rivedere Amorevoli, lo pensino i giovinotti che non hanno ancora venticinque anni e che, per un occhiata, sì, per un'occhiata (anche noi abbiamo avuto i nostri verd'anni!) farebbero due volte di notte, non che una, il traverso dell'Ellesponto; lo pensino le fanciulle che non hanno innanzi agli occhi che un unico oggetto; lo pensino anche le donne che hanno più di venticinque anni e son compromesse in qualche pericoloso contrabbando, mentre la guardia di finanza batte la campagna. Donna Clelia dunque, ci rincresce dirlo, ma la verità è una sola, desiderava di vedere Amorevoli con un ardore, con tale ardore, che noi amanti della buona bottiglia e della coppa di manzo, non possiamo nemmeno concepire. Tuttavia, con sì smisurato ardore nell'animo, non si mosse dalla sua camera, e resistette agli inviti della moglie dell'illustrissimo conte Alvise Pisani. Non si mosse per non incontrarsi in colui, negli occhi suoi, per non sentir la sua voce, per non provocare nuovi parlari, per non essere cagione di nuovi scandali; nè si creda che la paura del marito abbia potuto influire sulle sue deliberazioni. No, al marito non pensava, nè poco nè assai; lo fuggiva colla mente, come allorquando si torcono gli occhi da una imagine disgustosa, e passava ad altro; onde il timore non potè mai padroneggiarla. Solo pertanto il fermo proposito di non voler vedere Amorevoli la trattenne in casa. Però se questa non è virtù, noi non sapremmo invero dove andarla a pescare. Seduta a canto a quella finestra, ella sentì suonar due, tre, quattr'ore al campanile di S. Polo, quando un cameriere venne ad annunciarle che il conte Alvise Pisani domandava d'essere introdotto.

Introdotto ch'esso fu:

- Mi rincresce, contessa, egli disse, d'essere stato costretto a rompere il silenzio della vostra camera. Ma voi non avete voluto appagare il desiderio vivissimo che avevamo della vostra presenza nella mia casa in questa sera; vi supplico a voler essere cortese all'invito che per mia bocca vi manda il doge.

- Il doge?... e che... non ho io nessuna volontà, caro conte, di occuparmi stasera in discorsi d'astronomia.

Perchè il lettore possa comprendere queste parole, dee sapere che il doge Grimani, uomo dottissimo, era particolarmente versato nell'astronomia, e però la prima volta che gli venne presentata, in un'altra serata musicale, la contessa Clelia, sapendo quant'ella fosse istrutta in codesta scienza, s'era compiaciuto di intrattenersi con lei in argomenti affini; e per quel discorso, che s'era prolungato più di quello che parea comportare una conversazione di diporto, esso avea fatto una così alta stima della contessa, che parlandone poi a molti, avea contribuito ad accrescere più che mai la voga in che era venuta la bella lombarda.

- Mi pare che non si tratti d'astronomia, rispose il conte Pisani. Il doge ha bisogno di parlarvi per cosa d'importanza.

- Il doge? ma perchè il doge? domandò allora la contessa alquanto turbata, e alzandosi da sedere.

- Vogliate essere tranquilla, contessa. Il doge non mi disse veramente di che si trattasse, ma il suo aspetto era calmo. Onde non è a temere di nulla. Forse, chi sa, sarebbe occorso che vi presentaste ai Dieci. Ma i Dieci e il doge hanno forse voluto cogliere l'occasione di un ritrovo quasi pubblico e di una spontanea intervista per potervi parlare. Del rimanente un tale desiderio del doge è noto a me solo. A voi pertanto non resta che di accettare l'invito della contessa mia moglie, e onorare l'accademia della vostra presenza, come naturalmente avreste dovuto fare se foste stata un po' più amica di noi.

La contessa stette un istante in silenzio, poi disse:

- Ebbene, verrò...

E un impeto di gioja occultamente le innondò l'animo; la gioja del trovarsi costretta a far quello che assolutamente non avrebbe mai fatto per sè stessa, ma che aveva desiderato con ansia affannosa.

Il conte Alvise partì. Ella chiamò le cameriere, e:

- Mi è forza andare in casa Pisani; ajutatemi come si può meglio e di gran fretta a vestirmi.

Ella tremava in tutta la persona, e il fuoco dalle membra convulse le era salito sul volto. La pupilla erasele fatta ardente più del consueto, e un raggio insolito le lampeggiava tra ciglio e ciglio.

A recarsi in casa Pisani per volontà propria erale in prima sembrato una colpa gravissima, onde s'era trattenuta in casa; ma le parole del conte Pisani le avean fatto parer quella visita un atto indispensabile; sicchè il desiderio le fece afferrare con cieca fidanza quel pretesto per illudersi da sè medesima. Non rifletteva, no, che, fermamente volendo, non aveva nessun obbligo di piegare nemmeno all'invito del doge. Ma provava un'esaltazione piena d'ebbrezza e quasi voluttuosa nel pensare d'aver quell'obbligo, e d'essere costretta a rivedere colui; d'altra parte, per le consuete arcane fantasie della mente, le pareva quello un decreto espresso del destino, e si consolava come di un presagio felice.

Non bastandole il tempo e mancandole la voglia, si scelse vesti e acconciatura semplicissima. Avvolse i capelli, che aveva in gran disordine e non potevansi così presto disporre a parata, in molti giri di una ciarpa di pizzo bianco di Gand, foggia allora parimenti usata; puntandola davanti in sul confine della fronte, con un grosso diamante che solo bastava a dar splendore ed aura d'Olimpo a tutta la figura, e senza più se ne uscì.

Venuta in Canal grande, erano affollate tante gondole nello spazio che correva presso al luogo dell'approdo dalla parte del canale, che il suo gondoliere piegò verso il rio e si fermò alla prima scalea.

La contessa discese, preceduta dal servo, e s'indugiò perplessa sotto l'atrio che mette allo scalone...

E soffrirò che sia

Sì barbara mercede

Premio della tua fede, anima mia?

Tanto amor, tanti doni!

Ah! pria ch'io t'abbandoni

Pera l'Italia, il mondo.

La prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo della Didone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore, portata a volo da quel medesimo do sopracuto onde Amorevoli la sera prima aveva fatto salire in furore il conte V... La contessa subì la sorte di chi s'affaccia per veder la battaglia, e senza più è colto nel petto da una palla che fischia. Fu per cadere, sì le forze le mancarono, a quella vibrazione sonora, e dovette appoggiarsi al servo.

Applausi frenetici seguirono quel do privilegiato, che aveva il dono della forza insieme e della soavità. E il recitativo continuò, e venne la cadenza alle parole Numi, consiglio, in cui la nota tenuta di un si bemolle di prodigiosa limpidezza e, come dicono i maestri, di argentina sonorità, attraversò gli spazi dell'aria, e non pareva voce da uomo, no, ma quella bensì di un essere soprannaturale, incaricato di dar qualche buona notizia ai mortali.

Insistiamo su codeste qualità della voce d'Amorevoli, in prima perchè i suoi contemporanei ne parlano come d'un fenomeno non mai più udito; poi per far comprendere ai lettori che non v'è nulla al mondo di più penetrante negli umani petti di una voce in quella chiave; intendasi sempre quando è bella, perchè non bastano i soli suoni a renderla pregevole. Molti uomini storici denno ascrivere la loro fortuna all'avere avuto in dono una voce in chiave di tenore. Il re Davide sarebbe stato trapassato dalla lancia di Saulle impazzito, s'egli non lo avesse placato col sol, col la e col si d'una soavità arcangelica. Eginardo lo storico fu per la stessa ragione se invaghì Emma, la figlia di Carlo Magno. Rizio e Monaldeschi erano tenori di mezzo carattere, e innamorarono due regine. Sarebbe però stato meglio per loro l'aver avuto tutt'altra voce, chè probabilmente sarebber morti in pace al loro letto. Ma ciò non significa nulla contro il nostro assunto. La voce di soprano sfogato ferisce le orecchie, ma non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il rispetto ma non l'affetto; ci sarebbe la voce di contralto, ma nei sùbiti trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i buoni successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. Il gobbo Tacchinardi, gobbo e nano, ed arieggiante più il mandrillo che l'uomo, potè ai suoi bei tempi dispiegare la lista di Don Giovanni, tanti capi femminili ei fece girare! chè l'orecchio, lusingato dal suono maliardo della sua voce, lavorava insidiosamente sugli occhi, innanzi a' quali, come a' tempi del mago Merlino, usciva il silfo dal nano, il genio alato dal diavolo colle corna. Dopo tutto, vogliam dire con ciò, che se una donna s'innamora d'un tenore, non pretenda di poter bere l'oblio nemmeno in Acheronte; e se qualche giovinotto ha per rivale un tenore, faccia conto d'esser tisico in quarto grado, e di dovergli senza più far la regolare cessione del suo tesoro.

Non creda però il lettore che codesta sia una malizia di chi scrive, per far le lodi della propria voce; tutt'altro; chi scrive ebbe in sorte la voce di basso; soltanto gli toccò in dono, quasi a titolo di compenso, un fa diesis squillante, di cui si giova per aver ragione nelle dispute fracassose cogli amici.

Ma tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d'Amorevoli, ella si trattenne sotto l'atrio premendosi il cuore, finchè il recitativo si svolse nell'aria:

Se resto sul lido,

Se sciolgo le vele,

Infido, crudele

Mi sento chiamar.

E intanto, confuso

Nel dubbio funesto,

Non parto, non resto -

Ma provo il martire

Che avrei nel partire,

Che avrei nel restar.

Dove appar chiaro come i fervori della passione congelassero nell'anima fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche, avverse al genio della poesia e del dramma.

Ma la musica di Vinci aveva l'abbandono e lo slancio e il sentimento che mancava a quelle strofe; e Amorevoli vi mise nel renderla la duplice virtù dell'arte più squisita e dell'animo il più ardente.

Donna Clelia, come i battimani rintuonarono nei cortili:

- Or si può ascendere, pensò, e fatto lo scalone, entrò nelle sale.

I servi di casa Pisani, che la stavano aspettando, mossero a dimandare il conte padrone, che accorse tosto a riceverla.

Preceduta da lui fece l'ingresso nella maggior sala. Il fremito dell'applauso e dell'entusiasmo recente che ancor durava là entro, cessò di colpo alla sua comparsa, e vi successe un profondissimo silenzio. Tutti gli occhi furono fissi in lei. Il conte Pisani, per toglierla dall'imbarazzo in cui la vedeva impigliata, si volse tosto al conte Algarotti dicendogli:

- Ecco la contessa Clelia V..., de' cui talenti avete sentito a parlare. E l'Algarotti si alzò e venne a sedersi vicino a lei. Anche il doge la guardò da lunge, con atto di affabilissima cortesia, e parve dirle:

- Ci parleremo dopo con maggior comodo.

La contessa intanto, rispondendo macchinalmente alle gentilezze del conte Algarotti, guardava di furto allo scompartimento dell'orchestra, dove Amorevoli era investito dalle congratulazioni de' suoi colleghi: da Luchino Fabris, dall'Aschieri, dalla Turcotti, dal P. Vallotti, che nella sua severità gli batteva una spalla in atto di protezione; dal violinista Tartini, uomo di febbrile vivacità, che ad attestargli la sua soddisfazione gli andava squassando un braccio. Nè Amorevoli erasi ancora accorto della comparsa di donna Clelia. Bensì il musico Fabris gli parlò all'orecchio, e l'avvisò dell'arrivo di lei.

Amorevoli si volse lentamente, quasi che non fosse fatto suo...

Medesimamente la contessa Clelia non fece atto nessuno, e stette immobile come un simulacro marmoreo. Solo incontraronsi i raggi delle loro pupille, e benchè gli astanti, che da quell'incontro s'erano atteso una catastrofe, dicessero fra loro: Bada ch'ei pare, non si conoscano nemmeno, pure l'effetto dell'incontro di que' raggi non può esser reso che in parte da quella strofa fremebonda della Parisina,

Un sospiro, un senso arcano

D'un amor maggior d'amore

Trapassò da cuore a cuore

E di gioja l'inondò.

Intanto il conte Algarotti andava circuendo di domande scientifiche la contessa, e d'una in altra notizia, rispondendogli ella pure alcun che macchinalmente, la intrattenne dell'astronomo Lieberkam conosciuto da lui a Dresda, quegli che nel 1743 aveva inventato il microscopio solare; e le parlò del celebre Clairut, colui che avea fatta la dimostrazione dello schiacciamento della terra, mediante l'attrazione e la forza centrifuga. E la contessa, alla sua volta, si trovò costretta a chiedergli conto di Bouger, l'inventore dell'astrometro, e ad informarlo d'un lavoro che in que' giorni il P. Frisi di Milano stava meditando sul moto diurno della terra, facendo uso dell'analisi geometrica di Newton, per mostrare che un tal moto non poteva essere impedito dalle maree. Ma se il microscopio e l'astrometro e la forza centrifuga e l'analisi geometrica di Newton fossero compatibili collo stato dell'animo di donna Clelia, ognuno lo può pensare.

 




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