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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO QUARTO
    • XI
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XI

Abbiamo lasciato il conte V... e il giovane Angelo Emo intenti ad adempire alle prammatiche preliminari di un duello: di questo mezzo assurdo di riparare le ingiurie, il quale, nato in seno alla barbarie, si è prolungato insino a noi, e vi s'è piantato in guisa che moralisti e filosofi e legisti non arriveranno forse mai a sradicarlo del tutto. Almeno i Barbari erano più logici di noi. Dipartivano bensì da una falsa premessa nell'assegnare i motivi a tale costumanza, ma, dopo la premessa, cessava l'assurdo e le deduzioni camminavano regolarmente. Nel duello, che per loro non era altro che un modo dei giudizj di Dio, essi ponevano per principio che la divinità avrebbe data la vittoria a chi aveva la ragione. Codesta credenza spiega la causa primitiva del duello, il quale poteva sussistere fin che le menti rimanevano acciecate dal pregiudizio; ma non si sa più conciliarlo con verun fine logico dal giorno che tutti furono persuasi che la vittoria dipende dalla fortuna e dalla vigoria, non mai nè dalla giustizia, nè dall'intervento divino. Anzi il fatto diventa ancora più inesplicabile quando si pensa che, precisamente allora che il mondo fu persuaso che Dio non interveniva in codeste prove a fiaccare il braccio di chi aveva torto, e a dar forza al debole che aveva ragione; precisamente allora, ossia nel secolo decimoquinto, quando la civiltà sembrò avviata verso la sua massima altezza, sorsero scrittori a decine per comporre quella che chiamarono scienza dell'onore e del duello.

I legisti di quel secolo, volendo giustificare il duello, si piantarono sull'idea dell'onore convenzionale, senza riguardo nessuno alle leggi invariabili della morale; onde i celebri giureconsulti Passevino, Paride del Pozzo, Baldi, Grimaldi e gli altri seguaci, offrono il miserando spettacolo della scienza intenta ad accrescere occasione alle aberrazioni dello spirito umano. Così il duello, nato spontaneamente in seno a popoli barbari, come un mal frutto d'una mala pianta, fu innalzato all'onore di sistema scientifico dalla civiltà, per cui l'errore insegnato dalle cattedre accrebbe i modi e i mezzi delle offese. Bensì quarant'anni prima del tempo in cui il nostro conte colonnello dovette accettare il guanto dal giovane Angelo Emo, quell'autorità dei vecchi legisti era stata messa in brani da un grande e coraggiosissimo ingegno, dal marchese Scipione Maffei, col suo libro della scienza cavalleresca, a cui appose il bel motto nos nostra corrigimus; e quel libro fece senso in Italia e fece senso in Francia, e trovò sostenitore del nuovo assunto Rousseau; e forse Luigi XIV, forte della sapienza dell'uno e dell'altro, multò il duello colla pena di morte, e instituì il tribunale de' marescialli; e il suo successore accrebbe nell'applicazione la severità alla lettera stessa dell'editto. Ma per quanto in quegli otto lustri si fosse fulminato e scritto e parlato contro il duello, il duello era tuttavia all'ordine del giorno; chè il prestigio del coraggio e dello spregio della morte consigliava indulgenza agli stessi esecutori della legge; e più spesso, non potendosi infrangerne il dettato, se un duello avveniva a dritta, l'autorità, come vedemmo, guardava a sinistra.

Nè pur in codesto fatto, nei cento anni che sono decorsi, non si può dire che siasi fatto un progresso. Sussiste ancora il prestigio del coraggio, sussiste ancora la falsa idea dell'onore. Ed anzi crebbero i sofismi e le sottigliezze e i sotterfugi della mente nel cercare i modi di salvare l'onore senza nemmeno fare appello al coraggio. Son noti i molti duelli a' dì nostri, dovuti indire ed accettare, per far pago il rispettabile pubblico che chiama vile chi non discende sul terreno, foss'anco per un nonnulla; duelli così ben preparati dai pietosi padrini, che la vita de' duellanti fu tanto al sicuro sul terreno della battaglia, quanto sull'origliere dei placidi riposi; onde contemporaneamente alla misura delle pistole e all'assaggio della polvere, e al giuoco de' bussolotti onde si facean scomparire le palle micidiali, il più celebre ristoratore della città stava ammannendo il più lauto asciolvere, e apprestando sulla mensa lieta lo spumante sciampagna. E ciò tuttavia fu decretato potesse bastare per l'onore. Però, stando così le cose, ed essendovi nell'umanità malattie del cervello croniche e incurabili, si può ben profetare un completo fallimento alle società che in Francia, in Germania, in Inghilterra s'instituirono contro il duello; a meno che non vi si consocii l'autorità costituita fondando i tribunali d'onore, onde provvedano a riparare coi loro placiti a quelle ingiurie speciali che fin qui non si credettero vendicabili che dal duello.

Ma comunque fosse e comunque sia di codesta faccenda, Angelo Emo lo propose e il conte V... lo accettò, senza darsi un pensiero al mondo di quel che se ne giudicava e diceva e scriveva dai loro dotti e onesti contemporanei. Anzi, se non il giovane Emo, che era istruttissimo, è probabile che il conte V... non sapesse nulla nè di Scipione Maffei, nè di Rousseau, nè di tutta la parte teorica relativa all'abolizione del duello e solo avesse contezza così in digrosso degli editti dei due ultimi Luigi di Francia.

Si recarono dunque in compagnia dei loro padrini al confine dell'estuario veneto, e là da veri gentiluomini che dovevan ferirsi senza aver nemmeno nè il bene nè il male di conoscersi, si apprestarono a incrociar le spade, fermo dagli arbitri che la sfida dovesse essere, secondo la più generale consuetudine, a primo sangue; il quale, secondo Rousseau, è il modo più assurdo di duello, più assurdo del medesimo duello all'ultimo sangue. Perchè, diceva esso in uno di que' suoi impeti di generosa facondia, al primo sangue?... gran Dio! e che vuoi dunque tu fare di questo sangue? beverlo forse, o bestia feroce? Ma questo primo sangue eruppe con un lieve zampillo dalla clavicola sinistra del conte V... a fargli rossa la bianca lattuga che gli usciva dal panciotto; zampillo lieve di più lieve ferita e che fu giudicata un nonnulla dal chirurgo ch'era presente.

Ma non può immaginarsi il lettore come riuscisse profondissima la ferita che ricevette l'orgoglio del conte, e l'ira che provò contro la fortuna, la quale diede la vittoria al suo giovane avversario, di gran lunga inferiore a lui nel maneggio della spada. Quell'ira però dovette chiudersela in petto, perchè le leggi della cavalleria non permettevano che, compiuta la prova dell'armi, si facesse il viso dell'armi all'avversario, al quale doveva anzi cordialmente stringersi la mano.

Adempiuto pertanto alle prammatiche posteriori al combattimento, il conte V... e il giovane Emo e i padrini e il chirurgo ritornarono tutti a Venezia.

Il conte entrava nella laguna che facevano le tre ore di notte. Torbido com'era, e pur non avendo nessun proposito bene deliberato in testa, discese all'albergo, e, ripartito, andò alla casa Salomon dove aveva in animo di recarsi fin dalla prima sera, ed erasi indugiato, assalito, come il lettore sa, da cento pensieri in battaglia. Nè cosa volesse fare, ei lo sapeva nemmeno, dopo ventiquattr'ore; bensì, per determinarsi, quando fu là, percosse due o tre volte col martello la porta che rispondeva alla parte di terra.

Le imposte si spalancarono, e si mostrò il guardaportone.

- Non è in casa nessuno, diss'egli, senz'attendere che il nuovo venuto parlasse.

- Nessuno?

- L'ho già detto.

- Allora aspetterò fin che venga qualcuno.

- Quando non c'è nessuno in casa, ho l'ordine di non lasciar entrar anima viva, signore.

- Non c'è nemmeno l'illustrissima contessa V... di Milano?

- Nemmeno. Ma anche allora ch'ella è in palazzo, gli è come se non ci fosse; e non riceve nessuno, nessuno affatto.

- Ciò va bene. Ma io sono il conte suo marito, venuto espressamente da Milano, e devo e voglio e ho il diritto d'entrare.

- V. S. illustrissima mi perdoni, ma debbo tenere gli ordini. Io poi non so che V. S. illustrissima sia davvero...

- E credi tu ch'io voglia vendermi per quello che non sono? Va là in malora e lasciami entrare, ch'io stesso parlerà a' tuoi padroni e alla contessa. E così dicendo sforzò, a così dire, l'ingresso; ed entrò in quel lungo androne che, nelle case di Venezia, mette in comunicazione la parte di terra con quella del rio.

- Signore, questa è una violenza di cui il padrone, che è senatore...

- Taci, e bada a te, che nemmeno il diavolo basterebbe a farmi uscire di qui, non che un senatore; e ho nelle valigie il tuo padrone e la tua Repubblica e il Senato e il doge e il corno.

Così dicendo, calcato in testa il cappello a tre punte filettato in oro, abbottonatosi il soprabito turchino da viaggio, ch'era lungo fino agli orli degli stivali e aveva il bavaro pur filettato in oro che copriva le spalle, misurava a gran passi quell'androne colla grande e grossa figura; spingendosi di tanto in tanto fin sul primo gradino della scalea verso il rio a guardare a dritta, a sinistra, a porger l'orecchio, a stare in ascolto se mai venisse qualcuno; poi tornava a passeggiare innanzi e indietro, facendo risuonare sotto la vôlta lo sgarbato scricchiolio de' suoi stivali forti.

Ed or lasciamolo passeggiare a sua posta, chè noi dobbiamo ritornare al palazzo Pisani fra i gondolieri schiamazzanti, a piedi delle scalee, nei cortili interni, ad assistere al passaggio delle belle veneziane, e a dare il braccio alla contessa Clelia per ajutarla ad entrare in gondola e ad adagiarsi sotto il felze.

Scendevano dunque tutte a quell'ora dallo scalone di casa Pisani le ultime e più cospicue beltà patrizie convenute all'accademia. E precisamente s'eran trattenute le ultime per un tacito accordo della loro ambizione e della loro civetteria ad accrescer l'ansia de' giovani cavalieri, aspettanti in due schiere sotto l'atrio che esse facessero loro la carità di qualche occhiata. Discendeva la contessa A..., quella che possedeva gli occhi più grandi e più glauchi in tutto l'estuario veneto. Beltà calcolatrice e perfida, che si compiaceva della interminabil schiera delle sue vittime, e che bisognava ostentar di sprezzarla, per farle spuntare in cuore, se non l'amore, almeno qualche velleità di simpatia. Discendeva la M..., bruna beltà capricciosa, dalla pelle di raso, e dall'occhio andaluso, lucente e tremulo come l'astro di Venere, e che precisamente, pari alla dea che imprestò questo nome a Lucifero, trattava lo sposo come Vulcano, quantunque non fosse zoppo, e lo sagrificava a Marte, anzi a un drappello di semidei più o meno guerrieri che si movevano in evoluzione in faccia a lei, e ch'ella cangiava e sprecava come i guanti e le pantofole. Discendeva la B..., bellezza epigrammatica e mordace, che già navigava cogli anni verso l'equatore della vita femminile, e copriva di nèi le incipienti rughe, che un suo amante corbellato e tradito chiamava i solchi del peccato. Discendeva la S..., beltà perfetta, ma più carnale che spirituale, dall'occhio di capra, dal collo della Diana efesia, dalle membra in cui trionfava la linea curva; sparpagliante a tutti sorrisi ed occhiate, e che era la delizia dei giovinotti in pensione, che, varcati i trentacinque, galoppavano verso i quarant'anni.

Discesero altre più o meno desiderate, più o meno belle, più o meno alte, più o meno grasse; sebbene il guardinfante dal cinto in giù le facesse tutte d'una circonferenza... e tra l'ultime discese la contessa Clelia, che Alvise Pisani e il procurator Foscarini accompagnarono alla scalea, presso alla quale, sotto l'atrio, successe come un ingorgo d'uomini e donne, mentre al di fuori era una confusione inestricabile di gondole e di gondolieri, i quali rispondevano, Vengo, Son qua, al servo colla torcia che gridava i nomi dei signori che si presentavano per andar via: Casa Mocenigo, conte Erizzo, senator Barbaro, Polcastro, Caotorta, Zen, contessa Rezzonico, contessa V..., e questa, dopo un quarto d'ora d'aspettazione, sentì la voce del gondoliere Bianchi, ch'era scivolato tra gondola e gondola fin lì. Il conte Pisani diede il braccio alla contessa, che discese finalmente i gradini, e si adagiò sotto il felze.

Intanto da più di mezz'ora Amorevoli stava nella sua gondola ferma in Canal grande, importunando di continuo il gondoliere:

- Ma bada che non ti sfugga.

- La se fida de mi...

- Ma sai tu ch'è già passata un'ora...

- Gnanca mezz'ora, sior.

- In tante gondole, come vuoi tu conoscere?...

- La lassa far a mi. Nu altri semo come bracchi... se ghe ze el salvadego... nol scapa... La se meta intanto a dormir.

- Ho già visto a passare più di trenta e di quaranta gondole.

- De zento che ghe ne ze... la fazza conto, patron, che semo indrio... Ma la guarda che la ze là... ch'el se consola, sior. E spingendo la gondola codiò dalla lunga quella della contessa per qualche tempo, poi, quando gli parve seconda l'occasione, le si portò ai fianchi.

- Buon dì... compare, disse il gondoliere al Bianchi.

La finestra del felze d'Amorevoli era a due dita dalla finestra del felze della contessa.

- Donna Clelia, egli disse...

Ella trasalì a quella voce, e non rispose; Amorevoli seguì a dire altre parole, ma la contessa non parlò.

Allora il gondoliere Bianchi che, stando in poppa, s'accorse del silenzio della contessa, sospettando ch'ella fosse in un malo impaccio... diede due o tre colpi di remi... e si portò innanzi di tutto lo spazio che misura appunto una gondola, e disse anche qualche mala parola al gondoliere di Amorevoli; e siccome era di tanto più robusto di colui... lo sopravanzò di sì lungo tratto che l'altro indarno s'attentava di raggiungerlo; mentre come un fuoco d'artifizio Amorevoli sagrava al lento gondoliere. Infine, la gondola della contessa svoltò nel rio San Polo. Amorevoli dice al gondoliere: - Va là e t'affretta che la raggiungeremo. Ma il Bianchi era già pervenuto alla casa della contessa, che Amorevoli procedeva ancora discosto. Se non che, in quel punto, ode la voce della contessa, anzi un grido, poi una voce d'uomo, e un rumore di parapiglia. È vicino alla scalea della casa. È presso alla gondola della contessa; vede il gondoliere Bianchi che appoggia un colpo di remo sul cappello a tre punte di un uomo d'alta statura, ch'ei ravvisa pel conte marito. Il cappello a tre punte, inconscio di tutto, fa tre giri grotteschi come un paléo, e cade in laguna. Il conte sfodera la spada e si fa addosso al gondoliere, e l'uno e l'altro cadono a fascio nella gondola, intanto che la contessa piega come in deliquio sulla prora... Tutto questo avvenne in men tempo che noi abbiamo impiegato a dirlo... e Amorevoli, inspirato non si sa da che, ma pronto come una molla che scatti, prende la contessa e, ajutato dal gondoliere, la porta di peso nella propria gondola... mentre dice: - Or t'affretta e non farmi il poltrone.

Nè il conte, nè il gondoliere Bianchi che stavano a fascio nella gondola, non feriti per fortuna, ma bensì martellandosi senza distinzione di rango, poterono veder quel ch'era avvenuto; nè il guardaportone accorso, intento al parapiglia; onde il gondoliere d'Amorevoli si partì senz'impicci... e dopo cinque minuti era già in Canal grande.

Quando furono colà, Amorevoli respirò; ma non era ancora tranquillo, sicchè fece intendere al gondoliere che vogasse più al largo... e il gondoliere si spinse infatti verso il canal de' Marani. Intanto la contessa fu scossa dagli aliti freschissimi della notte e tanto quanto si riebbe; e vedendosi faccia a faccia con Amorevoli, raccolse gli sparsi pensieri e, fatto alla meglio il riepilogo di tutto, gli strinse la mano. Certo che non avrebbe fatto nemmeno quest'atto, per sè al tutto innocente, se fosse stata pienamente in sè stessa; ma dal recente turbinìo dei sensi, la ragione non essendosi ancora tutta quanta sviluppata, l'istinto teneva il suo posto; e l'istinto, il men che potè fare, fu di permettere che la sua mano stringesse quella d'Amorevoli, in segno di gratitudine.

E dopo quella stretta di mano, che lasciò un'impressione indefinibile sulla mano di Amorevoli, vennero le parole tronche, breviloquenti, infuocate, che non ripetiamo perchè per noi non avrebbero senso, tanto ne avevano per quei due! parole che, nell'enfasi erotica, per quelli che le profferiscono hanno un significato che non è inteso da chi le ascolta nella calma di un cuore senza passione. Bensì nella pienezza luminosa di quella gioja istantanea, sapean pur penetrare colla loro acutissima fitta i pensieri del passato e del futuro, e i laceranti rimorsi.

Ma vi sono momenti della vita in cui, al cospetto di un bene presente insperato e supremo, non possono prevalere tutti gli altri pensieri e tutti gli altri dolori. Momenti in cui persino il colmo della sciagura, che pur troppo si presagisce dover essere duratura, comunica al piacere fuggitivo un'esaltazione senza pari.

E qui ci vorrebbero le essenze di rosa, di mirra e belgioino distillate già nella fabbrica di Tomaso Moore di Londra, e passate poi in Italia nella casa figliale di Prati; qui ci vorrebbero le flebili eleganze di Aleardi, di Maffei, di Gazzoletti, per cantare il cantante Amorevoli che muto e pensoso, stava contemplando l'inclita donna pensosa e muta; qui ci vorrebbe qualche svolazzo degli altri poeti minori, che appartengono alla famiglia dei pettirossi, dei canarj e dei capineri, perchè aliassero e gorgheggiassero e pipilassero in segno di festa intorno a costoro, che usufruttano un quarto d'ora di gioja ineffabile, a dispetto della loro falsa posizione.

Notte, cielo stellato, chiaro di luna, Venezia, canal Orfano, canti lontani smorenti nell'aria, gondolieri colle sventure d'Erminia in bocca. Due esseri nell'infelicità felici, un marito terribile lasciato sotto il pugno e il remo d'un gondoliere poeta, eccitabile e fantastico; un passato con de' rimorsi, un avvenire tenebroso: ecco, o signori, consommé di poesia e di romanticismo.

Or qui venite, o giovani fantasiosi e teneri, e voi tutti, che se foste fiori, non potreste esser altro che l'erba sensitiva, venite e volteggiate a vostra posta e in tutti i modi in codesta azzurra sfera che vi appartiene in diritto. Quanto a noi, non abbiamo a far altro; chè il nostro cuore è ruvido oggimai come la pelle di un postiglione.

Ma dove eran diretti que' due felici infelici?... Ma in che ora il gondoliere rivolse il ferro dentato verso la città?

La risposta a queste domande il lettore potrà averla assistendo in seguito a strane cose che avverranno nella città di Milano nell'anno 1766. Per ora,

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse,

nè più vi possiam leggere innanzi.

 

 




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